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"Bene, Lór. Hai bisogno di qualcosa prima di cominciare?"

"Gradirei un bicchiere d'acqua, grazie".

La donna si lasciò sfuggire un sorriso apprensivo prima di allungare una mano verso destra, in direzione della scrivania perennemente in disordine, per procurarle quanto chiesto.

"Col mal di gola tutto bene?"

"Molto meglio, la ringrazio. Non sono ancora abituata alle temperature francesi, ma... credo proprio che dovrò cominciare a farci il callo".

"Mh-mh. Tuo padre mi ha detto che hai intenzione di tornare in Islanda per il prossimo Natale. Ne senti il bisogno?" domandò poi la dottoressa, porgendole il bicchiere.

La ragazza fece spallucce e lo afferrò. "Ho voglia di rivedere mia madre. Sembra passata un'eternità dall'ultima volta che sono stata a Selfoss" rispose, concedendosi un piccolo sorso. Col vetro ancora premuto sulle labbra, aggiunse: "Non posso continuare a ignorare le mie priorità".

"Consideri l'Islanda una tua priorità?"

"Non l'Islanda, ma quello che mi è successo lì".

Audrine si sistemò sulla poltroncina scamosciata e accavallò fluidamente le gambe, segno univoco che preannunciava l'effettivo inizio della seduta del mercoledì pomeriggio. Era come se con quella postura rilassata, prettamente improntata all'ascolto, si stesse privando del modus analitico che la contraddistingueva in quanto psichiatra di professione per mostrarsi al pari della sua paziente. Questo, almeno, in apparenza. Sta di fatto che Lóreley era pronta a renderla partecipe dei suoi trascorsi e Audrine non poteva lasciarsi scappare una simile opportunità.

Doveva solo continuare ad avere fiducia nei progressi fatti durante le ultime sedute -le più fruttuose dall'inizio della terapia- e raggiungere il fondo di quella faccenda. Ammesso e non concesso che ce ne fosse stato uno ad attenderla.

"Te la senti?"

"Di parlarne? Onestamente credo di non essere ancora pronta. Molto probabilmente non lo sarò mai ma c'è qualcuno che lo è per me".

Audrine si punzecchiò lo zigomo con la stilografica in madreperla dorata. "È chi penso io?"

"Ovvio. Altrimenti non starei qui a farmi giudicare dall'ennesima persona che crede io sia una pazza da rinchiudere chissà dove".

"Io non giudico, Lóreley. Io ascolto. Hai qualcosa da raccontare al mondo intero, ma non ne hai il coraggio. Il perché sai qual è? Senti questo costante giudizio sociale gravare sulle spalle che ti riporta sempre sulla difensiva. Desidero che tu capisca che sono come te: siamo entrambe esseri umani e la comunicazione è il mezzo più efficace che abbiamo per confrontarci".

Lóreley si portò una ciocca bionda dietro l'orecchio. Non la guardava. "I confronti mi hanno stufata".

"Allora rettifico: parlami senza avere peli sulla lingua. Il resto verrà da sé".

"Potrebbe farle male".

"O potrebbe fare male a te" Audrine soffocò un sospiro. "La mia è un'empatia limitata. Starò benissimo, non preoccuparti".

"Ma ha appena detto di essere al mio pari" rettificò la paziente.

"Con le giuste precauzioni, s'intende".

Lór abbandonò il bicchiere tra le pieghe della gonna e trasse inspirò profondamente. Poi si ravvivò i capelli con entrambe le mani per riprendere possesso di sé.

"Allora mi ascolti".

Un silenzio provvisorio calò sulle spalle delle due, interrotto, a tratti, dal ticchettare di un orologio appeso accanto all'entrata: Lóreley era pronta. Quindi Audrine ne approfittò per armarsi del fidato registratore ammaccato, uno di quelli vecchia scuola, e lo poggiò senza indugi sul tavolino che le divideva.

Un breve segnale acustico le costrinse a cercarsi con gli occhi.

"Devo cominciare dall'inizio?"

"Certamente".

"E se le dicessi che non c'è un vero e proprio inizio... lei cosa mi risponderebbe?"

La dottoressa gonfiò le guance, pensierosa. "Ti risponderei con un'altra domanda".

"E quale sarebbe?"

"Perché non dovrebbe esserci? Tutto inizia e tutto finisce".

"Ciclicamente?" s'incaponì Lór.

"Ciclicamente".

"E lei ne è davvero così sicura?"

"Sono le basi del mondo in cui viviamo: niente e nessuno sono per sempre".

Lo sguardo di Lóreley baluginò una volta sola verso destra, come se la sua attenzione fosse stata catturata da qualcosa, e Audrine riuscì a carpirlo appena in tempo.

Seppur impercettibile, l'ondeggiare delle pupille azzurre non era di certo sfuggito alla dottoressa, questo fu chiaro anche a Lóreley che, ora visibilmente a disagio, tornò a fissare la superficie graffiata del tavolino.

Audrine ricominciò a tamburellarsi la stilo sul viso. "Non sei d'accordo con le mie considerazioni?"

"Lui non è d'accordo".

"Parli di Bodvár?" insistette l'altra.

"In parte".

I cieli francesi si erano nel frattempo incupiti e riflettevano il loro grigiore sulle campagne circostanti, spegnendo il verde scintillante che le caratterizzava. Lór pensò quindi che un pomeriggio come quello non le sarebbe mai più capitato: rendere partecipe il mondo dell'antico legame che condivideva con la terra stessa era un obbligo morale verso tutti quelli che avevano sofferto a causa della bramosia di Paskúm. Strano a dirsi ma credette, per un istante, di sentirsi meno sola e diversa.

"Perché mi stai dicendo questo?"

La ragazza inspirò ancora per dare aria ai suoi pensieri. "Perché mi è difficile spiegarle come per me in particolare ci possa essere un inizio e una fine. So che non è così. È un discorso complicato, ma voglio cercare di essere il più chiara possibile con lei. Voglio che capisca" le spiegò, fissandola finalmente in volto, occhi negli occhi. "Quindi, prima di dilungarmi più del dovuto, comincerò dal mio principio, dal mio inizio, quello terreno. Quello di carne e ossa. E le dirò di più: anche Bodvár ascolterà. Glielo devo, gli devo la mia parola. Il nostro legame è fondato sulla sincerità reciproca e non voglio tradirlo, altrimenti non se ne fa nulla".

Un paio di grosse gocce andarono a schiantarsi sulle larghe vetrate dello studio e un brivido glaciale le fece accapponare la pelle. Audrine fermò la stilografica a mezz'aria, disorientata da quell'improvvisa schiettezza.

"D'accordo, Lóreley, io ti credo. Continua, stai andando bene".

"Non so cosa le abbiano raccontato, non so cosa abbia letto sui giornali. Non so cosa dica la mia cartella clinica, non m'interessa. Bodvár è reale e sta ascoltando, voglio che lei lo sappia".

Il tamburellare della pioggia aumentò a dismisura.

"Grazie per avermelo detto".

"Si sente più tranquilla?"

"Sì" acconsentì Audrine, apparentemente impassibile.

Lóreley sprofondò nella poltroncina color panna e si concesse un'altra sorsata d'acqua per sciogliere le parole che aveva annodate sulla lingua.

"Ho deciso di collocare l'inizio di tutto a partire dalla mia ammissione alla Fær Øer. Frequentare un anno di preparazione in quell'università mi avrebbe garantito una maggiore probabilità di rientrare nelle selezioni delle scuole private più costose d'Europa senza dover sborsare un centesimo. Accettai senza indugi, in fondo credevo di essermelo meritato. Ed è lì che tutto è cominciato ad andare a rotoli".

Audrine s'intrecciò le braccia al petto, attenta. "Perché?"

"Perché il sedici ottobre duemilaundici ebbi una visione, la prima dalla morte di Ían e la più nitida sino ad allora" Lóreley serrò la mascella nel dire ciò. "Un mese più tardi un ragazzo cieco avrebbe tentato il suicidio lanciandosi da un'altura della Baia. Quel ragazzo altri non era che Gaël Elíasson".

Audrine raggelò. Nelle cartelle cliniche non vi era alcuna traccia di simili dichiarazioni, il che la trattenne su un'altolà necessario. 

"Riesci a... ricordare la visione? Sapresti descrivermela?"

"C'era il..."

Vuoto.
Se dovessi provare a descrivere l'opprimente sensazione che mi turba, probabilmente la riassumerei in una parola vuota quanto il suo significato: nulla. Il nulla.
Nulla?
Non c'è niente, io sono niente.
Mi chiedo: sono viva? Sono reale? Egoisticamente parlando, lo sono mai stata? Dopo poco, realizzo. Nonostante io abbia gli occhi aperti -sono sicura di star guardando davanti a me- ad avvolgermi c'è solo un velo chiazzato qua e là da ombre ingrigite. Pesanti. Sbiadite.
Non riesco a pensare. Non ci riesco e non vedo.
Un attimo dopo avverto una pesantezza anomala sul petto e il respiro si accorcia.
Ho freddo.
Freddo?
Sì, freddo. Ma... è diverso. Il pizzicore si tramuta in bruciore sulla pelle, si propaga come un incendio.
È passato troppo tempo.
Troppo tempo da cosa?
Cosa attendo?
Attendere, aspettare
Ho la nausea. Il bruciore è diventato insopportabile.
La mia gamba destra avanza, incontrollabile, ghiacciata dal polpaccio in giù; il mio piede sfiora una superficie collosa e liscia, ricoperta di viscidume. Muschio. No, pioggia. Pioggia e terra.
Pioggia e terra...
Sono consapevole di trovarmi sull'altura della Baia di Reykjavík... ma com'è possibile? Io non sento niente, non vedo niente. Eppure lo scrosciare delle onde sotto il mio naso mi suggerisce l'improbabile: sto sognando? È davvero la costa?
Non vedo niente
Non vedo niente
Nonvedoniente
L'ennesimo sbuffo di maestrale mi schiaffeggia il viso, io persisto, continuo a camminare.
Non voglio - perché lo sto facendo?
Il violento pompare del sangue produce un sibilo nelle mie orecchie. Sembra un sussurro.
Mi ordina di saltare.
Ho la gola secca e il freddo dell'Islanda si ficca sotto pelle. Nelle ossa, come mille spilli nella carne.
Il vuoto non c'è più.
Cadere.
Cadere
cadere
e risalire
Il vuoto è tornato.
Il nulla mi sta divorando
Mangia, strappa
Il vento mi culla
Sto precipitando, di questo ne sono certa.

Di me resta solo acqua

"Lór?"

Una scossa dritta al cuore tanto forte da smorzarle il respiro, dopodiché sopraggiunse lo stupore. Lóreley trattenne il fiato per una decina di secondi mentre la realtà tornava ad essere tale davanti ai suoi occhi. Nella sua testa, in quel frangente catartico e anomalo, si rincorsero le immagini e i suoni di quanto aveva appena vissuto: l'abbattersi delle onde contro la costa, l'acre odore della salsedine, l'acqua salina che le aveva riempito la gola una volta tuffatasi dalla scogliera.

Sono... saltata giù?

Una linea rossa, nel frattempo, già le macchiava il mento e minacciava di fare altrettanto con il colletto bianco dell'uniforme cerimoniale. Frettolosamente si premette il palmo sotto il naso, adesso gocciolante, senza però badare alla manica immacolata della toga.

Anaïs continuò a tenerla sott'occhio dallo specchietto retrovisore.

"Lór? Diavolo, mi stai ascoltando? Si può sapere che hai?"

La voce dell'altra s'incrinò sulla fine frattanto che riacquistava di nuovo colorito. "Niente, mamma... mi gocciola il naso, niente di grave. Sarà stato il solito sbalzo di pressione".

"Sangue dal naso? Di nuovo?" fece Anaïs in un sospiro, decelerando. "Fa attenzione a non macchiare la toga. Deve essere impeccabile per la tua cerimonia di entrata alla Fær Øer".

Lóreley non si azzardò a contestare, anche perché avrebbe dovuto sopportare quel ridicolo vestito d'etichetta per tutto il giorno. Si ritrovò tuttavia ad analizzare la stranezza che l'aveva assalita con la stessa forza di un cazzotto in piena faccia. Okay, sua madre era una pessima guidatrice per natura e il pasticcio di verdure della sera precedente ancora fermentava nel suo stomaco, ma era comunque riuscita ad appisolarsi sui sedili posteriori nonostante l'ondeggiare del veicolo l'avesse nauseata sin dalla partenza.

Che si fosse trattato di un sogno lucido dato da un'indigestione? Improbabile. Quell'esperienza non aveva niente a che vedere con i disastri culinari di Anaïs né tanto meno con le visioni che ciclicamente la disturbavano nel quotidiano.

Quei deja-vù -così li aveva rinominati, malgrado avessero poco a che vedere con questi ultimi- avevano breve durata, intensità discutibile e, a conti fatti, non volevano dire un bel niente. Era come se il suo cervello si annullasse in seguito a un sovraccarico di informazioni e un secondo più tardi tutto tornava alla bieca normalità. Quell'ultima percezione, invece, l'aveva lasciata di sasso, dovette ammetterlo.

Perché diavolo avrebbe dovuto farsi un bagno di sola andata gettandosi dalla Baia di Reykjavík?

Improvvisamente l'entrata alla Fær Øer passò in secondo piano e la ricerca di un fazzoletto nella borsa di sua madre divenne una disperata priorità.

Perché proprio la Baia di Reykjavík? Non ci sono mai stata...

"Sono nella tasca grande. Come sempre" borbottò Anaïs. "Non nella laterale sulla sinistra, là ci sono gli assorbenti e il correttore".

Lóreley appallottolò il primo pezzo di carta che le capitò a tiro, visibilmente scocciata da quella puntigliosità, e forzò il tampone di fortuna nella narice incriminata. "Scusa, Mary Poppins".

"Farò finta di non aver sentito. Comunque, cosa stavo dicendo prima che ti addormentassi... mh. Assisterò solo alla cerimonia di entrata, dopodiché andrò via. Alle due ho una riunione con la professoressa Daníelsdóttir. Dobbiamo discutere di quel sopralluogo all'Hekla che ti ho accennato l'altro ieri".

"Ritorni all'Hekla? Davvero? E quanto starai via?"

"E che ne so. Forse qualche mese, non abbiamo ancora pianificato nulla. Tutta colpa di tuo zio Bjarni... ha letto il mio resoconto solo una settimana fa e ha ignorato le email in cui lo aggiornavo su un'attività vulcanica anomala. Quel coglione è tutto tua nonna, non c'è niente da fare".

"Parli del naso degli Østergaard?" commentò l'altra, sarcastica.

"Anche. Ma essere uno stronzo irresponsabile è la cosa che li accomuna di più".

Ci risiamo...

"E se dovessi aver bisogno di qualcosa come faccio a contattarti?"

Anaïs fece spallucce. "Vai da quella vecchia pazza, mi sembra il minimo. I dormitori dell'Istituto non sono tanto lontani dal quartiere residenziale, mi sono già informata. Se hai problemi col bucato o sei a corto di soldi non farti problemi: la pensione che ha le basta e le avanza. Sarà comunque felice se le farai visita di tanto in tanto".

Più che invito a trascorrere del tempo con nonna Danielle, Anaïs lo aveva fatto sembrare un obbligo senza libertà di obiezione. Un'urgenza, ecco, sapientemente mascherata dall'odio decennale che scorreva tra le due.

"Mh".

"E per cosa starebbe questo mh?"

"Niente, pensavo".

"Senti, Lór, ti conosco meglio delle mie tasche e so cosa ti sta frullando per la testa. Non ho intenzione di presentarmi alla porta di quella bisbetica con un mazzo di fiori e delle scuse trite e ritrite. Per la tua permanenza a Reykjavík avrai bisogno di qualcuno su cui poter fare affidamento, tutto qua. Anche se Danielle, come avrai potuto intuire, rientra nella mia personale categoria ultima scelta".

"Anche se l'hai insultata e mi hai caldamente suggerito di spillarle qualche soldo dalla pensione, mi hai comunque incoraggiata a farle visita. E non è da te, ci tengo a rettificarlo".

"Cosa stai insinuando?" il tono di voce di Anaïs, alle orecchie della più piccola, risuonò così isterico da strapparle un sospiro.

"Papà non ti ha più contattata per l'ultimo versamento, vero?"

"A quanto pare. Che gli venga un accidente... mai che faccia qualcosa di buono per te, quello lì. Al diavolo... è grazie a me e ai miei sforzi se sei riuscita ad ottenere quella maledetta borsa di studio. Che schiatti nel suo bel villino a Saint-Médard".

Lóreley s'intrecciò le braccia al petto con fare stizzito. Bingo. "Mamma".

"Cosa c'è?"

"Quindi hai chiesto un prestito alla nonna".

"Lóreley, chiudi quella bocca e smettila di girare il coltello nella piaga, sappi che mi sto incazzando".

"Non puoi usarmi come pegno di pace per accontentare la nonna solo perché papà sta dall'altra parte dell'Europa e dimentica di mandarci quello stupido mantenimento!"

Anaïs sterzò senza preavviso e con una tallonata secca frenò un attimo prima di tamponare il guard rail col muso del veicolo. Lóreley adesso la fissava a bocca aperta, visibilmente sconcertata e con le mani ancorate a entrambi i sedili anteriori.

"Tu sei pazza" scandì in un filo di voce.

"E tu falla finita, chiaro? Non sono cose che ti riguardano. Qui si parla del tuo futuro e sono anni ormai che mi sto sacrificando affinché tutto vada per il meglio. Cosa sta facendo Marcel, per te? Un bel niente. Guarda cosa mi tocca fare: strisciare ai piedi di mia madre per chiederle un anticipo. Sono davvero caduta in basso".

Lóreley inghiottì quanta più aria possibile per calmarsi intanto che l'auto tornava sulla carreggiata sgombra. Non fiatò, seppur l'idea di stracciarsi di dosso quella ridicola veste da matricola e mandarla a quel paese l'avesse allettata. Tacque e basta, abbandonando la testa contro il finestrino umido di pioggia. Affondò poi una mano nella tracolla al suo fianco e cercò tra i libri la brochure dell'Istituto. I paragrafi li conosceva oramai a memoria, tante le volte che li aveva letti sognando ad occhi aperti, su di giri per l'ammissione che le aveva scombussolato la vita da un giorno all'altro. Adesso invece aveva bisogno di distrarsi e ignorare momentaneamente sua madre: come al solito era stato impossibile parlare di Marcel, il che la diceva lunga sulle loro dinamiche famigliari.

"Ti ha più chiamata?"

"Chi?"

"Tuo padre, chi sennò".

Lór chiuse gli occhi e si figurò il volto dell'uomo nella testa. "Mi ha chiamata lo scorso giovedì per farmi gli auguri. Per le vacanze di Pasqua vorrebbe vedermi... studio permettendo".

Anaïs si lasciò sfuggire uno sbuffo senza ribattere. Lóreley tenne gli occhi incollati alla brochure per i successivi quarantacinque minuti ed evitò di prestarle attenzione. Intanto che le due si godevano il tanto meritato silenzio post-litigio, l'auto finalmente imboccava la via principale che le avrebbe condotte al centro della capitale.

Proseguirono infine verso sud, sorpassando il boschetto che delimitava la Baia e l'area portuale. Selfoss divenne un lontano ricordo nella mente di Lór, un puntino indistinguibile in un mare di incertezze. Le campagne di Reykjavík erano decisamente più industrializzate dispetto a quelle che circondavano il suo paese natale e l'aria, pregna di salsedine e zolfo, si rimescolava nel cielo grazie alle forti correnti provenienti dal mare.

Sopra di esse ci vorticavano, aggraziati, stormi di gabbiani, per nulla intimoriti dalle nubi grigie che si ammassavano all'orizzonte. Erano liberi da qualsiasi costrizione e Lóreley non poté fare a meno di invidiarli. Tirò giù un quarto di finestrino, ignorando le lamentele di sua madre, e una volta liberatasi del tampone si concesse una boccata d'aria per assaporare l'imminente indipendenza.

Davanti al veicolo, ora, stava prendendo forma la Fær Øer. Trovarono parcheggio sulla prima fila destinata ai visitatori e la station wagon grigio-sporco attirò comunque l'attenzione di un paio di universitari proprietari di BMW nuove di zecca, con addosso l'equivalente dello stipendio di Anaïs.

"Spero solo che nessuno noti le cuciture della tua toga. Che venga un'accidente pure a quella sarta" borbottò Anaïs, sbattendo la portiera alle sue spalle, quella ammaccata. "E guarda tu quanta cura solo per l'ingresso... se non fosse stato per quella borsa di studio questo corso di preparazione te lo saresti proprio sognato".

"Tu dici? Grazie, mamma" ammise Lóreley, mentre s'incamminavano lungo il viale alberato senza più guardarsi indietro.

Lóreley si strattonò il colletto dell'abito bianco. Aveva i palmi sudaticci e un fastidioso pizzicore sotto i talloni l'aveva tesa come una corda di violino. Deglutì. Sedersi per controllare le suole delle scarpe era fuori discussione; anche perché, a quanto pare, ci aveva già pensato l'auto di Anaïs a minarle la reputazione da nuova arrivata. Dunque serrò i pugni, cercando di non badarci, e si lasciò trasportare dall'atmosfera sacrale che permeava ogni angolo della sala adibita alla cerimonia.

Era incredibilmente immensa e dispendiosa, con architravi ben visibili incastonati in una volta a botte che s'interrompeva sul fondo, dalla quale era stata ricavata una cupola proprio sopra il suggestivo palchetto allestito per le cerimonie. Le mura laterali erano costellate da enormi vetrate gotiche che davano sul giardino interno, anch'esso incredibilmente curato e verde. Il vetro colorato di queste ultime filtrava dei bagliori insoliti, sanguigni e freddi, artefici di spettacolari giochi di luce che si riversavano sul pavimento in marmo bianco.

Lóreley e Anaïs si unirono ai ritardatari in una marcia silenziosa, facendosi largo tra i drappi rossi e gli arazzi che pendevano dal soffitto affrescato. La tensione cominciava a pressarle, il senso del dovere altrettanto, ed entrambe non poterono fare a meno di rimpiangere la lontana Selfoss. Ciononostante trovarono comunque la forza di dividersi.

Lór raggiunse con timore il soppalco destinato ai nuovi arrivati - erano in venti e tutti marchiati, come lei, dall'ingombrante status quo di matricole con la toga bianca.

Rigida come un fusto d'albero puntò l'ultimo posto libero e si accomodò goffamente cercando di non dare nell'occhio. Respirò a fondo per rimettere ordine al caos che le vorticava nella testa. Solo allora, attratta da un ciack ciack piuttosto snervante, prese coraggio e si voltò alla sua destra. A masticare a bocca aperta era una ragazza con i capelli castani, annoiata e poco propensa alla buona educazione, come suggeriva la sua espressione scocciata e la gomma alla cannella spiattellata sotto il palato.

Dalla parte opposta, invece, un'altra matricola era impaziente quanto i rimanenti novellini. Accasciata su se stessa e con le braccia strette sotto il seno, batteva il piede a terra per ingannare la tensione e l'attesa. Aveva il viso cosparso di lentiggini, le orecchie un po' sporgenti e una frangia tanto lunga da sfiorarle le ciglia rosse. Oltretutto portava al collo un ciondolo al quanto insolito: si trattava di un crocifisso di notevoli dimensioni con un rubino altrettanto grande incastonato sul centro. Che fosse credente?

"Non ti hanno mai detto che fissare è da maleducati?"

Lóreley rinsavì. L'ennesimo brivido caldo la costrinse a stringersi nelle spalle.

"Ahm, ecco..."

"Allora?"

"Il tuo ciondolo. Insomma... è davvero bello. Cioè... è figo. Molto in tema con la cerimonia. Sembra di stare in una cattedrale..."

L'ultima sua prerogativa era inimicarsi qualcuno e sdrammatizzare non le era mai riuscito, che si fosse trattato di mentire per avere salva la vita o per mettere a tacere sua madre nel bel mezzo di un litigio. Facendo un breve calcolo statistico, dunque, avrebbe fatto meglio a stare zitta... insomma, quanto sarebbe potuta durare in mezzo a quel branco di figli di papà?

La tipetta con i capelli rossi aggrottò la fronte. "Sei seria?"

"Non dovrei?"

L'altra, in maniera del tutto inaspettata, si lasciò sfuggire un risolino. "Cazzo, stai avanti. Però hai proprio dei gusti di merda, sappilo. Ma non sembri male".

"È una buona cosa?"

"Sì, dai. Questa collana fa davvero cagare... come ti faccia a piacere proprio non lo so, i miei mi costringono a metterla. Sai, le vecchie usanze di famiglia sono dure a morire nel ventunesimo secolo".

"Belle le tradizioni, vero?" azzardò Lór.

"E che te lo dico a fare. Comunque... piacere. Gíta Maria Bersisdóttir, o più semplicemente Gíta. Sono felice di annunciarti che hai superato il mio test con una bella lode".

"Test?"

"Si vede che non sei una montata del cazzo come tutti qui dentro. Il mio sesto senso non sbaglia mai".

Il volto di Gíta si era rasserenato da un momento all'altro, quasi avesse avuto un'illuminazione, e piccole rughe d'espressione le avevano accentuato gli angoli delle labbra donandole un'aria simpatica. Niente a che vedere con la tipa tutto pepe di qualche attimo prima.

"Oh. Forte il tuo sesto senso! Se posso permettermi, come ho fatto a superare il test?"

"Non mi hai mostrato le scarpe Prada che paparino ti ha comprata nel week-end. Credo sia una spiegazione più che ragionevole".

Buono a sapersi... "Io sono Lóreley e no, non ho i soldi per comprare simili scemenze. Preferisco buttarmi nell'armadio con uno strato di colla addosso e sperare di uscirne illesa, o quanto meno abbinata".

Gíta inghiottì una risata per non dare nell'occhio. In quell'esatto momento un lungo applauso accompagnò una donna nella silenziosa sfilata che l'avrebbe infine condotta sul palchetto. Si trattava di una signora sulla sessantina, posata e sorridente nel suo bel tailleur nero, impreziosito da una vistosa spilla gialla. Doveva trattarsi della rettrice universitaria, senza ombra di dubbio: quelle accortezze poteva meritarsele solo una persona del suo calibro. O almeno così credette Lór.

"Sono fiera di annunciarvi l'inizio di un nuovo anno qui alla Fær Øer. Come ben sapere, amici e colleghi, nuovi arrivati e vecchie conoscenze, oggi è un giorno importantissimo per ognuno di noi. Il nostro Istituto compie ben novantadue anni di prosperosa attività e continua ad accogliere a braccia aperte giovani e talentuose menti che in un futuro non molto lontano contribuiranno a divulgare la ricchezza del nostro paese in tutto il mondo. Vi auguro di tutto cuore il meglio e vi ringrazio per aver messo alla prova le vostre abilità... i vincitori della borsa di studio in primis" annunciò al microfono.

Lóreley trasalì intanto che la rettrice Benóný indicava il suo gruppo. "I miei più sentiti complimenti ad Asael Asparsson, per il corso di marketing..."

Non dire il mio nome...

"A Gaukur..."

Ti prego!

"Lóreley Anaïssdóttir-Dubois, per la sua eccelsa dote e sensibilità nel campo artistico..."

Diavolo. Era proprio necessario far sapere a tutti che ho due cognomi?

Gíta la guardò di sottecchi. "Attenta che qui ti mangiano. Lo dico per te, eh".

"Grazie per lo spassionato consiglio. Comincio seriamente a rimpiangere quelle maledette scarpe firmate".

La voce della Benóný coprì il suo borbottio.

"E ora, come da manuale, vorrei invitare qui accanto a me le influenti famiglie che con il loro contributo annuale rendono questa scuola un vero paradiso dell'apprendimento".

Seguirono onorificenze a più non posso. Vennero richiamate sul palco una decine di famiglie illustri, le più importanti di tutta Reykjavík, e Lór non poté fare a meno di rimanere a bocca aperta: Gíta si allontanò dal soppalco dei novellini per ricongiungersi a sua sorella maggiore, una studentessa piuttosto nota facente parte del comitato universitario. All'istante realizzò di aver avuto accanto una delle nipoti della prima donna vescovo d'Islanda, Agnes Sigurðardóttir, nonché secondogenita del pastore della capitale.

Spaesata, Lóreley cercò disperatamente Anaïs. Scrutò con attenzione ogni volto, ma i suoi occhi ebbero la sfortuna di posarsi su qualcun altro, un convocato sul palco tra i presenti. Accerchiato dai suoi famigliari, il ragazzo alto che tanto la stava incuriosendo indossava un semplice completo scuro e pesantemente si trascinava accanto a sua madre. Quest'ultima lo sorreggeva per il braccio con premura, quasi avesse paura di perderlo tra la folla.

Lóreley storse il muso. Quel tipo emanava una freddezza unica. Sembrava assente, per nulla toccato dall'invito, infinitamente burbero e arrogante. E poi... cosa stava fissando?

"Così lo consumi" intervenne la ragazza castana. "Te lo stai mangiando con gli occhi. Quel bel faccino non ti è nuovo?"

Lóreley si voltò. "Il tipo col completo scuro? Certo che no".

"Da che pianeta vieni, biondina? Quello è Gaël Elíasson. Suo padre è il proprietario della Baia a Est ed è uno dei maggiori finanziatori delle saliere della capitale. E poi gestisce dei commerci oltreoceano... tutt'altro che leciti. Ma a nessuno importa, figurati. A quella cazzona della Benóný interessano solo gli assegni che lui le versa sul conto ogni sei del mese. Capisci cosa intendo, no?"

"Ahm... capisco benissimo. Credo" ammise Lór, tornando a fissarlo. "È un po' strano, tutto qua".

"Agh, puoi dirlo forte. E pensare che io, Bergljót, sono stata cotta di lui. Che schifo".

"Immagino abbia un mucchio di soldi".

"Ci hai visto lungo, biondina, e ci avevo visto lungo anche io. Ma l'egocentrismo cronico e un bel Porsche sono un mix letale, lo sanno tutti: guarda un po' come si è ridotto".

"A dirla tutta non sembra quel genere di persona".

"Beh, alla fine è cambiato" Ber sospirò. "Certe cose ti cambiano eccome".

"Che intendi dire?"

"Da quando Gaël ha perso la vista non è stato più lo stesso. Io lo chiamo Karma".

È... cieco?

"E ora, amici miei, vorrei invitarvi a prendere parte a un momento di commemorazione collettiva. Da tre anni a questa parte l'Istituto rende omaggio a un'alunna, ragazza e figlia adoratissima venuta a mancare per un triste scherzo del destino: la giovane Dísella aveva talento da vendere ed era libera dalla presunzione. Rimarrà sempre una gemma rara che continuerà a impreziosire il nome di quest'Università. Chiamo qui sul palco sua madre, la professoressa Hilda Stewart, per renderle omaggio a nome di tutta la comunità universitaria".

Dal soppalco riservato ai docenti si alzò una donna dal fisico asciutto e i capelli raccolti oltre le spalle, in uno chignon disordinato. Nascondeva il viso con un fazzoletto nero, come nero era il suo vestito e il suo lutto. Al suo passaggio decine di mani le accarezzavano la schiena per invogliarla a prendere posto accanto alla reggente.

Lóreley preferì tacere, così come chiunque all'interno della sala. Anche Bergljót aveva momentaneamente accantonato il suo cinismo e si era chiusa in un religioso silenzio. Tutto questo non prima di aver appiccicato la gomma da masticare tra i capelli della prima sfortunata che le era capitata sotto mano, ovvio.

Hilda si fermò al centro del palco e inspirò per tenere a bada le lacrime. "Grazie, davvero, grazie per quest'accortezza nei miei confronti. Ma vorrei che mia figlia Dísella venisse ricordata con un sorriso e non con un minuto di silenzio. Sapere che vive ancora nel cuore di questa scuola mi riempie di gioia, sul serio. Sarebbe felice di sapere che il suo talento e la sua bravura non verranno mai dimenticati" gracchiò la professoressa, cedendo infine a un pianto convulso.

Lóreley si unì all'applauso d'incoraggiamento e tornò con gli occhi su Gaël. Ben presto lo scrosciare delle mani si tramutò in ben altro: acqua. Acqua contro la costa e sotto i piedi, attorno al corpo non più tiepido, giù per la gola.

Poi solo l'odore di salsedine e la voglia di sapere.

***

... Al ventisette marzo, corvetti!

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