01. Primo giorno ✔

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"Che tipo di rapporto avevi con tua madre in quegli anni?"

"Umh. Bella domanda. È una donna molto severa, come avrà potuto intuire, un po' vecchio stampo, ma col tempo certe cose ho imparato a farmele scivolare addosso per quieto vivere. Per lei contano soltanto le apparenze, non esiste la parola fallimento nel suo vocabolario e detesta enormemente mia nonna per delle vecchie questioni lasciate in sospeso. Però posso dirle che sono simili anche se faticano ad ammetterlo... lei e nonna Danielle, intendo. L'orgoglio e l'essere stronzi sono tratti distintivi della mia famiglia".

"Sei sarcastica verso te stessa, non stronza".

"Sono stronza verso me stessa, non con gli altri, è diverso" rettificò Lóreley con voce monocorde. "Questo ad esempio devo averlo ereditato da Marcel".

"Tuo padre?"

"Esatto".

"E di lui cosa sai dirmi? Per anni avete vissuto vite parallele e distanti. Questo ti ha fatta soffrire?"

"Marcel è permissivo. Non usa mezze misure e le conseguenze non lo spaventano. La distanza non ha tuttavia annichilito il nostro rapporto padre/figlia. Seppur lontano c'è sempre stato... a modo suo: è uno spirito libero e a poco servirebbe tentare di cambiarlo. Nemmeno la mia nascita l'ha sorpreso più di tanto... ho sempre avuto l'impressione che in realtà sapesse. Capisce quel che intendo? I bambini non sono un semplice e diretto è capitato. Se vuoi un moccioso, lo fai, e ti c'impegni pure. Anche con la prima vulcanologa danese che ti fa perdere la testa durante un sopralluogo di sei mesi alle pendici dell'Hekla. A meno che entrambi non siate sotto effetto di acidi o alcolici, lì è tutt'altra storia".

"E lo erano?"

"Dio, spero di no. Molto probabilmente hanno parlato di geologia per tutto il tempo".

Audrine fece per replicare, rapita dal racconto. "Quindi mi stai dicendo che..."

"Mio padre è ventidue anni più vecchio di mia madre. Oltretutto all'epoca dei fatti aveva già una compagna qui in Francia, la signora Bérenice. Tutto nella norma, stanno ancora assieme nonostante questo piccolo incidente di percorso" si affrettò a risponderle. "L'ha presente? Capelli corti neri, occhi castani, veste sempre di azzurro... è la signorotta che mi accompagna qui ogni mercoledì. Tutto sommato mi sta simpatica".

"Come ha metabolizzato questa relazione nata tra Marcel e tua madre? Ha mai reagito negativamente nei tuoi confronti?"

"Umh... no, assolutamente. Cioè, forse sono io a non averlo mai notato. Fatto sta che non mi ha mai fatto pesare nulla, è sempre stata una tipa a posto che adorava infiocchettarmi e leggere assieme le fiabe della buonanotte. Anche perché Bérenice è sterile e Marcel è contrario alle adozioni. Insomma, storia lunga anche questa".

"Quindi pensi che lei ti abbia accettato per capriccio".

"Può darsi" titubò la paziente. "Ma io non sono nella testa di Bérenice. Le voglio bene ma non è nulla di concreto per me, il nostro è un rapporto limitato a causa delle mie continue partenze. Ai miei occhi rimarrà sempre e solo la compagna storica di Marcel. È una buona amica, questo sì, ma non mi azzarderei mai a chiamarla mamma".

"E in che rapporti sono Bérenice e Anaïs?"

"A volte si telefonano. Parlano perlopiù di versamenti e vini, niente di particolare. Non si odiano, se è questo che vuole sapere".

Audrine inspirò profondamente prima di assumere una postura più comoda.

"Scusa il mio divagare, ma è importante. Mi aiuta a conoscerti meglio".

"Fa nulla. Le ho comunque promesso che non ci sarebbero stati segreti tra di noi, almeno per oggi".

Quelle parole risuonarono come una sfida alle orecchie della psichiatra. Un incoraggiamento, un invito ad andare sempre più giù, a sprofondare senza avere timore nelle memorie di Lóreley. Memorie che probabilmente l'avrebbero lasciata a corto di parole e speculazioni. Ripensò quindi a Bodvár, il terzo incomodo e presunto spettatore immaginario della seduta.

"Torniamo a noi" Audrine si stiracchiò per togliersi dalla testa quel pensiero martellante. "Mi parlavi della cerimonia d'entrata e del tuo primo incontro col ragazzo cieco. Come arrivasti a ricollegare la predizione al suo tentato suicidio?"

Lór sorrise tristemente. "Diciamo che successe per caso. O almeno mi sforzai di crederlo".

"Continua". 

13 settembre 2011

"Il numero della nonna?"

"Ce l'ho in agenda".

"Il pin del mio conto?"

"Pure quello".

"L'hai preso lo spazzolino? E gli antistaminici?"

Lóreley, esasperata, si lasciò sfuggire un lamento dalle labbra contratte. "Sì, mamma, sì! Ho controllato la tua lista un centinaio di volte prima di chiudere la valigia. Strano a dirsi, ma ho tutto sotto controllo".

Anaïs si apprestò a trascinare il secondo trolley accanto l'entrata della stanza incriminata, sesta a destra, secondo piano del dormitorio femminile. Le si rivolse col tono di voce più autoritario –e materno– possibile: molto probabilmente stava cercando di tenere l'angoscia, come era solita fare nei momenti di difficoltà. 

Lór era cresciuta e la preparazione all'indipendenza le stava separando in maniera definitiva. E questo, dovette ammetterlo, l'aveva intristita dalla lettura della mail di ammissione al collegio privato. Ma almeno, si era detta, starà lontana da Selfoss per un po'.

"Allora se hai tutto vado via".

Lór fece spallucce. "D'accordo".

"Bene. Insomma..." la donna si portò un boccolo spaiato dietro l'orecchio per tornare in sé. "Ecco... impegnati. Sono orgogliosa di te e sempre lo sarò, voglio che tu lo sappia. Raggiungi l'obiettivo che ti sei prefissata e stracciali tutti: in fondo hai anche il mio sangue nelle vene, ti verrà facile, come è venuto facile a me".

Ma certo... parli del sangue di quegli stronzi bollati Østergaard?

"Sissignora, ti giuro che farò il mio meglio".

Il momento degli addii strappalacrime fu interrotto sul più bello. Due ragazzi guizzarono fuori da una stanza sulla fine del corridoio, inseguiti da quattro ragazze armate di cuscini e scarpe da ginnastica. Anaïs sbatté le palpebre un paio di volte per darsi un contegno frattanto che la più piccola aggrottava le sopracciglia, perplessa.

"So che non è il caso e lo capisco, sul serio, ma..."

"Non-" Lór si sforzò a rimanere calma. "Non ti azzardare. Non parleremo di anticoncezionali nel bel mezzo del corridoio, nel mio primo giorno di corso, nel mio fottuto dormitorio. Smettila".

"È la prassi, lo faccio per il tuo bene".

"... Mamma".

"Ci sono tanti bei maschietti in giro per il dormitorio femminile".

"E se fossi lesbica?"

"Tanto meglio per te".

"Allora chiudiamo questo discorso e vai a farti fottere" sibilò a denti stretti Lór e con uno strattone la costrinse a un abbraccio forzatissimo. "Bon voyage, giuro che ti chiamerò ogni sera. Sempre che tu mi risponda".

"Ti voglio bene anche io" sospirò Anaïs, schioccandole di proposito un bacio sul collo, il punto più detestato da Lóreley.

"Sei una stronza!"

Anaïs aveva già sciolto l'abbraccio e con un sorriso timido fece per allontanarsi. "Comportati bene".

Lór la guardò andare via senza battere ciglio e il fastidioso nodo alla gola che si era trascinata dietro per tutta la mattinata parve allentarsi. Quasi non ci credeva, o molto probabilmente avrebbe cominciato a farlo di lì a poco. Fatto stava che era finalmente libera delle costrizioni di Selfoss, sola nella capitale d'Islanda, studente effettiva dell'università più esclusiva della nazione.

Ma che voglio di più?

Col cuore a mille si apprestò ad aprire la porta della sua nuova camera, rimanendo però sull'uscio. Era spaziosa, forse un po' troppo per i suoi gusti, con tanto di parquet scuro e muri così bianchi da costringerla a strizzare gli occhi, quasi fossero stati tinteggiati da poco. Una finestra arcuata divideva la stanza in due porzioni, perfettamente speculari per quanto riguardava la mobilia.

La parte di destra era già stata occupata dalla sua nuova coinquilina e a malincuore dovette mandare giù quell'ennesimo boccone amaro. Si trascinò dietro le due valigie e, nell'avanzare, il forte aroma sprigionato da una gomma alla cannella placò quell'arrabbiatura momentanea.

Ciak ciak.

Bergljót riemerse dal fondo dell'armadio mentre si massaggiava la schiena indolenzita, accortasi dell'ospite alle sue spalle.

"E io che fremevo dalla voglia di sapere con chi avrei condiviso la stanza... guarda guarda, la biondina in persona! Di bene in meglio, non c'è che dire. Spero non ti dispiaccia per il letto, l'ho già scelto. Mica è un problema?"

"Certo che no, figurati. Sono io la ritardataria tra le due".

"Grandioso! Sapevo che ci saremmo capite all'istante, io e te" la mora sputacchiò fuori dalla finestra la cicca ormai insapore. La sua disinvoltura aveva un che di bizzarro. "Bando alle ciance, io sono Bergljót Johannsdóttir".

"Lóreley Dubois, piacere" si presentò l'altra, mentre si liberava della toga.

Ber le scoccò un occhiolino d'incoraggiamento. "Non sembri di Reykjavík. Vieni da fuori?"

"Sono di Selfoss, ma mia nonna materna è di queste parti".

"Io parlo del tuo cognome. Dubois non è per caso francese? E poi dai tuoi tratti si direbbe proprio di sì".

"Tratti?"

E cosa diavolo hanno di particolare i francesi?
cucinano delle ottime omelette

"Oh, oui! Il nasino alla francese ce l'hai eccome".

Lóreley rise di gusto e si ripiegò l'abito cerimoniale tra le braccia. "Certo, come no. Comunque è mio padre ad essere francese, mia madre ha origini danesi. Sono un bel miscuglio, c'è da ammetterlo, ma non mi lamento".

"E che fanno nella vita? Sono politici? Avvocati? Commercianti?"

"Semplici vulcanologi" Lór scrollò le spalle e per un momento le venne spontaneo ringraziarli per le loro umili origini. "Mio padre Marcel ha anche insegnato all'Università di Leoben, in Austria. Giusto quest'anno è andato in pensione".

"Oh, forte. Insomma sembra... interessante? Cioè, non sono un'esperta in materia e mi va bene così. Però sembra figo!"

Il cellulare di Bergljót, ingarbugliato tra le lenzuola sfatte, cominciò a squillare, richiamando l'attenzione delle due.

La proprietaria del costoso smartphone roteò gli occhi con fare scocciato, aggiungendo: "Scusa. Il mio di paparino vuole assicurarsi che l'istituto sia ancora in piedi dopo che ci sono entrata. Sai, secondo lui potrei fare guai anche solo passandoci dentro" borbottò, sarcastica, prima di uscire dalla stanza.

Lóreley si lasciò sfuggire un sospiro e si accomodò sul letto vuoto. Volse lo sguardo alla finestra aperta, rapita dal lento oscillare delle tendine blu che la impreziosivano, provocato da brevi sbuffi di vento. Tutto era tranquillo. Dei chiacchiericci sommessi provenivano dal cortile sottostante e il cielo, seppur ingrigito, lasciava filtrare una luce stranamente corposa, se non addirittura tiepida e gradevole sulla pelle. Erano passati dieci anni dall'ultima volta che aveva provato un senso di pace così evidente, più precisamente da quando sua madre l'aveva imbarcata sul primo aereo disponibile diretto a Saint-Médard-en-Jalles. Lì aveva finalmente avuto modo di conoscere l'altra metà riguardante le sue origini, quelle che condivideva carnalmente con Marcel.

Senza pensarci e con gli occhi chiusi, sfilò le scarpe e si accasciò di faccia sul materasso spoglio. Il pizzicore che l'aveva tormentata durante la cerimonia tornò però a disturbarla, costringendola ad aprire un occhio. Sospettosa si accucciò contro il muro e sollevò il piede destro. Il calzino era cosparso di macchie scure.

Sangue?
che ti aspettavi

Lór si curvò ancor di più e l'istinto la costrinse a una minuziosa investigazione. Dei piccoli tagli le percorrevano per intero la pianta del piede, alcuni secchi ed altri ancora aperti, quasi avesse camminato su una superficie di vetro andata in mille pezzi. Aveva indossato quelle scarpe da ginnastica per tutto il giorno, sin dalla sua partenza... come diavolo se li era procurati?

Poi ricordò. Quella sensazione, un intuito, un lampo a ciel sereno. La visione, sì, quella avuta in mattinata. La Baia privata di Reykjavík, il fragore delle onde contro la costa, il freddo sulla pelle. L'acqua salina e il senso di morte.

Che entrambi i fenomeni fossero ricollegabili tra di loro? Lo escluse a priori. Non le era mai successa una cosa simile prima d'allora e anche solo pensare che potesse esserci un collegamento effettivo la fece rabbrividire. Cercò allora di razionalizzare il più possibile per riacquistare la calma. 

Approfittò dell'assenza di Ber per imbottire le scarpe con dei fazzoletti e sperò di riuscire a tenere duro fino alla fine della giornata. Quegli sfregi facevano male, tanto male, e non voleva doversi giustificare durante il tour guidato dell'Istituto o addirittura saltarlo per quel malessere fisico. Quindi nascose sapientemente ogni prova e si precipitò accanto alle valigie una volta che la nuova compagna di stanza fu di ritorno.

"Maledizione, non mi lascia un attimo di respiro" borbottò Bergljót, sbattendosi la porta alle spalle. Cominciò a gironzolare in lungo e in largo per la stanza, nel vano tentativo di calmarsi.

"Anche mia madre fa così: zero fiducia, tante moine. Tipico dei genitori".

Ber puntellò i piedi a terra e si fermò. "Assurdo, pensa che io sia così folle da fare cazzate qui dentro. Non potrei mai... e poi ho tutta la capitale a mia disposizione".

"Ripeto: tipico".

Bergljót, dopo averla osservata in viso per una manciata di secondi, si curvò appena e aggrottò le sopracciglia spesse.

"Tu piuttosto... tutto bene?"

"Ahm... sì. Perché?" rispose prontamente Lór, senza smettere di armeggiare col beauty-case nella prima valigia.

"Non hai una bella cera. Sei molto pallida".

"Sono solo stanca, tutto qua" mentì e il bruciore ai piedi aumentò.

"Sicura? Hai... bisogno di qualcosa? Non ti mangio mica".

Lóreley forzò un sorriso. "Certo, sul serio. Ogni tanto la pressione bassa fa brutti scherzi. Il mio cervello sta ancora metabolizzando il fatto che sono finalmente sola e lontana dalle grinfie di mia madre".

"Moi aussi, amica mia!"

Bergljót piroettò sino all'uscio della camera e con un pomposo inchino la invitò a uscire assieme a lei.

"Ci conviene scendere, biondina. Ho proprio voglia di vedere cos'ha da offrirci quest'università del cazzo".

Le due si unirono alla piccola folla formatasi sull'entrata del dormitorio, la secondaria che dava sul giardino esterno.

"Per i nuovi arrivati: da questa parte!" sbraitò un universitario, agitando le mani al cielo come un forsennato per attirare l'attenzione dei presenti. La ragazza che lo accompagnava, di sicuro la seconda spalla del consiglio studentesco, prese a massaggiarsi le tempie con fare imbarazzato.

Il tipo era alto, molto, e portava i capelli biondi raccolti oltre le spalle, in un codino disordinato. Indossava una felpa stinta e scucita sui polsi, con lo stemma della scuola incollato sul petto a destra. Nonostante l'aspetto trasandato sembrava decisamente coinvolto –e convinto– dal suo ruolo di guida, a differenza dell'altra che lo affiancava.

Era identica in tutto e per tutto a Gíta. Non si azzardò a sollevare gli occhi nemmeno quando il gruppo li accerchiò, attirato dalle grida stridule del biondo. Il suo vestito nero riverberava una timidezza surreale, altrettanto anomala, tratto che le distingueva. Anche lei, oltretutto, sfoggiava una catenina in oro bianco, composta da un crocifisso impreziosito nel mezzo da uno zaffiro.

"Bene! Ora che siete tutti qui possiamo passare alle presentazioni" fece la guida, portandosi le mani ai fianchi. "Io sono Björn e come avrete potuto intuire faccio parte del comitato di benvenuto assieme alla qui presente Edith. Senza di lei che mi tiene al guinzaglio finirei solo per fare la figura del coglione" continuò e con fare giocoso le picchiettò il palmo sulla spalla.

Qualcuno rise. La suddetta, in tutta risposta, si sforzò di sorridere pur di apparire cordiale. "Vorrei, ah... innanzitutto congratularmi con voi. Frequentare la Fær Øer è un privilegio unico, raro, e sta a significare quanto le vostre famiglie tengano a voi e alla vostra istruzione. Il nostro Istituto è il quarto nella lista stilata negli ultimi anni sulle facoltà meglio attrezzate ed esclusive d'Europa, il che ci rende immensamente orgogliosi del traguardo raggiunto. Ora..."

"Edith, così li farai annoiare tutti quanti. Guarda che facce hanno" scherzò Björn e le guance di lei divennero rosse quanto due mele. "Ordunque, bando alle ciance! Prima di iniziare il nostro piccolo tour, amici, vorrei conoscervi. Punto primo: chi è entrato con la borsa di studio per il corso annuo di preparazione?"

Lóreley s'irrigidì. Fortunatamente fu Gíta, rimasta tra le ultime file del gruppo, a correre in suo soccorso.

"Che importanza ha?"

"Beh, è uno dei miei compiti illustrare alle matricole tutte le agevolazioni possibili dovute a quest'entrata. Allora? Nessuno?"

Tutti tacquero e Björn contò le prime tre mani sollevate, alle quali si sommò infine una quarta: quella di Lóreley.

Björn mordicchiò il cappuccio della stilo, pensieroso, e la indicò con la lista fornitagli da Edith. "Tu sei?"

"Lóreley Anaïssdóttir-Dubois" disse lei, sfumando di proposito la voce sul cognome ereditato da sua madre. "Sono qui per i corsi d'arte. Incisione".

"Dubois, Dubois... eccoti qui! I miei più sentiti complimenti. Non è da tutti riuscire ad ottenere una borsa di studio di questo calibro... non c'è soddisfazione migliore, credimi!"

Rimasta incagliata nell'occhio del ciclone, Lór rischiò affidandosi –involontariamente– alla cosa che da sempre le riusciva peggio: sdrammatizzare. "Certo, come no. Mia madre mi avrebbe voluta nel corso di Economia, ma non la biasimo mica: almeno sono riuscita ad entrare".

Bergljót le diede una gomitata tra sterno e fianco. "Ti scoreggia il cervello o cosa?"

Lóreley cercò di non badare a quel sussurro e in tutta risposta le pestò un piede. Tanto, si rincuorò, sono già rovinata.

"Altre domande su di me?"

"Ahm... no. Che caratterino!" Björn le si avvicinò, facendo spallucce, e le afferrò una mano senza preavviso. Gliela strinse con vigore, avvicinandosi poi al suo orecchio senza dare nell'occhio. "Attenta a come parli, lo dico per te: non farti mettere i piedi in testa da nessuno, cerca di passare inosservata e sta alla larga dai club universitari. Intesi?"

La ragazza si scansò un poco e annuì debolmente.

"Bene!" enfatizzò la guida, rimescolandosi ai nuovi arrivati. "Inizieremo il giro dalla facoltà di Economia. Seguite la ragazza vestita di nero, gente!"

Edith, ancora paonazza per la vergogna, prese il suo posto di capofila senza ribattere. Lóreley, invece, camminò per tutto il tempo con gli occhi bassi.

Club? E perché dovrei starci lontana?
fa' come dice

"Certo che sei proprio strana, oltre che secchiona".

Prima che potesse ribattere alle speculazioni di Gíta, adesso al suo fianco, Ber le cinse le spalle con un braccio, attirandola a sé con uno strattone. "Certo che è una secchiona. Peccato sul serio che tu non sia a Economia, biondina. Studiare insieme sarebbe stato uno spasso".

"Potrei darti una mano... ma non ci sperare. Sono più brava nell'incidere ossa, portare i conti non fa per me" Lór non riuscì a sopprimere un risolino isterico e giocosamente cercò di liberarsi da quell'abbraccio inaspettato.

Camminarono senza sosta per circa un'ora, durante la quale cercò di non zoppicare sul ciottolato. Visitarono gli edifici ospitanti le quattro facoltà principali e Björn si rivelò un'ottima spalla sui cui contare, oltre che a un inguaribile logorroico. Seguì poi l'area sportiva, fornita di un campo da tennis, uno di pallavolo e un'enorme piscina al coperto. Passandoci accanto, il cuore di Lóreley ebbe un sussulto e quel dolore martellante ai piedi divenne l'ultima delle sue preoccupazioni. Almeno avrebbe potuto continuare con gli esercizi di nuoto nel tempo libero.

Giunsero infine nel centro del complesso, ove il suo cuore si divideva in due. Nella struttura più recente vi era una caffetteria alla completa mercé degli studenti, un'area studio da urlo, la nuova biblioteca universitaria e una lavanderia manuale. Nella più datata, invece, la sala comune adibita ai pasti, l'antica biblioteca risalente alla fondazione dell'Istituto, l'enorme e sfarzoso atrio, gli uffici dei docenti e la segreteria.

In sintesi, tutto in quella scuola parlava chiaro: essere uno studente della Fær Øer era un privilegio, proprio come detto da Edith. Ma dov'era la fregatura?

"La cena viene servita alle otto in punto. Si può tardare solo fino alle dieci, mi raccomando! Detto questo, credo sia tutto. Leggete attentamente gli orari che sta distribuendo Edith: lì troverete tutte le informazioni per i corsi e le attività extra. Non siate timidi! Avrete tempo fino a giovedì prossimo per iscrivervi".

Il gruppetto si sciolse. Solo Lóreley, Gíta e Bergljót rimasero sul posto con gli orari stropicciati tra le mani.

Edith sospirò, cacciando fuori tutta l'ansia immagazzinata dall'inizio del tour. "Umh, è andata meglio del previsto".

"Non riesco proprio a capire perché vai sempre nel pallone. Sei brava, non farti mille paranoie a vuoto" la riprese Björn, mentre si avvicinavano alle tre. "A me ad esempio non frega un niente e vivo benissimo anche così".

Gíta interruppe la sua lettura e si rivolse alla maggiore non appena fu abbastanza vicina. "Ancora mi chiedo perché tu faccia parte del comitato di benvenuto, Edith".

"A dir la verità me lo domando spesso anche io... ma lasciamo perdere. Loro sono tue amiche?"

"Le ho conosciute alla cerimonia. Vedi? So socializzare anche io".

Lóreley sollevò lo sguardo e abbozzò un sorriso. "Piacere. Sono quella strana".

"E da dove vieni?" s'intromise Björn. "Non credo di averti mai vista giù in centro".

"Selfoss, a un'ora da qui. Voi siete tutti di Reykjavík?"

I quattro annuirono all'unisono e Lóreley non poté fare a meno di sentirsi fuori posto. Ciononostante la compagnia di quella nuova combriccola non le dispiacque affatto: si erano dimostrati gentili fin dal primo momento e l'avevano accolta nonostante la forte disparità sociale, fattore discriminante a cui avrebbe dovuto farci il callo. Oltretutto gli abitanti di Selfoss, dal primo all'ultimo pettegolo di bottega, non avevano fatto altro che metterla in guardia sui frequentatori dell'Università, arrivando addirittura ad ammorbarla con teorie massoniche sui voti di fine anno. Ma nonostante quelle dicerie di paese cercò di mantenersi propositiva e fiduciosa: Ber, Gíta, Edith e Björn l'avevano già accolta tra loro, era un dato di fatto.

"Bersisdóttir!"

Tutti si voltarono in direzione di quella voce estremamente irritante, Edith in primis. Davanti agli sventurati si presentò una ragazza bionda, le sue unghie laccate di rosso a far pan-dan con un rossetto del medesimo colore.

Una volta che fu abbastanza vicina, la suddetta pizzicò la guancia di Edith per costringerla a un contatto visivo. "Hai quegli appunti che ti avevo chiesto quest'estate? Sai, tanto per sapere. Il tempo stringe..."

L'attenzione di Lóreley vacillò e lo sguardo le ricadde su una spilla che accomunava le tre guastafeste: ognuna di loro aveva appesa alle camicetta una V. Che facessero parte di quei club tanto sconsigliati da Björn?

"Non ancora, Johanna. Dammi qualche altro giorno... e li avrai. Promesso".

Forse fu la presunzione di Johanna a scaldare gli animi dei presenti alla sceneggiata. Gíta, adesso rossa di rabbia dalla testa ai piedi, masticò un: "Per caso mia sorella ha stampato in fronte sfruttami? Le mani ce le hai, fatteli da te gli appunti".

Johanna sollevò un sopracciglio. "Ecco, dopo anni, che rispunta fuori la sorella della suora. Certo che siete proprio un bel duo. Vorrei tanto sapere dove comprate questi bei vestitini da becchino" osservò, avvicinandosi pericolosamente al suo viso. "Torna a pregare prima di andare a letto, scarto".

"Johanna, dai. Piantala di fare la cogliona, Edith non è alle tue dipendenze" s'intromise Björn, esasperato.

"Io voglio i miei appunti, ho aspettato fin troppo. E poi perché siete ancora qui? Sto parlando con Edith, mica con voi".

Bergljót afferrò Gíta appena in tempo, ormai sull'orlo di una crisi isterica. Dopodiché si frappose tra Johanna ed Edith, sollevando il mento con fare di sfida. "Sentimi, cosa, modera i toni".

Johanna la squadrò con un'occhiata soltanto e sorrise, beffarda, della sua tenacia. Certe cose non riusciva a lenirle manco il tempo, rancori passati compresi.

"Ah, Ber, ci sei anche tu. Sai per caso se tuo padre ha estinto quei piccoli debiti che ha col mio? Mi auguro di sì. Anche lui è molto stanco di aspettare".

"Che peccato, credo che non l'abbia ancora fatto. Piuttosto" Bergljót si sporse appena, assottigliando gli occhi. "Hai qualcosa sulla faccia, non dovresti andare in giro così. Sembra una sbavatura".

"Il mio rossetto è matte, razza di idiota, impossibile sia sbavato".

"Vediamo se riesco a toglierlo con un pugno, allora!"

"Okay, okay, state tutte calme!" Björn la trattenne per un polso, alzando i toni. "Johanna, levati dalle palle e finiamola qui. Un'altra parola e ti faccio convocare, sei stata avvisata".

Johanna rivolse un'ultima e sprezzante occhiata al gruppetto, memorizzando i visi di ognuno di loro con maniacale precisione. Si aggiustò la camicetta con entrambe le mani e, nel sorpassarli, spintonò di proposito Ber con una spallata.

Prima di dileguarsi, ecco sollevarsi l'ultima minaccia. "Hai tempo fino a lunedì, Bersisdóttir. Non tardare".

Gíta rimproverò Edith con uno sguardo. "Davvero ti fai mettere i piedi in testa da una così? Si può sapere che ti prende, eh?"

Edith non rispose e tremante come un fuscello al vento cominciò a indietreggiare, intimorita e poco propensa a fornire delle spiegazioni. Con gli occhi lucidi e le braccia ritte lungo i fianchi, si voltò e con passo spedito si allontanò il più possibile prima di cominciare a correre lungo il sentiero. A nulla servirono i richiami di Björn, tanto che fu costretto ad inseguirla, Gíta compresa.

"Un primo giorno col botto, eh?" osservò Lóreley.

Ber carpì il sarcasmo nella sua voce intanto che la calma tornava a fluirle nelle vene. "Ah, 'fanculo. Il botto lo farà Johanna quando le avrò manomesso i freni della sua BMW. Vieni, torniamo".

Rincasarono col freddo che ormai accarezzava i prati verdi e le loro inquietudini. Inquietudini che, in Lóreley, si accentuarono notando la videosorveglianza eccessiva attorno al dormitorio femminile. Titubante volle cercare delle risposte in Ber, ma preferì non fare domande: stava già masticando l'ennesima gomma alla cannella, assieme a una valanga d'insulti borbottati, e di distoglierla dal suo rito di sfogo non se ne parlava nemmeno.

Scoccate le otto e disfatte le valigie, Ber e Lór si apprestarono a raggiungere l'edificio principale per consumare la cena. Di Gíta nessuna traccia e trovarono Björn ad attenderle fuori dal dormitorio. 

"Edith e Gíta non verranno, vero?" domandò Lóreley, entrando a passo spedito nella sala comune.

"Edith non sta bene e sua sorella ha deciso di rimanere con lei".

"Per colpa di quella stronza bionda, immagino" Ber si sfilò il chiodo di pelle, gettandolo sul primo tavolo libero che le capitò a tiro. "Le gonfierei la faccia a suon di schiaffi, credetemi".

Si accomodarono e Lór si rivolse nuovamente a Björn in un bisbiglio. "Perché Edith dà i suoi appunti a Johanna? Non sembrano... grandi amiche".

Lui poggiò le guance sulle nocche. "Non lo so. Conosco Edith da un po',  è sempre stata gentile con chiunque, ma non capisco perché lo sia anche con Johanna".

"Qui c'è qualcosa sotto e io non sbaglio mai" suggerì Ber, adesso pensierosa. "Dovremmo indagare. Edith sembra stare molto male".

"Già. Provare non ci costa nulla".

"E come facciamo? Da cosa partiamo?"

La voce di Björn divenne un fastidioso ronzio nella testa di Lóreley. Nel suo sguardo, al momento, c'era solo e soltanto Gaël: il mondo attorno a lei aveva smesso di essere tale. Tutto non era più tutto, ma un insieme disarmonico di eventi, suoni, sensazioni. I chiacchiericci dei presenti, lo stridio delle posate sulla ceramica, i passi sul mattonato lucido, le risate incontrollate; niente seguiva una logica precisa e il tempo, suo compagno di natura carnale, sembrò annullarsi.

La realtà non era più realtà e immagini già vissute tornarono a contaminarle la mente, ad annientarle la lucidità, tanto brutalmente da lasciarla senza fiato.

Il mare, il muschio, il pericolo, la carne lacerata.

Il freddo.

Non vedo niente
lo vedi?

Nel frattempo qualcosa le colava dal naso, le impregnava le labbra e minacciava di fare altrettanto col mento. Lentamente Lór ci passò sopra le dita: il rosso brillante che le macchiò i polpastrelli la fece avvampare. In seguito guardò Björn, il più vicino ma al contempo il più distante. Era preoccupato, diavolo, eccome se lo era. Davanti a lei, invece, Gaël se ne stava ritto in piedi tra la folla, gli occhi sgranati e la pelle resa lucida dall'acqua che gli gocciolava dai vestiti. La stava fissando, sì, ne era certa. Ma come poteva?

Non vedo niente
lo
vedi?
continua a 
guardarlo

Il corpo del ragazzo venne attraversato da una scossa, un singulto tanto forte da distorcerlo momentaneamente. I capelli zuppi e la pozza che si andava a formare sotto i suoi piedi fecero rabbrividire Lóreley per la seconda volta. Poi lo vide spalancare la bocca: sussurrò quelle maledette parole con lentezza, quasi si trattasse di un mantra, e le lasciò annegare nell'acqua che si riversò dalle sue labbra viola.

Di me resta solo acqua

puoi
farlo
non lasciare che
affoghi
NON 

"Lóreley? Stai bene?"

Björn la strattonò di nuovo mentre Ber le premeva sulla faccia un fazzoletto di carta.

La ragazza tornò in sé con una sfarfallata di ciglia. E Gaël, ancora fermo accanto agli espositori, continuò a darle le spalle.

Non l'aveva mai fissata.

Dopotutto, come avrebbe potuto farlo?


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