08. Roulette Russa (pt.2)

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Il rosso vivo del crepuscolo insudiciava il cielo opalino, nonostante fossero da poco passate le quattro del pomeriggio. Lóreley sedeva sulla spiaggia disseminata di ciottoli e con gli occhi seguiva distrattamente il continuo morire delle onde sulla battigia.

L'aria salina e fredda, rimescolata dalle tipiche correnti che accarezzavano Reykjavík tutto l'anno, accompagnava alle narici l'acre odore dell'Atlantico. Se non fosse stato per gli otto gradi che di norma preannunciavano l'inizio della mezza stagione islandese, non c'avrebbe pensato due volte a tuffarsi in quelle acque così nere... ma la prudenza ebbe la meglio, dissuadendola da quel capriccio: una polmonite non poteva assolutamente permettersela.

Come al solito si accontentò e il disperato bisogno di distrarsi tornò comunque a bussare alla sua porta.

Distanti da lei una ventina di metri, Björn e Ber chiacchieravano sottovoce dal loro arrivo in spiaggia. Entrambi non avevano azzardato una parola di troppo sulla vicenda di Edith, comportandosi invece come se nulla fosse. Björn si era lamentato delle pecche del comitato universitario per tutta la durata del pranzo e Bergljót, se non altro, aveva accompagnato ogni morso al panino con un insulto ben mirato ai rappresentati che lo fiancheggiavano.

Tutto nella norma. Di Gíta, in ogni caso, non aveva potuto dire lo stesso. Di tanto in tanto l'aveva vista perdersi tra le chiacchiere dei due amici, il viso così spoglio d'emozioni e schifosamente pallido da rendere possibile un conteggio minuzioso delle lentiggini. Il momento le aveva richiesto di essere lì con loro, ma con la testa era stata altrove per tutto il giorno. Le sue preoccupazioni avevano ormai assunto le sembianze di Edith, questo Lór lo aveva dato per scontato sin da subito.

Allora perché fare finta di niente? Certo, Ber era stata chiara la notte precedente, appioppandole la nomina di terzo incomodo in un'apparente catastrofe che, come le aveva ribadito più e più volte, non le riguardava affatto per motivi che mai avrebbe saputo. Gíta, per tanto, doveva aver taciuto sulla faccenda perché lei non faceva parte della maledetta condizione nominata da Bergljót.

Il gracchiare della sabbia umida sotto un paio di anfibi troncò quelle riflessioni. Lóreley si ripiegò il colletto rigido del parka sotto il mento intanto che la rossa le si fermava accanto.

Gíta attese qualche istante prima di curvarsi sulle ginocchia per afferrare lo sketchbook in balia della sabbia. La sentì grugnire, rincuorata nel profondo.

"Non dovresti trattare così le tue cose. Rischi di rovinarlo".

"Tanto l'ho quasi finito, lo uso solo per gli schizzi veloci" le rispose di rimando Lór.

"Sarebbe comunque un peccato" Gíta finì per accartocciarsi su se stessa e con una spinta le si sedette accanto. "Posso vederlo?"

Lóreley annuì e senza obiettare si strinse le gambe al petto per scaldarsi. Stando ben attenta a non sgualcire ulteriormente il tutto, Gíta lasciò che la carta le scorresse tra le dita, accarezzando ogni pagina, tanto era forte il desiderio di voler toccare con mano e assorbire le mille sfaccettature delle sue creazioni.

Col dito insozzato di grafite indicò il volto particolareggiato di una donna, dal quale si andavano a ramificare i rimanenti schizzi. "Lei chi è?"

"Mia madre. Qui aveva ventisei anni" disse Lór, sporgendosi appena. "L'ho ricopiato da una foto che abbiamo in soggiorno. Gliela scattò mio zio prima che partisse come volontaria per uno studio all'Hekla. Ti parlo di vent'anni fa, come minimo".

Gíta accennò un sorriso timido, il primo di quella lunga giornata. "È molto bella. Quest'altri chi sono, invece?"

"Passanti".

"Passanti?"

Lóreley fece spallucce. "Già. Quando fa caldo disegno sul pianerottolo di casa".

Gíta non rispose. Ora perplessa, il sorriso che le aveva increspato le labbra era svanito in un battito di ciglia. La vide roteare lo sketchbook, incauta a dosare ogni movimento, e trascorso un momento colmo d'incertezza le indicò l'origine della sua curiosità. Si trattava anch'esso di un ritratto, grande a malapena quanto il suo indice, dal tratteggio minuzioso e le ombreggiature folte. Le linee a matita erano state accostate ad altre di un rosso sanguigno e sfumate di verde sui bordi.

"E questo cos'è?"

Lór si passò la lingua sui denti. Quel teschio di cervo non le diceva assolutamente nulla. "Mh. L'avrò visto in tv. Credo" confessò in un filo di voce. "Non ti piace?"

"Oh, scherzi? Certo che mi piace! L'ho solo trovato... curioso, ecco. Diciamo che è l'unico colorato, è normale che mi sia saltato all'occhio".

Ci volle qualche secondo prima che Lór riuscisse a staccare gli occhi dal bozzetto. Continuò a meditarci su anche quando Gíta voltò bruscamente pagina, passando alla sezione dell'album dedicata ai layout.

Guardando lo schizzo di testa di cervo una sgradevole sensazione le aveva stritolato la bocca dello stomaco. Poteva vantare una memoria fotografica eccezionale, il suo unico punto di forza di cui andava veramente fiera, e riusciva a ricordare con esattezza il tempo, il come e il chi aveva avuto modo di riprodurre con la sua matita. Tranne quello. Non seppe spiegarsi il perché, ma il fatto che stesse faticando a richiamare alla mente il momento e il luogo che le avevano ispirato quel disegno la irritò.

Gíta le ripose l'album nella tracolla di cuoio quando ebbe finito di sfogliarlo. Entrambe tacquero. Lór si ficcò le mani nelle tasche, mentre una bava di vento le scompigliava i capelli, e godette del silenzio provvisorio che cadde sulle due con la stessa pesantezza di un macigno. Non sapeva cosa dire, come comportarsi e perché era lì. Si sentiva di troppo, semplicemente.

Fece per rialzarsi, afferrando la borsa per la zip, decisa a fare due passi in solitudine per schiarirsi le idee. Preferì non giustificarsi. Non sarebbe comunque servito: l'amica aveva già capito le sue intenzioni, glielo si leggeva in faccia.

Gíta rimase comunque a terra, persa com'era in una giacca troppo grande per il suo fisico minuto. "Lór".

"Cosa?"

"Bergljót ti ha detto qualcosa?"

Lóreley contò fino a dieci prima di parlare. Sapeva benissimo dove voleva andare a parare. "Non molto".

"Potresti quantificarlo in qualche modo?"

"Il non molto, dici?"

"Sì".

Lór soppresse un sospiro e immerse la faccia nel collo del parka nero, adesso tanto imbarazzata quanto dispiaciuta.

"Mi spiace non avervi detto di Johanna. Non ci ho dato troppo peso, a essere oneste, ma Ber mi ha fatto cambiare idea. E mi ha detto di tua sorella" le spiegò, spianando la sabbia col piede per ingannare la tensione. "Non tutto, sia chiaro. Da come me ne ha parlato non sono dinamiche che mi riguardano. E lo rispetto".

L'abbattersi dell'acqua contro la riva palliò un singhiozzo soffocato, e un altro ancora, stavolta più nitido del precedente. Lóreley aggrottò la fronte, abbassandosi quel tanto da poter guardare Gíta in viso. Le guance le avvamparono tutto d'un tratto, colta alla sprovvista: stava piangendo.

"Gí...?"

"Non badarci, scusa. Non mi capita spesso, quindi non trattarmi come se fossi un'idiota" si affrettò a dirle con voce stridula. "Passeggiamo un po', mi passa subito".

Lóreley annuì debolmente e l'accontentò, passandole poi un pacchetto di fazzoletti. Passeggiarono l'una di fianco all'altra per un centinaio di metri, senza dirsi niente, senza guardarsi, tutte e due troppo orgogliose per darla vinta a un abbraccio o una parola di conforto bisbigliata nell'orecchio. Ma a cosa sarebbe servito, in fin dei conti? Lór sapeva poco e niente sulle sorelle Bersisdóttir e del perché Gíta stesse soffrendo così a fondo. Il suo era un pianto nervoso, angustiato, il tipico sfogo di una persona impotente e disperata. Poteva sentirla digrignare i denti nel vano tentativo di calmare i forti singhiozzi che le scuotevano il petto, i muscoli, il cuore.

Gíta inghiottì l'ennesimo singulto e parlò senza preavviso, quasi volesse ridarsi un contegno. "Perché disegni solo passanti?"

"Non ho molte conoscenze giù a Selfoss" Lóreley si schiarì la voce con un colpo di tosse. "Tutto qua".

"Nemmeno amici?"

Amici, eh?

"No, sono pochi i ragazzi della mia età. La maggior parte di loro ha traslocato qui a Reykjavík quando ero molto piccola".

"Eri... sola?"

Lór esitò. "Sì".

"Per tanto tempo lo sono stata anche io, sai?"

"Che intendi dire?"

Gíta si fermò e un fiume di parole straripò dalla sua bocca. "Per sei anni non ho messo naso fuori casa. Rifiutavo con tutta me stessa qualsiasi contatto col mondo esterno. Ne ero terrorizzata. Piuttosto avrei preferito marcire in camera fino alla fine dei miei giorni che tornare ad avere una vita normale" le spiegò tutto d'un fiato, inghiottendo un'altra palla d'aria per continuare. "Ci ho messo tanto a riuscire allo scoperto, a volermi bene, a credere di nuovo nelle persone. In quelle vere. Come lo siete voi, come lo sei tu. Ma ci sono cose che ancora mi fanno paura. E mi sento debole e incapace e..."

"Non so cosa significhi tutto questo, Gíta, perché la mia situazione non ha nulla a che vedere con la tua. Sappi solo che, come dice spesso mia nonna, le debolezze sono un ottimo punto di partenza per tornare ad essere forti. Non importa se ci vorranno giorni, mesi o anni... bisogna continuare a provarci".

"E quando si deve essere forti per qualcun altro, come si fa?"

"Nessuno è indistruttibile, questo è vero, e non lo si deve dare per scontato. Se qualcuno ha bisogno di noi dobbiamo esserci e basta. Non per entrambi, sia chiaro, ma si può fare in modo di agevolare l'altra persona ad affrontare quel terminato ostacolo. Sacrificarsi non serve a nulla... sorreggere ed aiutare sì".

"Tu lo hai mai fatto?"

"Non mi è mai stato chiesto".

"E lo faresti?"

"Sì" Lóreley sorrise appena, osservando uno stormo di gabbiani che si librava alto, proprio sopra un tronco adagiato sulla riva. "Sì, lo farei".

Gíta tirò su col naso. "Grazie".

"Per cosa?"

"Per avermi dato un punto da cui partire".

Altre due lacrime le incorniciarono il viso e il labbro le tremolò un'ultima volta prima di arrestarsi. Si fissarono a lungo e Gíta, strano a dirsi, fu la prima a cedere a quel confronto. Arretrò con lentezza, quasi volesse guadagnare del tempo per dirle che c'era dell'altro, perché c'era di sicuro, Lór lo percepiva e lei lo sapeva. Tuttavia preferì allontanarsi e tornare alla jeep piuttosto che renderla partecipe di quel dolore tanto lacerante.

Lór capì che quattro settimane alla Fær Øer non avevano assolutamente cambiato nulla nella sua vita. Cercare di contestualizzarsi in quella fetta di quotidianità non faceva al caso suo. Perché lei tutto poteva essere tranne che normale. Glielo aveva mostrato il suo ego, glielo aveva fatto pesare il suo passato, glielo aveva sussurrato quell'irritante vocina interiore. E si era ignorata. Come poteva quindi pretendere di essere parte di loro?

Anche lei aveva i suoi segreti e tali sarebbero dovuti rimanere fino alla fine. Rispettare quelli di Gíta, Edith, Björn e Ber era perciò l'unica soluzione per garantire a tutti un quieto vivere.

Fece per indietreggiare a sua volta e una scarica gelata le attraversò i muscoli, come a obbligarla a rimanere. Lóreley rimase in bilico sui talloni e lo sguardo le ricadde sulla danza concentrica compiuta dal gruppo di pennuti, il loro canto che sembrava un'accozzaglia di grida stridule alle sue orecchie.

Il riverbero rosso del tramonto le colpiva in pieno la faccia. Affilò perciò lo sguardo, tornando a fissare il tronco spiaggiato su cui vorticavano pericolosamente e l'area circostante: un puntino nero in movimento faceva capolino tra le ombre sbiadite proiettate dalla scogliera. Si stropicciò gli occhi con gli indici e man mano che i secondi passarono la macchiolina assunse forme umane. Solo allora capì che, all'apparenza, qualcuno stava correndo a perdifiato verso di lei.

Quel qualcuno agitò le braccia verso il cielo, come a richiamare la sua attenzione, e le gambe si mossero da sole, guidate da una volontà che non le apparteneva. Lór si avvicinò con timore, col cuore che le scalpitava nel petto a più non posso e la testa leggera.

La figura, adesso distinguibile, si gettò accanto al fusto d'albero adagiato sulla battigia.

Lóreley udì uno strillo, e un altro ancora. Solo allora cominciò a correre più veloce che poté.

"Aiuto! Aiutami!"

Quando fu vicina a sufficienza da potersi accasciare al suolo, realizzare l'impossibile e maledirsi, il suo cervello ebbe un sovraccarico d'informazioni.

No...

La sconosciuta si aggrappò con disperazione alle spalle del corpo che le divideva, mentre con uno sforzo disumano cercava di girarlo a pancia all'aria.

La pelle cianotica, le labbra viola, i vestiti bagnati: era Gaël in tutto e per tutto. Sdraiato in una tomba di sabbia a meno di un metro da lei, come le era stato mostrato nel suo primo giorno lontana da Selfoss, lontana dal ricordo di Ían. Lontana e basta, ma non abbastanza.

non lasciare che affoghi

Una fitta al petto, forte e inaspettata quanto un terremoto. Lór sentiva le gambe molli e un grido le morì in gola, soffocato da un nodo di lacrime. Tutto di lei pulsava, gridava, andava a fuoco. E mentre l'incendio divampava dall'interno riducendo le sue certezze a un mucchio di carboni ardenti, il gracchiare di un corvo le riportò alla mente della roulette russa intrapresa con la morte: la rivoltella di pesante metallo era adesso nelle sue mani; il dito premuto sul grilletto e la canna poggiata sotto il mento.

Doveva prendere una decisione, doveva reagire.

Doveva sparare.

E sperare di uscirne illesa per porre rimedio alle avventatezze di Gaël.


✖ Nel prossimo capitolo, "Affari di famiglia":

"Ber affilò i toni, rafforzando la stretta attorno al polso dell'agente, e un bagliore inquietante le attraversò gli occhi castani. Spalancati com'erano risultavano tanto innaturali quanto spiritati.
"Io dico che non c'è nient'altro da sapere. D'accordo? Vada a fare quattro passi che è meglio".
L'uomo fece per aprire bocca un paio di volte, forse impegnato a formulare una frase di senso compiuto, ma non ebbe la forza di controbattere tanta sfacciataggine. Si limitò a guardarsi attorno, adesso confuso, e scosse infine la testa mentre rifoderava il taccuino nella camicia.
Lóreley non disse nulla. Ögrisson la guardò un'ultima volta prima di sparire oltre la vetrata a specchio della sala d'attesa, seguendo alla lettera ciò che gli era stato ordinato."


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