04. Necessità

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10 ottobre 2011


La catena dei Samkaup si era infine rivelata l'unica salvezza per il conto di sua madre perennemente in rosso. La fluente parlata francese e l'inglese masticato le erano valsi uno stipendio non da poco e orari quantomeno flessibili alle sue esigenze da studentessa. La franchezza del supervisore, però, aveva tramortito la sua determinazione sul nascere: non si era risparmiato nel dirle che il suo turno era il più noioso e deprimente, poiché notturno. Passare l'intero fine settimana a lucidare i pavimenti, alla completa mercé dei pochi turisti nottambuli e a riordinare il cibo in scatola non potevano di certo essere le aspirazioni di una ragazzina sveglia come lei, parole del baffuto sessantenne.

Malgrado ciò aveva ingoiato quell'ennesimo boccone amaro senza replicare. Piuttosto che fingere con sua nonna Danielle per assicurarsi una paghetta settimanale aveva preferito sacrificarsi per un'intera invernata. Perché, come ribadito dal mondo intero e da qualsiasi schifoso riccone della Fær Øer, la fortuna non stava mai dalla parte di Lóreley Dubois. E nemmeno i soldi.

Ora se ne stava in piedi nella corsia degli alcolici, polo blu addosso col nome scritto in comic sans sulla schiena e uno spazzolone unto stretto nella mano destra. Era da poco passata la mezzanotte. I pettegolezzi ridacchiati dalle due cassiere di turno, intente a limarsi le unghie, erano tanto interessanti quanto snervanti. Avrebbe dovuto tenere duro altre due ore, dopodiché quella tortura sarebbe giunta al termine... per poi ricominciare alle nove della sera successiva.

"E quindi questo Ástríkur ti ha portata al Kaffibarin, ieri a cena. Ha pagato lui e ti ha regalato un mazzo di rose rigorosamente finte. Non male, Arey" borbottò la giovane, innervosita dalle risatine stridule che riecheggiavano per il supermercato. "Ma dovresti capire che non me ne importa un accidente delle lunghezze del tuo lui".

è divertente ascoltarle

"Divertente un corno" affermò sottovoce Lóreley, strofinando il pavimento a più non posso.

La voce di Arey venne coperta da ulteriori sghignazzi. Lóreley fece per voltarsi, pronta a bacchettare gli ennesimi stronzi sorpresi a palpare senza guanti sia frutta che verdura, quando una frecciatina mirata la costrinse a rimanere in allerta.

"Ma guarda chi c'è... il mirabolante astro nascente della Fær Øer in persona".

Johanna l'affiancò con passo deciso, seguita dalle tre che tanto sembravano le Charlie's Angels in minigonna, per niente a disagio sulle Jimmy Choo che portava ai piedi.

Con il cuore in mano fu costretta ad ammettere che quel tubino di paillettes taglio coscia, accostato a una pelliccia di vero montone, sarebbe stato sprecato addosso a una comune mortale, ad esempio lei. Ma chi mai avrebbe avuto il coraggio di ammetterlo così apertamente?

"Johanna".

"Il blu ti sta d'incanto, matricola" le confidò, strizzando un occhio con fare ammiccante. "E lo spazzolone è un tocco di classe, ti rende quasi minacciosa. Questo è il ruolo che ti si addice, senza ombra di dubbio".

"E tu vestita così prenderai un accidente, lo dico per il tuo bene".

"Ma davvero? Gentile da parte tua" le rispose, afferrando dallo scaffale una bottiglia di whiskey, la più costosa in esposizione, come suggerito dal piedistallo in vetro e lo strato di polvere sulla confezione.

"Mai stata così sincera... sai com'è, l'Islanda è parecchio fredda".

"Nemmeno mia mamma si preoccupa così tanto per me".

Lóreley scrollò le spalle, disinteressata all'apparenza. Il leggero tremore della palpebra destra, però, la tradì in pieno. Vedere Johanna maneggiare con noncuranza quel Jameson le riportò alla mente un episodio della sua infanzia, dove Marcel aveva quasi sfiorato l'infarto e lei una sbronza precoce: dodici anni prima, in una domenica piovosa passata a guardare la Formula 1, aveva ben pensato di svuotare un Balvenie da quattromila euro in un bicchiere della coca-cola, battezzandoci pure il bancone della cucina. Il tutto per rendere felice suo padre che, a conti fatti, felice lo era stato per i primi sessanta secondi, per poi lasciarsi andare a una risata forzata.

Con ancora quel flashback che le rimbombava nella testa, si apprestò a dire: "Mi domando il perché".

"Lo vuoi proprio sapere? Te lo dico subito".

La bionda più bionda tra le due ammiccò un sorriso sadico e, mentre si ravvivava i boccoli curati con la mano libera, sbatté di proposito la bottiglia a terra, cogliendo di sorpresa anche il trio di spettatrici. I vetri spessi schizzarono in ogni dove, veloci come proiettili, costringendo la dipendente a balzare all'indietro per lo spavento. Di sfortuna scivolò sul pavimento umido, lavoro che le era costato un'ora di intense spazzolate, e il forte odore d'alcool che pervase l'aria la stomacò più della presenza di Johanna.

Dal basso, Lór la fissò in cagnesco. Il sorriso sul volto della rivale, invece, era svanito, lasciando spazio a un'espressione quantomeno soddisfatta.

"Mia madre dice che sono troppo impulsiva. Come te, d'altronde" le rivelò, abbassandosi alla sua altezza per giudicarla meglio. "Dice anche che sono troppo orgogliosa. Vero, vero... questo difetto devo averlo ereditato da mio padre. Oltretutto non perde mai tempo a farmi notare che forse dovrei darci un taglio, che sono un po' viziata. Ma sai qual è la parte divertente? Lei è esattamente come me. Magari la infastidisce, non trovi?"

"Non vi compatisco per niente".

Gli occhi blu, imbrattati dall'ombretto viola, brillarono di una luce inquietante. "Tu? Compatire me? Casomai il contrario, bambolina. Ad esempio... hai settantamila corone per ripagare questa bottiglia di whiskey?"

Lór digrignò i denti.

"No che non ce le hai. Un bel problema, non credi? Questo piccolo incidente potrebbe costarti un'intensa settimana di lavoro, quanto mi dispiace. Ma... oh! Credo di avere la soluzione al tuo problema" ridacchiò, avvicinandosi più del dovuto con un paio di saltelli giocosi. "Potrei pagarla io per te, ci stai? A patto che tu taccia su quel che hai visto negli spogliatoi lo scorso giovedì. Va bene, matricola?"

Il borsone. Ha visto il borsone sotto la panca.
non negare

"Non so di cosa parli".

"Oh, troia, lo sai eccome. Non cercare di fottermi, non ti conviene" sibilò Johanna vicino al suo orecchio, facendola rabbrividire di sconforto. "Prova a dire soltanto una parola e la tua fantomatica carriera da schifosa raccomandata alla Fær Øer finisce nel peggior modo possibile, ti ho avvisata. Sono brava in queste cose, come avrai potuto intuire. Oppure non ti è ancora chiaro il concetto?"

"Sei sorda o cosa? Ti ho detto che non ho sentito nulla".

"Sì, Johanna, sei stata chiarissima" la scimmiottò con voce stridula, tornando ritta.

Dio, l'ammazzo. Fermami che l'ammazzo...

"Werner, tesoro, la tua nuova dipendente lascia un po' a desiderare: guarda com'è maldestra! Ma non preoccuparti, pagherò io per il disastro che ha combinato. Sii gentile con lei, è un po' inesperta, si vede".

Prima di dileguarsi, Johanna le schizzò di proposito del whiskey addosso con una tallonata. Solo allora capì di aver toccato il fondo.

Mentre cercava di rimettersi in piedi, un paio di mani l'afferrarono per le spalle nel vano tentativo di aiutarla: il buon samaritano corso in suo soccorso altro non era che Werner in persona.

"Stai bene? Ti ha fatto qualcosa?"

"No, è stata colpa mia, sono inciampata" si scusò Lóreley. La sua uniforme era un completo disastro e la sua dignità un cumulo di schegge annegate nel Jameson. "Mi spiace, ho combinato un casino. Pago la bottiglia, è il minimo che io possa fare".

Lui, vestito di tutto punto, non sembrò crederci. "Lascia stare, non ce n'è bisogno. So che è stata Johanna".

"Sul serio, insisto. Sarebbe... strano, insomma, capiscimi. La situazione è già inusuale di per sé e non vorrei approfittare della tua gentilezza".

"Lavori per i miei, mica per me" Werner rise e piccole rughe d'espressione gli circondarono gli occhi castani. "Non preoccuparti, ci mancherebbe" aggiunse.

Per una decina di secondi calò il silenzio tra i due, lui troppo preso a massaggiarsi la noce del collo per smorzare l'imbarazzo e Lór visibilmente sotto shock per quanto era accaduto in poco meno di dieci minuti. Che Johanna fosse affetta da manie di onnipotenza poteva ormai considerarlo un dato di fatto e, volente o nolente, quella mezz'ora extra in piscina le era costata settantamila corone e un probabile licenziamento alla fine del turno.

Oltretutto, non riusciva a spiegarsi come avesse fatto un tipo pacato –e smielato da far schifo– di nome Werner a entrare in quel club di megalomani. Anche se per un istante solamente la sua gentilezza l'aveva intenerita a tal punto da mandarle in tilt il cervello. Ignorò quindi l'idea di svignarsela negli spogliatoi a testa bassa per evitare un qualsiasi contatto col suddetto, cedendo al lato oscuro della meritocrazia illustratale da Ber. In parte. 

"Werner, comunque" si presentò poi, spezzandole quel dialogo interiore. "Finalmente riusciamo a presentarci".

"Già. Ecco, un po' strano anche questo, ma piacere mio. Sono Lóreley".

"Strano perché conosci già il mio nome?"

"Beh... io ce l'ho scritto dietro. In comic sans" Lóreley ricambiò il commiato ridacchiando. "Un po' pessimo, a dirla tutta".

"Già, dovrei dire ai miei di cambiare font. Questo è proprio un pugno in un occhio".

"Farò il tifo per..." uno grido lacerante, scandito da Johanna ferma sull'uscio del supermercato, la costrinse a morsicarsi il labbro pur di non risponderle a tono. "... te. Credo che tu debba andare".

"A quanto pare" sospirò, dispiaciuto. "Davvero, scusala. Ci vediamo a lezione" continuò, indietreggiando con passo incerto. "Alla prossima".

Lóreley accennò un saluto senza scomporsi. Molto probabilmente sarebbe andati a ballare per tutta la notte come qualsiasi altro teenager islandese. Avrebbero riso, urlato, si sarebbero divertiti fino al sorgere del sole. L'avrebbero fatto, sì, tutti tranne lei. Non c'era da meravigliarsi né tanto meno da invidiarli: allora cos'era quella malinconia che le stava offuscando la vista? Dal canto suo, avrebbe passato le successive due ore a puzzare come un'alcolizzata e a raccogliere i cocci sparsi per le corsie adiacenti.

Con lo spazzolone in mano e il cuore che ancora le martellava nel petto, cercò di ricacciare indietro le lacrime. Solo la voce di Arey, riprodotta dagli altoparlanti sopra la sua testa, riuscì a riportarla alla realtà... più incazzata di prima.

"Dubois, lo puliamo o no quello schifo? Ti serve un invito scritto?"

... Fottiti!


✖ Nel prossimo capitolo, "Scampare alla morte":

"Circoscrivere quell'agglomerato di poli opposti nell'espressione famiglia unita, dunque, non era e mai sarebbe stato possibile. Gli eventi che parlavano della sua vita erano oltremodo questi: niente più, niente meno. Nemmeno il tempo avrebbe avuto una chance di risanare quei rapporti logorati, anzi, aveva già iniziato a comprometterli. E il suo ruolo di collante intercontinentale cominciava seriamente a starle stretto."


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