Portsmouth, 1787 - Tom

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Salpammo da Portsmouth il 13 Maggio 1787.

Il tempo era piovoso e ancora freddo, i quattro giorni di carro occorsi per portarci fin lì da Londra mi servirono a fare i conti col destino e a rassegnarmi.

Nella vita non avevo avuto gran fortuna, fino a quel momento, ma neppure potevo dire d'essere stato perseguitato dalla malasorte. Mio padre era stato un barrocciaio e aveva sbarcato il lunario senza troppa pena finché il suo terzo figlio, io, non aveva avuto nove anni. Avevo dunque goduto di un'infanzia piuttosto serena, cosa che nella Londra di quegli anni, povera e degradata, era una condizione quasi privilegiata.

Poi in un anno tutto era andato a rotoli: un incendio aveva bruciato il carretto con la merce che mio padre doveva consegnare l'indomani, e ucciso il cavallo. Il padrone della merce aveva preteso comunque il suo pagamento, poiché quella era già nella custodia del trasportatore, e all'improvviso mio padre non aveva avuto come guadagnare, né per pagare il debito né per mantenere la famiglia. Tutto può cambiare molto in fretta nella vita, ben più di quanto non ci piaccia pensare.

La miseria e la vergogna di vedere i suoi figli mendicare uccise quel pover'uomo in pochi mesi, e dietro di lui corse mia madre, che non aveva saputo farsi prendere come donna delle pulizie in nessuna casa borghese, dove per far la serva avrebbe dovuto accettare attenzioni che sdegnosamente rifiutò.

A dieci anni mi ritrovai solo, i fratelli appena più grandi imbarcati come mozzi su un paio di brigantini che commerciavano con le Americhe. Passai i cinque anni successivi a far più mestieri di quanti ne esistano: fattorino, galoppino, mendicante, scaricatore, lustrascarpe, ragazzo di bottega, spazzacamino, inserviente, spazzino, ladro. Poi anche io riuscii a imbarcarmi.

Ma il mare fu un'esperienza orribile; la promiscuità sulle navi era schifosa, la facilità di prendersi malanni d'ogni genere troppo alta, il terrore che incuteva il mare arrabbiato enorme.

Quando le onde si facevano muri d'acqua e la nave non era più che un guscio di noce ridicolmente piccolo e fragile, i diciotto anni ti urlavano a brutto muso che era follia giocarsi la vita a quel modo, e ti chiedevano perché sfidare un simile mostro a ingoiarti in un solo boccone.

Appena potei sbarcare, tornai a sgomitare tra una folla di disperati, cercando come sopravvivere sulla terraferma. Rubare, spesso, restava l'unico modo per non morire letteralmente di fame, ma lo feci una volta di troppo.

Finii in un 'hulks' stipato fino all'inverosimile, condannato a tre anni di carcere per aver tentato di rubare un sacco di farina. Non una cosa da poco sopravvivere in quell'inferno tre anni, avevo pensato, ma almeno ancora non penzolavo da una forca.

Inaspettatamente, però, il giorno dopo mi avevano caricato su un carro, con un anello di ferro al piede, per fissarci una catena al bisogno, e avevo sentito una parola: Portsmouth.

Pregando e imprecando qualcuno degli altri sul carro era riuscito a strappare un'altra parola: deportazione.

Avevo sbarrato gli occhi. Gli Stati Uniti avevano chiuso le porte ai deportati di re Giorgio III! Dunque, dove ci portavano?

Avevo ritenuto d'esser stato fortunato a non finire impiccato, ma dove avrei scontato i miei tre anni?

Da ultimo, tre altre parole caddero su di noi: New South Wales.

New South Wales! Avevo già sentito quel nome; in un'osteria d'infimo ordine avevo conosciuto un ex-marinaio dell'Endeavour, il vascello di Cook, che, ormai abbandonato il mare, raccontava dei suoi ultimi viaggi a chi gli offriva da bere; narrava dei terribili guerrieri Maori, feroci e determinati, in cui si erano imbattuti facendo rilievi cartografici in New Zeland. E degli «Indians», gli uomini più primitivi e schivi che gli Inglesi avessero mai incontrato, abitanti della nuova terra scoperta da Cook nel 1770.

Dopo tre anni di mare, attraversati ben due oceani, l'Endeavour aveva fatto trionfalmente ritorno in Inghilterra con la notizia che la terra Australis, l'ipotetico continente di cui fin dall'antichità era stata postulata l'esistenza, era stata scoperta e dichiarata nuovo possedimento Britannico.

New South Wales!

Ci portavano dall'altra parte del mondo, a costruire colle nostre mani una prigione da cui, fossimo mai usciti vivi a fine pena, non avremmo avuto alcun luogo civilizzato da raggiungere, essendoci per sempre inibito il rimpatrio.

Era la fine della nostra, della mia vita. A venti anni, ogni cosa era persa. Salii a bordo di un piccolo vascello, ormeggiato vicino a molti in partenza tutti con lo stessa destinazione, senza più paura: mi consideravo già morto.

Rabbrividii solo quando ci fecero scendere sotto il ponte e vidi le gabbie. Sette gabbie per fiancata, una dietro l'altra, con un passaggio centrale a separarle. Quattordici in tutto, in ognuna delle quali chiusero una decina di persone.

Dovettero spingermi giù a forza, perché ero consapevole che, chiusi i boccaporti, sotto il ponte non sarebbe più arrivato sole né aria. Trascinando i piedi, fui tra gli ultimi tre uomini della fila a essere chiuso. Tre in una sola gabbia? Ma non me lo chiedevo con vero interesse, ero tornato apatico e spento, rassegnato, al rumore del lucchetto. Poco dopo, infilarono con noi altri sei prigionieri.

Mi riscosse appena il loro pianto, mi resi conto che erano donne. Le avevano separate dal loro trasporto, le andavano sparpagliando tra le varie navi. Non serviva chiedersi perché ne assegnassero un po' a ogni vascello.  Mi sedetti cercando di chiudermi a riccio, ripetendo a me stesso: - La vita è finita. Smetti di guardarti intorno,  Thomas. Nulla conta più ormai. Niente deve più toccarti -.

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