Capitolo 3 - Hai intenzione di rompere qualcos'altro?

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La camminata serale mi aveva giovato, tanto che la mattina seguente mi ero svegliata ancor più presto del solito. Avevo abbastanza tempo per preparare i muffin al cioccolato. Ne lasciai un paio senza cacao per aggiungere delle gocce di vaniglia, per Amelia.

Dopo aver messo i pirottini con il composto nel forno, approfittai per scrivere qualche storia sul quadernino blu. Decisi di non continuare con storie brevi, ma scegliere un'unica trama da dividere in parti. Iniziai ad abbozzare nella mente qualche idea nuova.

Mi piaceva scrivere per i gemelli. Alisia e Andrea mi ascoltavano sempre con attenzione. Quello che scrivevo trovava un senso nell’esatto istante in cui le scene prendevano vita nella loro mente.

Scrivere era più un passatempo che una passione. Ne avevo altre di passioni, altri di obbiettivi. I miei sogni giravano tutti intorno alle fotografie e alle lingue, proprio come mia madre. Desideravo tanto viaggiare in posti diversi come lei.

“Cos’è questo profumino?” La voce di Dante destò i miei pensieri, ma al contempo mi ricordò di spegnere il forno. Ci mancava poco che succedesse di nuovo.

“Accidenti. Stavo per chiederti che ci fai sveglio, ma devo dire che è stata una fortuna.”

“Perché?”

“Stavo per bruciare i muffin.” E ingenuamente, dopo aver spento il forno, aprii la porta lasciando che una vampata di calore raggiungesse la mia mano. La ritrassi istintivamente, ma la sentii comunque bruciare.

“Ma sei scema? Che volevi fare?”

“Sicuramente bruciarmi la mano, era proprio quello il mio piano.” L’ironia doveva aiutarmi a sopportare il dolore, ma ormai le mie dita iniziavano a gonfiarsi.

Mi osservò, quasi analizzando la situazione. “Ha funzionato.”

“Ma davvero fai?”

“Cosa dovresti fare? Intendo, non servirebbe del ghiaccio ora?”

Gli chiesi di prendere il barattolo di sale, mentre io presi la prima busta di verdure che trovai nel congelatore.

“A che ti serve il sale?” domandò passandomelo.

“Ho fame.” Non capivo se riuscisse a cogliere la mia ironia, così mi spiegai dopo. “In teoria dovrebbe alleviare il dolore.”

“Ah.”

In quel momento pensai che forse nonna Ada mi aveva ascoltato e gli aveva lanciato una maledizione. Così mi allontanai leggermente da lui, non volevo che mi attaccasse altra sfortuna. Mi guardò confuso, ma io distolsi subito lo sguardo.

“Ma che problemi hai?” fece lui accorgendosi del mio atteggiamento ambiguo. A ogni sua mossa, io mi allontanavo di più. “Mica sono stato io a bruciarti la mano.”

“Forse…” sussurrai.

In quel momento arrivò anche Adrian a darci il buongiorno. Non si svegliava mai a quell’ora e sicuramente non prima degli altri, ma magari si era accorto dell’assenza dell’amico. Chissà perché lui si era svegliato così presto…

Adrian si accorse della mano e ci rise su quando gli raccontai l’accaduto. “È ovvio. Lo sai che il forno continua ad essere caldo appena lo spegni?”

Assottigliai gli occhi. “Ah sì? Non lo sapevo.”

Aspettammo gli altri per fare colazione tutti insieme. Dante pareva sentirsi fuori luogo o forse era solo una mia impressione.

“Fate sempre colazione insieme?” chiese d’improvviso, mentre riempivo il bicchiere di Amelia di aranciata.

“Sì, perché?” rispose Adrian, ma Dante non replicò. Quel ragazzo iniziava a sembrarmi strano, forse era un altro di quei messaggi che il fato mi inviava. Il primo segnale era stata la tazza. Un segnale fin troppo chiaro.

Lo osservai tutto il tempo. Inizialmente era pensieroso, poi iniziò a farsi prendere dalla conversazione che si creava ogni volta a tavola. Ariele sapeva coinvolgere le persone e trovare sempre nuovi argomenti interessanti. Aveva la capacità di incuriosire anche con le storie del telegiornale! E io odiavo il telegiornale. Sembrava come se il loro intento fosse portare negatività e incutere timore.

Poco prima di pranzo, Dante e Adrian decisero di uscire e pranzare fuori. Ariele portò invece Agnese, Amelia e i gemelli in piscina, dove lavorava un suo amico. Così rimasi da sola. Chiamai Luca per farmi compagnia e si precipitò a casa.

“Perché non sei andata anche tu in piscina?”

“Non avevo voglia” e feci spallucce come per normalizzare quella mia decisione.

“O perché non si sa mai cosa può succedere in casa” imitò la mia voce.

Non aveva tutti i torti. Mi ero talmente fissata con la storia di prendermi cura dei miei fratelli e di occuparmi della casa, che era diventata quasi un’ossessione. Allontanarmi significava perdere di vista anche il minimo dettaglio.
Sentivo come di avere delle grandi responsabilità, di dover dimostrare ai miei genitori che potevamo cavarcela. Volevo che la nostra famiglia continuasse a rimanere unita, che a nessuno sfiorasse l’idea di abbandonarci. Quel compito spettava a me.

“Devo stirare un po’ di vestiti, mi fai compagnia?” chiesi poi e annuì.

Rimase tutto il tempo a fissarmi, mentre cercava di aiutarmi più che poteva.

Ogni tanto la mia mente mi portava a qualche strana fantasia. Mi chiedevo se tra noi sarebbe rimasto così per sempre. Era già diventato parte della mia famiglia, ma non nel senso a cui pensavo in quel momento mentre lo osservavo piegare i vestiti con il sorriso stampato in faccia. Tornai alla realtà appena realizzai che per lui ero solo un’amica speciale, non mi vedeva come qualcosa di più.

“E pensare che mia madre si lamenta che non l’aiuto con le faccende” commentò guardandomi. Per poco non si accorgeva che lo stavo letteralmente fissando.

“Ah sì?”

“Sì. Beh, sicuramente non sono la cosa più divertente al mondo. Ma farle con te diventa piacevole” ammise.

“Forse è solo perché non ci sono altri modi per stare con me” ironizzai.

Sorrise. “Farei qualsiasi cosa se avessi te al mio fianco.”

Quelle sue parole mi facevano uno strano effetto. Continuavo a ripetermi che per lui ero solo un’amica. Era l’unico modo per tornare alla realtà e non sprofondare nel mondo dei sogni. Cercai di fissare il mio sguardo sul ferro da stiro per distrarmi.

“Ti ricordi alle elementari il giorno di San Valentino?” continuò. Come scordarselo, ma mi finsi confusa solo per poter ricostruire quel ricordo attraverso le sue parole.

“Dovevamo scrivere dei biglietti ai compagni di classe che amavamo. Io ne scrissi uno per te, tu invece a una ragazza. Al tempo era la tua migliore amica. Io non ci rimasi male, volevo solo che tu leggessi la mia lettera e che apprezzassi il mio coraggio. Tu l’hai letta e posso giurare di averti vista sorridere. Poi però hai deciso di mettermi in imbarazzo leggendola alla classe.”

Risi per l’imbarazzo. “Erano tutti così curiosi!” mi discolpai.

“Certo. Solo che io non me l’aspettavo e preso dalla rabbia ho strappato la lettera buttandola nel cestino.”

Mi ricordavo bene. “Ci ero rimasta male… Mi era dispiaciuto molto, sai? A casa, ripensandoci, non capivo perché avevo agito in quel modo.”

“Nonostante questo mi piacevi ancora”, confessò, “e continuavo a difenderti sempre.”

Avrei voluto dirgli tutto in quel momento, ma ce n’erano stati tanti altri di attimi che non avevo colto e così decisi di rimanere in silenzio. Soprattutto quando lo vidi sorridere ancora come per sottolineare quanto fosse assurdo o patetico quel ricordo.
Quanto avrei voluto che quella sua confessione non fosse riferita solo al passato.

Dopo qualche ora, Luca dovette tornare a casa. Lo abbracciai prima di chiudere la porta principale e tornare ad essere sola. Senza perdere tempo mi fiondai in cucina per preparare la cena. Le mie giornate erano monotone, ma ci avevo fatto l’abitudine.

Il mio esperimento culinario non andò a buon fine. Fortunatamente tornarono tutti tardi e stanchi. Solo Ariele e Adrian restarono svegli.

“Tra poco vengono i miei amici” disse quest’ultimo con il telefono in mano.

“Ancora? A quest’ora poi?”

“Beh, non so, devono venire domani mattina come se fossero bambini di cinque anni?”

Mi arresi, non aveva tutti i torti. Forse era solo l’idea di rivedere Dante a turbarmi. Quel ragazzo non prometteva nulla di buono.

Quando arrivarono, si abbandonarono tutti sul divano. Per qualche secondo restai a fissare Enea, non riuscivo a capire cosa avesse di così simile a Luca oltre ai capelli. Quando lo notò, distolsi subito lo sguardo. Non volevo apparire una ragazzina ossessionata dagli amici del fratello.

Decisero di giocare alla play e rimasi lì per passare il tempo. Nonostante fossi affamata, non avevo intenzione di mettermi a cucinare una seconda volta. Occupai un piccolo spazio nel divano, l’unico angolino rimasto casualmente libero.

Ad un certo punto il mio stomaco brontolò e tutti si voltarono verso di me come se non fosse una cosa normale. In realtà era stato solo il momento ad essere sbagliato per il silenzio che si era creato. Tornarono con la loro attenzione rivolta alla partita di calcio a cui stavano giocando.

“Ma non hai mangiato?” chiese Adrian nonostante avesse anche lui un joystick in mano e fosse preso dal gioco.

“No” risposi pensando che non continuasse. Sembrava abbastanza concentrato da non darmi troppa importanza.

“Pensavo che avessi cucinato, sentivo un odore strano prima” continuò.

“Già, dovrei smetterla con i miei esperimenti…” borbottai.

“Non potevi prepararti qualcos’altro?”

A mia sorpresa, Dante si mise in mezzo al discorso. Non sapevo se stupirmi più del fatto che ci avesse ascoltati o per ciò che disse in seguito: “Che ti importa? Se non vuole mangiare, lasciala morire di fame.”

All’inizio quello era esattamente il mio piano, ma cambiai idea irritata. “Sai, mio fratello si preoccupa per me. A quanto pare non sai cosa significhi essere un fratello!”

“No infatti, non ho fratelli!” Lo rivelò in modo schietto e limpido, come se la cosa non lo toccasse affatto.

“Vado a mangiare del gelato, da sola” precisai. “Non fate rumore.”

Appena presi una vaschetta di gelato dal frigorifero, però, sentii le loro voci farsi più accese. Dopo un paio di cucchiaiate, fui costretta a tornare in salotto per chiedere di abbassare i toni. In quel momento vidi Agnese assonnata arrivare in cucina.

“Non riesci a dormire?”

“Ho solo sete” ammise. Per fortuna non avevo ancora spento la luce di camera sua.

Continuai a gustarmi il mio gelato, controllando di volta in volta quanto ne rimaneva per finirlo. Sentii di nuovo le loro voci. Qualcuno di loro aveva vinto e stava urlando dalla felicità. Quel qualcuno era Dante, l’unico dettaglio che non mi sorprese ulteriormente.

“Abbassa la voce!” esclamai infuriata avvicinandomi a lui, ma non mi diede ascolto. Continuava a sfidarsi con Enea e Lorenzo.

“Tanto sapete che vi batto!”

“Ariele, digli qualcosa!” mi lamentai affidandomi a lui, ma fece spallucce non sapendo come risolvere la situazione. Sbuffai sperando non esultassero ancora.

Non andò come sperato. Appena Dante perse una partita, i suoi amici ne approfittarono per deriderlo. Il problema era che alzavano tutti la voce e insieme non facevano che creare un grande casino. Dante arrabbiato peggiorava la situazione con i suoi insulti. Sembrava se la fosse seriamente presa per aver perso una singola volta, non tollerava le prese in giro dei suoi amici.

Stavano tutti dormendo, ma con quella confusione si sarebbero sicuramente svegliati. La mia preoccupazione maggiore era Agnese.

“Abbassate la voce!” tentai ancora. Anche Ariele e Adrian cercarono di aiutarmi. Si accorsero tutti di star esagerando, così si ammutolirono tranne Dante.

“Vuoi fare silenzio?” mi rivolsi a lui che continuava a provocare i suoi amici.

“Che vuoi tu?” Non prestai attenzione alla replica, perché con la coda dell’occhio notai Agnese salire le scale frettolosamente.

“Oh no” mormorai. “Ecco, te l’avevo detto di stare in silenzio! Rovini tutto, ancora una volta!”

Guardai la sua espressione confusa prima di raggiungere la stanza di Agnese dove si era rifugiata. Quella era stata una delle sue reazioni alle urla: allontanarsi dalla fonte del suono.

“Ehi” sussurrai avvicinandomi al letto. Si era rannicchiata sotto alle coperte. “Lo sai che non ce l’avevano con te, vero? Stavano solo giocando e… sai come sono i maschi, vogliono sempre vincere. Gli amici di Adrian sono così, un po’ arroganti.”

Avrei voluto continuare a descriverli, ma non sapevo quali aggettivi fossero adatti e se potessero realmente migliorare la situazione. Mi avvicinai di più a lei fino ad abbracciarla. Portai la mano destra sulla sua guancia e la massaggiai delicatamente con il pollice, nel tentativo che quel gesto potesse distrarla.

“Non sempre le persone urlano per cattiveria. A volte lo fanno senza un obbiettivo. Non per ferire. Ma è un gesto naturale…” continuai, anche se non esisteva una spiegazione plausibile. Sapevo che non avrebbe fiatato almeno fino alla mattina seguente, così rimasi ancora un po’ aspettando che si addormentasse.

Era da tempo che non succedeva e quasi credevo che fosse finita. La colpa della sua paura era da attribuire alla scuola. Lei si rifugiava spesso tra i libri, ma quel posto le rendeva difficile trovare pace. I suoi compagni avevano l’abitudine di chiacchierare tra di loro con toni sempre più accesi fino ad arrivare a fare battutine di cattivo gusto. Agnese nemmeno li ascoltava, impegnata com’era a spegnere le loro voci nel cervello per evitare di scappare dalla classe. Anche se non l’attaccavano, lei si sentiva attaccata.
Tutto a partire da quell’episodio, quando era stata spettatrice di un atto di bullismo nei confronti di una ragazzina. Da lì, lei si era sentita impotente, bloccata, incapace di prendere coscienza e agire razionalmente. Da lì, aveva iniziato a scappare dalle urla, dalle offese, dalle provocazioni, dall’odio.
Agnese lo aveva raccontato solo a me. Forse perché ero stata insistente, ma a me piaceva credere che si fidasse e avesse bisogno di qualcuno che potesse condividere quel piccolo ricordo. Così avevo spiegato agli altri di quella sua paura senza andare nei dettagli.

Presi un lungo respiro prima di spegnere la luce e uscii dalla camera attenta a non fare rumore.

“L’ho fatta grossa questa volta?” La mia tranquillità fu spezzata dalla voce di Dante.

“Devo sempre trovarti qui? E poi, l’avevi combinata grossa anche l’altra volta. La tazza ti sembrava una cosa da nulla?”

“E questa volta cosa ho distrutto?”

Sembrava curioso di sentire la risposta, ma io non sapevo esattamente cosa dire.
Poi ricordai che non avrei dovuto stargli troppo vicino per via della maledizione. Così mi allontanai e mi seguì. Entrai in cucina, Dante fece lo stesso.

“E ora? Hai intenzione di rompere qualcos’altro?” lo stuzzicai.

Sbuffò. “Quante volte ancora me lo ripeterai?”

“Non so, fino a quando non mi passa”, feci una pausa di silenzio, “e dubito che passerà.”

“Cosa è successo prima?” domandò.

“Combini guai e poi vuoi spiegazioni? Non credi sia meglio evitarli dal principio?”

“Credo che sia nella mia natura rovinare tutto. Allora, mi dici cosa ho fatto stavolta?”

“Agnese fugge dall’odio e dalle urla. In quel momento stavi esagerando con il tono di voce e le è venuto in mente un episodio passato. Non è la prima volta che accade ma noi cerchiamo di evitare che questi episodi possano ripetersi.”

“Mmh capito.” In realtà sembrava più confuso di prima. E lo ero anch'io. Perché era così interessato? Lui era l'artefice e allo stesso tempo si stava pentendo delle sue azioni? No. Sicuramente non si trattava di pentimento.

"Ora puoi andartene" gli ricordai. La sua presenza mi infastidiva, o forse mi agitava, o entrambe le cose!

"Mi stai cacciando?"

Non risposi più. Volevo solo che si allontanasse. Se avessi continuato a parlargli, non sarebbe successo.

A un certo punto, nuovamente nel bel mezzo di un silenzio tombale, il mio stomaco brontolò.

"Dovresti mangiare qualcosa" disse.

"Non dovevo morire di fame? E poi ho già mangiato il gelato. Non mi va niente. Non c'è bisogno di fare il premuroso ora."

Sbuffò infastidito dal modo in cui mi stavo rivolgendo a lui. "Ho capito, me ne vado. La mia presenza non è gradita. Mi fai sentire un mostro così."

Lo vidi allontanarsi. Sbattei le palpebre sconcertata. Un po' perché mi sentivo in colpa, un po' perché stranamente era serio e sembrava offeso.

Dopo qualche minuto, Adrian entrò in cucina.

"Cos'è successo con Dante?"

"Che vuoi dire?"

"Se n'è andato senza salutare e non sembrava molto in sé."

Com'era possibile? "Ho semplicemente spiegato che ha sbagliato. Lo sai anche tu che è colpa sua se Agnese si è sentita male."

"Sì, ma lui questo non lo sapeva."

"Lo stai difendendo, sul serio?"

"Dante non ci conosce. Anzi non vi conosce. Con lui è così all'inizio, ma ci prova a capirvi." Non ero dello stesso avviso. "Non mi sembri convinta... So che dall'episodio della tazza ti sta antipatico, ma vedrai che lo capirai anche tu."

"Capirlo? Voglio solo che mi stia lontano! Da quando è entrato nella nostra casa, le cose sono andate storte."

"Certo che sei veramente drammatica."

"Ecco, ti ha anche influenzato!" Iniziai a gesticolare disperata.

Sorrise, si avvicinò per darmi un bacio sulla fronte e disse: "Non trattarlo male. Ti sembrerà strano, ma conoscendolo per lui è stato un grande sforzo comprarti un'altra tazza. Deve avergli fatto impressione la tua reazione. Non è il tipo che vuole farsi perdonare."

"E infatti non lo perdonerò mai, puoi comunicargli di stare tranquillo."

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Autrice
Ada si ostina a credere nel destino e nella sfortuna, lo vedrete anche nel prossimo capitolo. Il titolo sarà "Scusa". Riuscite a immaginare chi sarà a porgere delle scuse?

Fun facts (alcune parti della storia si ispirano a episodi che mi sono realmente successi):
- alle elementari ho ricevuto una lettera d'amore il giorno di San Valentino e mi sono comportata come Ada. Me ne pento? Assolutamente sì. Ora non ho più quel biglietto e tutto ciò che ricordo è la prima frase.
- il povero Dante non è l'unico ad essersi sentito un mostro per colpa di Ada. Quella stessa frase è stata detta a me ("così mi fai sentire un mostro") ma in quel caso non mi sono pentita. C'è chi si comporta veramente da mostro!

Alla prossima!

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