Capitolo 18: Fumo

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OCTAVIA

Un cupo rantolo accompagnò, come di consueto, il lancio del pasto serale. E quando dico lancio, intendo un lancio in piena regola. La bordaglia verdastra ondeggiò pericolosamente, non appena la ciotola cozzò col pavimento, finendo con lo strabordare e il riversarsi per la gran parte in terra.

Sollevai la testa, senza alzarmi dal fondo della prigione, incrociando per sbaglio lo sguardo della guardia. Mi fissava, con un ghigno misto di sfida e superiorità scolpito nel volto.

Riabbassai subito gli occhi sulle mie mani, intente a giocherellare con un filo scucito della canottiera. Non perché mi sentissi intimidita, ma completamente sfinita ed ormai avevo perso ogni voglia di combattere.

Con la coda dell'occhio lo vidi sorridere soddisfatto e passare alla cella successiva, senza curarsi di recuperare la ciotola del pranzo, come sempre del resto. Se non si abbassava per posare la ciotola, figuriamoci se si sarebbe chinato a raccogliere il piatto del pasto precedente. Il soldato del pranzo era più gentile in quel senso, raccoglieva sempre tutti i piatti sporchi e ripuliva il pavimento, non che me ne importasse più di tanto. Del resto non mi importava più di niente. Né del cibo, né delle guardie, né di quello che gli altri potevano pensare di me e della mia debolezza. Niente.

Fissai la ciotola dal contenuto verdastro, mentre una zaffata di minestrone mi giunse alle narici. Involontariamente fui colta da un conato di vomito che a steno riuscii a trattenere. Portai una mano alla bocca, mentre con piede calciavo via il recipiente, facendolo scivolare lontano da me, proprio accanto a quello del pranzo ancora pieno di polpette. Sarà stato ormai il terzo giorno di fila che non toccavo cibo ed ero arrivata al punto in cui solo l'odore mi faceva rabbrividire.

«Devi mangiare.»

La voce di Alec s'insinuò nella mia cella come ad ogni pasto. Per un attimo ebbi un fremito di stizza, ma poi scrollai le spalle svogliatamente, voltando il corpo di novanta gradi e cerando di dargli le spalle il più possibile. Era da tempo ormai che continuava a parlarmi, ma io non riuscivo a trovare la voglia e le forze per rispondergli.

La consapevolezza. Era stata lei a fregarmi, o peggio, a spegnermi. Finché ero riuscita a non dare ascolto alle parole di Zane, a trovare una spiegazione a quello che era successo o almeno a provarci, ce l'avevo fatta a tollerare quella prigionia. Ma non appena le mie convinzioni avevano iniziato a creparsi, non c'era stato più niente che fosse riuscito ad evitare la valanga di pensieri che in poco tempo mi aveva sopraffatta.

Avevo iniziato con la consapevolezza di aver perso la mia unica possibilità di fuga, con la mia cattura da parte di Zane e la perdita di possesso della chiave della cella. Inoltre, come se non bastasse, qualcuno doveva aver richiesto un cambio della guardia alle celle, infatti, poco dopo il mio secondo imprigionamento il ragazzo narcolettico era stato sostituito con un altro uomo che, al contrario, doveva soffrire d'insonnia, dato che non ero riuscita a beccarlo mai, e dico mai, a dormire. Ed infine era giunto a darmi il colpo di grazia il racconto di Alec, mio vicino di cella, e della sua ragazza Rheol.

La consapevolezza di poter essere veramente io la Munus che tutti stavano cercando, la nipote di Diane, mi aveva sopraffatta. Non ne avevo la certezza, ma comunque ne avevo paura.

La paura, qualcosa da cui ho sempre cercato di fuggire, o piuttosto di distaccarmi. Eppure, in quella prigione tre per due, non avevo alcun modo di fuggire. E la paura, si sa, è sempre appostata dietro l'angolo, in attesa dal momento giusto per agire, il momento in cui sei più debole, più facile da soggiogare.

Non era giunta subito, all'inizio era stata mascherata dalla rabbia. La rabbia che provavo nei confronti di me stessa, la rabbia che sentivo quando mi guardavo attorno e mi vedevo chiusa da quelle quattro anguste mura. La rabbia che avvertivo non appena abbassavo lo sguardo sulle mie mani insensibili e stanche. Come avevo potuto non capire? Non si trattava di scoprire di avere un neo in più a sulla schiena, si trattava di scoprire di avere dei poteri. Poteri. Come suonava ancor assurda quella parola nella mia testa. Come avrei voluto avvertire nuovamente quel formicolio alle mani e non riuscire a collegarlo a nulla, a non collegarlo a nient'altro se non al torpore della notte o al freddo dell'inverno.

Credo di aver urlato, urlato forte, urlato con tutta l'aria che avevo nei polmoni. Avevo battuto la mano forte, sempre più forte, contro il pavimento, ingigantendo quell'irregolare livido bluastro, e mi ero ripetuta a mente la parola impossibile così tante volte da averne perso il significato.

Ma poi ho smesso. Non per via delle grida degli altri prigionieri, non per le minacce della guardia, né per le parole di Alec. Smisi perché avevo esaurito le forze, avevo esaurito le speranze. La rabbia, gli impeti, non mi avevano portato a nulla se non a un gran mal di testa. Avevo perso la lucidità e da quel momento nulla era più servito a niente.

E allora, solo allora, mi ero fermata. Come un giocattolo lasciato acceso tutta la notte che al mattino seguente ha scaricato tutte le pile. Ed era stato esattamente allora che la paura si era tolta la maschera, mostrandosi sul palco con tutti i riflettori puntati su di lei.

Se veramente ero io la Munus allora tutto quello che era successo sino a quel momento era stata colpa mia. La fuga, le battaglie, i morti... tutto.

Tutte le persone che si erano sacrificate durante il nostro cammino non lo avevano fatto per proteggere Lydia, ma per proteggere me. Uccisioni che si sarebbero potute evitare, persone che si sarebbero potute salvare se io non fossi mai arrivata su Ddaear Arall. Sapevo che non era del tutto sensato pensare qualcosa del genere. Era ciò che avevo ripetuto alla mia compagna giorno dopo giorno. Non si trattava di lei o di noi, ma di una Nazione intera. Di libertà. Ma allora perché non riuscivo a scrollarmi di dosso i volti di tutte le persone che avevamo lasciato indietro. E l'idea che tutto quello che era stato fatto fino ad allora, tutti quei chilometri e le scoperte, tutto era stato gettato in aria dal momento in cui mi ero fatta catturare a Ynda, di certo non aiutava a migliorare la situazione.

«Io non posso più sopportarlo» mi aveva detto Lydia l'ultimo giorno dell'attacco a Ynda «Questo continuo scappare e nascondermi aspettando che qualcuno si sacrifichi al mio posto mi distrugge.»

«Non si tratta di quello che tu puoi sopportare» le avevo risposto «Si tratta di rispetto. Rispetto per tutte quelle persone che si sono sacrificate per noi; per te; affinché riesca a portare a termine la tua missione.»

E pensare che avevamo avuto quella discussione solo poche ore prima del mio rapimento. Poche ore. Ed ora quella conversazione poteva benissimo esser ribaltata.

Per la prima volta riuscii veramente a capire quello che Lydia intendeva. Il che non significava necessariamente che avesse ragione, anzi, di ragione in quei discorsi ce n'era ben poca. Ma la capivo.

Sapevo ciò che la logica doveva portarmi a pensare. Lo sapevo, ma non lo pensavo.

Continuavo a stare lì, ora dopo ora, impotente, inutile se non addirittura dannosa. Cosa ne avrebbe fatto di me il Regno? Cosa avrebbe fatto con me? Uccidermi sarebbe stato il minimo. Ma se mi avessero usata come scambio? Come trattativa, o forse come trappola. Arrivai a pensare che se mi fossi lasciata morire forse avrei fatto solo che del bene. Smisi di mangiare, un po' per stanchezza, un po' per nausea, un po' per una protesta che solo io potevo capire. Una protesta contro la quale solo io ne avrei tratto le conseguenze.

«Guarda che se non mangi l'unica a rimetterci sei tu, non quelli lì fuori» continuò imperterrito Alec indicando il soldato seduto a guardia delle celle.

«È vietato estroflettere arti all'infuori delle barre» lo rimproverò la guardia, faina attenta a non perdersi neanche il più piccolo movimento dei detenuti.

«Non è così male, oggi ci hanno messo pure le cipolle.»

Chissà come, quella frase mi fece venire in mente mia madre e, di conseguenza, la mia famiglia. Da un lato ero contenta del beth oedd fatto a loro dall'Incantatore. Pensare che i miei genitori non avrebbero mai sofferto per la mia mancanza mi consolava. Ma dall'altro lato c'era una piccola egoista parte di me che ne soffriva. Sapere che nessuno si sarebbe ricordato di me mi faceva sentire più piccola e insignificante di quanto già non mi sentissi.

D'un tratto qualcosa mi arrivò addosso, rimbalzando sulla mia spalla e cadendo a terra subito dopo. Mi voltai in tempo per ricevere dritto in fronte quello che si rivelò essere un secondo pezzo di pane.

«Ma la vuoi piantare!» ringhiai.

«Ah finalmente reagisci» sospirò il mio vicino di cella.

«No» gli risposi, dandogli nuovamente le spalle.

«Sì» ribatté, lanciandomi un terzo tocco di pane raffermo.

«A che pro?!» dissi stizzita, voltandomi di nuovo nella sua direzione «Per continuare a marcire chiusa qui dentro come voi? Dimmi, tu da quant'è che stai qui dentro?» continuai, raccogliendo il pezzo e rilanciandoglielo contro.

«E invece lasciarti morire? Quello servirebbe a qualcosa?» mi domandò, abbassando il tono della voce per non farsi sentire dalla guardia e avvicinandosi un poco più a me.

«Tu non capisci» mi lasciai sfuggire fin troppo amaramente.

«No, sei tu a non capire. Sarà banale da dire, ma finché c'è vita, c'è speranza. Ni all fflam i wresogi unrhyw un.»

Lo guardai inarcando le sopracciglia.

«Una fiamma, una volta spenta, non è in grado di scaldare più nessuno.»

Roteai gli occhi al cielo (o meglio, al soffitto muffo della cella).

«Son certo che anche tu hai qualcosa per cui poter continuare a batterti, qualcuno.»

«Tu non sai niente» replicai.

Volevo spiegargli, ma non trovavo le forze per farlo, né la voglia. O forse non avevo gli argomenti per farlo. Non riuscivo bene a spiegare la situazione a me stessa, figuriamoci a lui.

Ripensai ai miei amici, a come li avrei protetti solo scomparendo. Avrebbero trovato un nuovo modo per farcela, ne ero certa.

«Se muoio faccio solo un favore a tutti.»

«Se muori non proteggi un bel niente. Il Regno si sta espandendo, ora più che mai. Vuoi che l'abbiano vinta?»

«Non l'avranno vinta.»

«E chi li fermerà? Chi se tutti facessero come te? Se tutti coloro che venissero feriti o catturato si lasciasse morire? In quel caso non rimarrebbe più nessuno pronto a combattere.»

Ci furono un paio di secondi di silenzio, in cui forse si aspettava che rispondessi. Ma non lo feci, rimasi immobile a fissare il livido sul dorso della mia mano.

«Non conosco la tua storia, né so come hai fatto a finire qui» continuò, riempendo il silenzio che ci circondava «ma se ti hanno portato via qualcosa di caro è giunto il momento che tu gliela faccia pagare. Portagli via tu stessa qualcosa. Reagisci! E per farlo non puoi lasciarti morire di fame, altrimenti giocheresti al loro stesso gioco, permettendo che ti privino sia della tua forza che della tua lucidità.»

Ripensai ai miei compagni, al viaggio, all'ultima sera. Ripensai ad Ilan, alla sua voce e al cupo suono che accompagnò la sua caduta una volta colpito da Zane. E allora, solo allora qualcosa si accese dentro di me. Dovevo trovare il modo di vendicarli, di ripagare il Regno, e ancor di più Zane, di ciò che aveva fatto a me e a loro.

Non so dire cosa fu realmente a far scattare il meccanismo, se le parole di Alec ed il suo tono, i miei ricordi o forse quella parte della vecchia me che credevo esser morta e che invece era solo nascosta sotto una macerie di pensieri.

Mi feci forza, rialzandomi con difficoltà, traballante. Ero rimasta seduta per così tanto tempo che mi sembrò essermi scordata come si camminasse. I muscoli erano intorpiditi e deboli, ma nonostante ciò riuscii a convincerli a muovere un passo dopo l'altro. Raggiunsi la ciotola, mi accasciai di fianco ad essa e la raccolsi delicatamente, come se avessi paura di romperla. Il cotto era ancora tiepido e mi scaldò le mani intorpidite.

«Primo passo: riacquisire un po' di zuccheri» sorrise Alec.

Primo passo: zuccheri, mi ripetei mentalmente, afferrando il cucchiaio ed immergendolo nella poltiglia verde.

I primi sorsi furono disgustosi e mi dovetti forzare a mandare giù quella specie di minestrone. Ma già alla quarta cucchiaiata smisi di provare repulsione, ma anzi me ne sentii attratta, sempre più. Tanto che decisi di lasciar cadere a terra la posata e di bere direttamente dalla ciotola il contenuto.

Avevo quasi finito quando si udì un sordo rumore provenire dall'ingresso delle prigioni. Mi voltai giusto in tempo per vedere la guardia di turno crollare a terra con un rantolo ed una figura in nero lanciare qualcosa nel bel mezzo della sala. In pochissimo tempo del fumo iniziò a spargersi tra le celle, costringendomi a indietreggiare e coprirmi il naso con una manica.

Un rumore di passi si fece sempre più vicino, fino a quando non vidi un paio di gambe bloccarsi proprio di fronte alla mia cella e voltarsi nella mia direzione. Dalla struttura corporea, doveva quasi sicuramente doveva trattarsi di un ragazzo, o comunque di un uomo. Lo sentii armeggiare con qualcosa di metallico.

Chiavi, pensai.

Non sapevo se esserne spaventata o se sperare finalmente di esser stata trovata e salvata.

Feci per domandare alla figura chi fosse quando le chiavi caddero di mano all'individuo e allora ne colsi un particolare. Lo vidi infatti piegarsi di scatto, ma traballare per un momento nel tirarsi su quando la sua gamba destra cedette sotto il peso del suo corpo.

Zane?

Angolo Autrice
Eccoci qui di nuovo, come va la vita? L'inverno sta arrivano! Oggi alla radio chiedevano: cosa vi fa effettivamente pensare "è inverno"? Io quando penso all'inverno, mi immagino sotto le coperte, una tisana calda che mi scalda le mani e una serie al computer da vedere alla penombra della mia cameretta. Ho fatto il terribile errore di scaricare un gran numero di canzoni italiane ed ora, ascoltandole mi distraggo perché le canto... dovrò scaricarmi qualche soundtrack in più mi sa. Riderete a sapere che ho scritto l'angolo autrice metà alla stazione di Viterbo, come una barbona, in attesa di un mio amico (CiuffoBiondo), in modo da poter tornare a Perugia insieme e l'altra metà alla stazione di Firenze, con un cornetto e un cappuccino in mano. Davanti a me era seduta una ragazza di poco più grande di me con calzette rosse ed un sorriso così splendente da avermi fatto ritrovare la fiducia nel genere umano. Non appena tornerò a casa domenica pubblicherò il capitolo (Ovviamente il treno ha ritardato e sono arrivata a casa tardissimo -.-).

Eccoci a bomba tornate dalla nostra cara Octy (non ditele che l'ho chiamata così). Che pensate? È strano vederla ridota così, lei che ha sempre cercato di essere una persona tutta d'un pezzo, che non si lascia intimidire da nulla. Ma d'altronde non si tratta di un robot di puro metallo e questo viaggio la sta mettendo decisamente a dura prova. Il percorso di Octavia, come personaggio intendo, è probabilmente il secondo, a pari merito con un altro, dei più complicati; per come la vedo io, nel capitolo di oggi ha fatto un grande passo in avanti , ma, purtroppo, anche uno indietro. Ma non voglio influenzarvi troppo sui diversi giudizi, quindi non vi dirò nulla di più e lascerò a voi libera interpretazione.
E per quanto riguarda il finale, anche voi avete avuto la stessa intuizione di Octavia? O pensate sia qualcun altro? qualche ribelle dai capelli color del grano od occhi turchini magari...
Alla prossima settimana amici mie, mi siete mancati davvero tanto.

TRIVIA
Il cognome di Ilan è Harvey. L'origine di questo cognome è bretone e si compone di due parole: "haer", che significa battaglia, e "vy", degno. Il nostro impavido ragazzo.

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