Capitolo 40

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Il monsone aveva lasciato posto a grigie e tetre giornate nuvolose. I superstiti tentavano di rimettere in sesto la città di Korkian, spalando il fango dalle strade e rimuovendo i massi provocati dallo sfascio degli edifici. Presto sarebbe arrivata altra pioggia e altro vento ma prima che gli elementi si scatenassero nuovamente, la popolazione doveva cremare i suoi morti. Molte famiglie piangevano la perdita di un loro caro, mentre altre non erano sopravvissute a quella tragedia. Interi nuclei familiari erano stati travolti dalla furia di quell'onda, morendo soffocati dal fango o trascinati via da quel fiume denso. I corpi estratti dalle case o recuperati lungo le strade, erano stati disposti su pire e dati alle fiamme. Innumerevoli falò si ergevano in tutta Korkian con buona pace delle riserve lignee della città, già limitate per la scarsa presenza di alberi sulla terra emersa.

Massimo con l'aiuto dei suoi servi, era riuscito ad estrarre il cadavere di sua madre dal fango. Era stato orribile per lui, vedere Egle in quelle condizioni. Il suo corpo ferito, gonfio e freddo era stato lavato e rivestito prima di essere posto su una delle pire della città. Se ne era andata senza neppure un funerale o un discorso in sua memoria, consumandosi lentamente su uno di quei roghi. Con lei altri sfortunati venivano arsi da quelle fiamme inesorabili e salvifiche. Pirozzi non avrebbe mai ricevuto l'urna con le ceneri della sua genitrice, perché mescolate a quelle di chissà chi altro, ma Korkian sarebbe stata risparmiata dall'epidemia che quei corpi in putrefazione avrebbero generato. Bisognava fare presto e bruciare tutte le salme prima della nuova ondata di mal tempo, inoltre urgeva trovare velocemente rifugio alla popolazione rimasta senza casa. Lungo le strade gli oracoli invitavano i superstiti a fare ammenda ed aiutare i più colpiti. Secondo il loro vaticinio il mare avrebbe presto ricoperto tutta la terra ferma,  inghiottendo anche quell'unico continente che ospitava la vita terrestre. Da quanto si sapeva Candace non esisteva più, inghiottita e sommersa inesorabilmente dalla furia del mare. Dovevano pregare la Dea che  impietosita dalla loro devozione, avrebbe potuto salvarli da morte certa. A quel punto non c'era altro da fare se non pregare, cantare inni sacri ed affidarsi alla clemenza della loro unica divinità.

Massimo, subito dopo essere stato tratto in salvo dai suoi servitori, aveva rivisto Elsa. Le aveva raccontato disperato della morte di Egle, chiedendole appena sue notizie. Da quel momento si era isolato, rimanendo trincerato per giorni nelle stanze messe a sua disposizione ed uscendo di casa solo per la cremazione di sua madre.

Aurelie e quattro valletti che trasportavano il cadavere, lo avevano accompagnato alla pira. Lì il corpo era stato preso in consegna da alcuni uomini, che dopo averne irrorato il sudario con un liquido infiammabile, l'avevano lanciato sulla catasta di legna ardente. L'odore del fumo, della carne bruciata e della morte, avevano disgustato e inorridito i presenti che accanto al padrone di casa non osavano scostarsi dal rogo. Fu Massimo ad andarsene per primo, avanzando sottobraccio ad Aurelie mentre i suoi servitori dietro di loro, chiudevano il mesto corteo. Quel pomeriggio fu uno dei più lunghi e dolorosi della sua vita. Il ricordo di Egle gli lacerava l'anima,  ma soprattutto lo straziava il pensiero di non averle detto quanto la amasse e quanto tenesse alla sua approvazione. In definitiva il destino l'aveva fatto ritornare a Korkian solo per vederla morire, senza poterla confortare o tenere per mano durante il suo trapasso. Se n'era andata mentre litigavano e si insultavano per fatti puerili, che riguardavano e coinvolgevano solamente una comune estranea. S'interrogò per la prima volta sui sentimenti che provava per Elsa Ferrari. Sapeva di essere attratto da lei e nonostante non la conoscesse più di tanto,  la riteneva una donna in gamba e una delle amanti più appassionate e calde avesse mai avuto. Probabilmente in un'altra situazione avrebbe potuto immaginare un futuro con lei, ma non sentiva tutto ciò realizzabile in quelle circostanze. Aveva appena perso sua madre e il suo mondo era devastato dalla furia della natura e dall'inefficienza  di alcune tecnologie predisposte dai suoi simili. La tracimazione della diga nell'invaso seguita dall'orribile onda di fango e detriti, aveva distrutto oltre la città anche il suo cuore. Non voleva continuare la storia con Elsa, ne era certo. L'avrebbe pian piano dimenticata, nella speranza che anche lei capisse le sue motivazioni.

Sentì bussare alla porta. 

«Avanti», mormorò seduto al piccolo tavolo della sua stanza.

«Che fai? Bevi da solo»?, s'informò la Corsi vedendolo brillo.

Lui smascherato, posò immediatamente la ciotola di sidro che aveva lenito le sue sofferenze.

«Non è affar tuo», rispose balbettando.

«Dicono che chi beve solo, muore solo», continuò l'altra sedendosi innanzi a lui.

«Allora fammi compagnia», esclamò Massimo sorridendo. Quindi afferrò la bottiglia dell'alcolico, versandone due dita in una ciotola pulita.

Aurelie ghermì il recipiente che le porgeva, bevendo avidamente. Erano stati dei giorni difficili anche per lei ed un corroborante non poteva che arrecarle dei benefici.

Pirozzi  la fissò mesto.

«Ha ricominciato a piovere?», chiese.

«Non ancora, ma forse riprenderà questa notte», rispose la donna accendendo un'altra candela.

«Mi manca l'aria qui dentro», esclamò Massimo sfiorandosi il collo con una mano.

«Sono d'accordo con te, ma è meglio non aprire le finestrelle», disse l'altra, «i fumi delle pire funerarie, intanferebbero l'interno della casa».

«Come può essere accaduto tutto questo?», chiese tremando. Stravolto osservò Aurelie che pallida in volto, si presentava dimessa e sciatta nell'abito di seconda mano prestatole da una sguattera. Per un attimo le parve piccola e fragile non scorgendo più in lei, i tratti dell'arrogante e dispotica scienziata che aveva conosciuto qualche tempo prima. 

«Hai visto Elsa?», le chiese con voce malferma.

«Che la Dea mi liberi della sua presenza», sbottò Aurelie agitando le mani davanti a sé. Massimo sussultò a quella frase, sperando che la Corsi non intendesse accusare ancora la sua amante.

«Non devi pensare male di lei», esclamò cercando di ammansirla.

«Ma non ti accorgi che da quando è arrivata a Korkian le cose sono peggiorate?», rispose Aurelie cercando di apparire convinta.

«Non crederai veramente che sia la causa delle nostre sventure?», chiese Massimo versandosi dell'altro sidro.

«Lo credo e lo ribadisco», affermò la scienziata. 

«Smettila!», la schernì lui trangugiando il contenuto della ciotola.

«Ne era convinta anche Egle», sostenne la donna.

Il dottore sentì un nodo serrargli la gola. Il suo lutto era troppo recente e sentir parlare di sua madre lo faceva soffrire.

«Se fossi in te non prenderei sottogamba le nostre ipotesi», suggerì la Corsi con perfidia.

Aurelie non credeva assolutamente che fosse stata quella straniera ad aver portato lo sfacelo nel loro mondo. Reputava che lo strano evento osservato col tubocchiale costruito dalla professoressa Pirozzi, fosse un fenomeno interessante ma indipendente dalla comparsa di quell'inutile sempliciotta. Era stato facile assoggettare Egle alla sua teoria. Le sue argomentazioni avevano scosso le più tenaci convinzioni e le paure interiori della scienziata, rendendola debole e malleabile. Quella donna tanto devota e fedele al culto della Dea, era così divenuta la prima oppositrice ed inquisitrice della sua ospite. Elsa era solo una povera alienata, che aveva avuto la fortuna di attrarre sessualmente il dottore. Probabilmente lui non l'aveva mai amata, ma aveva soddisfatto con lei solo i suoi più sordidi appetiti carnali. 

Sebbene quello non fosse il momento adatto per elaborare una strategia che le permettesse di disfarsi della straniera, confidava in un suo volontario allontanamento. Purtroppo contro di lei non aveva potuto nulla neanche il disastro di qualche giorno prima, quindi sarebbe dovuto succedere qualcosa di eclatante per toglierla finalmente di mezzo.

«Aurelie devi smetterla con questa storia», minimizzò Massimo, «se qualcuno ti sentisse potrebbe denunciare alla gendarmeria cittadina quella povera ragazza».

La Corsi fissò il dottore che ubriaco faticava ad esprimersi. Se avesse denunciato la sua rivale, la gendarmeria sarebbe stata costretta ad indagare sul suo conto. Successivamente, riconosciuta la sua malefica presenza quale causa delle sciagure, sarebbe stata incarcerata a vita. Solo allora Massimo sarebbe stato per sempre suo e lei avrebbe potuto essere per lui il solo amore. 

Qualcuno bussò improvvisamente. 

«Avanti!», esclamò borbottando Pirozzi. 

La porta si aprì e Monique fece il suo ingresso trasportando il vassoio del pasto serale.

«Signore le ho portato la cena», comunicò accorgendosi subito del suo stato.

Poggiò il vassoio sulla tavola. Quindi afferrò la ciotola che Massimo teneva tra le mani, la svuotò e la riempi con l'acqua fresca conservata nel secchiaio di pietra.

L'uomo mormorò alcune incomprensibili parole di protesta.

«Ora ti lascio», gli disse Aurelie soddisfatta.

L'uomo cercò di metterla a fuoco con occhio bovino.

«Non preoccuparti di niente», esclamò alzandosi. «Denuncerò personalmente Elsa alla gendarmeria di Korkian », aggiunse poi.

Il dottore tacque stordito, mentre Monique la fissò basita.

«Denunciarla per cosa?», chiese con coraggio la serva.

«E' stata la sua presenza a scatenare su di noi l'ira della Dea», rispose l'altra con cattiveria.

«Ma è impossibile... », mormorò incredula la cameriera.

Aurelie la squadrò stizzita, uscendo con aria di sfida dalla stanza.








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