09. Affari di famiglia

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Il tempo smise di scorrere in quello sputo di terra ai confini della capitale.

Il corvo dispiegò le grandi ali nere, zompettando nella rena molle, e il suo gracchiare sovrastò il pianto disperato che le rimbombava nelle orecchie, gli occhi piccoli e diabolici che riflettevano i bagliori rossastri del tramonto come fossero gioielli maledetti.

Lóreley annaspò, mentre quel canto luttuoso le preannunciava per la seconda volta l'impossibile: seppe per certo di averlo visto cavalcare l'aria grigia di Selfoss quel fantomatico pomeriggio di dodici anni prima. Euforico e affamato dalle circostanze, l'uccello si era poi appollaiato sul cancello della scuola nell'esatto momento in cui Ían le aveva lasciato la mano per correre da sua madre, in attesa sul ciglio opposto.

Un secondo più tardi c'erano stati lo stridio delle gomme sull'asfalto ghiacciato e un tum soffocato dalle grida della signora Agneta. Poi il nulla, almeno nella sua testa. Una folla l'aveva assalita e spintonata fino al bordo strada, costringendola a rivivere indirettamente l'incubo che aveva messo un punto alla sua infanzia.

Ed ora eccola di nuovo lì in balia del panico, del terrore e dell'inadeguatezza; mentalmente distrutta, sola contro la morte e spaventata dalle probabili conseguenze date da un fallimento.

"Aiutalo, aiutalo, ti prego!"

aiutalo
FALLO

Lór digrignò i denti tanto forte da sentirli scricchiolare. Il caso si era di nuovo preso gioco di lei, buttandola nel mezzo di un crocevia formato da infinite possibilità.

Doveva agire, compiere il fatidico passo verso la via del non ritorno e accettarne, per quanto umanamente debilitante potesse essere, le future implicazioni.

"Fa' qualcosa!" gemette ancora l'estranea, le mani che tastavano il viso pallido di Gaël, striato di rosso sulla destra. "Ti supplico, non so che fare... non so che fare!"

aiutalo
puoi farlo
ci sono io con te

Quella disperazione viscerale le attecchì tanto profondamente nell'anima da sentirla sua. Lór cercò di fare mente locale, mentre si liberava dalle costrizioni del parka. Inveì sottovoce per tenere a bada lo sgomento e gattonando si avvicinò più di quanto avesse voluto. Le dita fremettero, indecise sul da farsi, e un attimo dopo le incastrò nel bordo della camicia indossata da Gaël. Tirò con forza e la fila di bottoni allacciati schizzò via: il petto era immobile, non respirava.

"Okay, okay, ce la faccio" ripeté come un mantra. "Sollevagli il mento e tienigli la testa. Non mollarla per nessun motivo. D'accordo...?"

"Ísmey, mi chiamo Ísmey" le rispose l'altra e prontamente fece quanto le era stato chiesto.

Nel frattempo Lóreley posizionò entrambe le mani sul torace ghiacciato e cominciò la prima serie di compressioni, contandole per ammazzare l'ansia. Sfiorate le trenta inghiottì quanta più aria possibile e procedette con le due insufflazioni bocca a bocca.

Quelle dinamiche non avevano nulla a che vedere con le lezioni di primo soccorso. Gaël era di carne e ossa, non della stupida gomma sotto i suoi palmi. Era un essere umano, non un fantoccio su cui esorcizzare gli errori passati. Semplicemente era, come un tempo era stato anche Ían e tutti quelli che avevano abbandonato il mondo terreno per i motivi più disparati. Ma se lei poteva opporsi al fato e anticiparlo, allora ci avrebbe provato, avrebbe perseverato, si sarebbe finalmente ascoltata. Nell'ordine naturale delle cose che armonizzavano il mondo da che quest'ultimo ne aveva memoria, qualcuno l'aveva creata per porre rimedio alle sciocchezze compiute dal destino. E Lór d'ora in avanti avrebbe risposto con tenacia, lottando con le unghie e con i denti per non darla vinta a nessuno, per non perdere e perdersi più.

Ogni boccata d'aria ceduta a Gaël per permettergli di sopravvivere la allontanava gradualmente dal pessimo ricordo che aveva di lui: in un battito di ciglia l'antipatia era sparita, bandita dal suo stesso senso del dovere. Si obbligò quindi a non mollare, nemmeno quando le braccia cominciarono a dolerle per lo sforzo.

Continuò ancora e ancora, ignorando il formicolio alle dita e il crescente attacco di panico, ma il pianto che aveva cercato di reprimere sembrò avere la meglio. Nel mentre un grido le risaliva la gola, Gaël spalancò la bocca e i muscoli dapprima rigidi vennero attraversati da violenti spasmi. Si oppose al massaggio cardiaco e girandosi su un fianco tossì acqua a non finire.

I singhiozzi di Ísmey si annullarono con un sospiro liberatorio. Se lo trascinò tra le braccia, stringendoselo al petto con prudenza, e reclinò la testa all'indietro per riprendere fiato.

Lóreley fece lo stesso. Le sue labbra erano pregne di salsedine e la sua anima di una pace apparente. Non si scostò nemmeno quando i tre che l'avevano accompagnata a quel faccia a faccia col destino l'affiancarono, sconvolti e perplessi fino al midollo.

Bergljót le si gettò accanto, intanto che Björn si armava del cellulare per chiamare i soccorsi.

"Lór?"

Lóreley scoppiò in lacrime. Si coprì il viso con le mani imbrattate di sabbia e rise, rise di cuore; rise tra i singulti fino a sentire la testa scoppiare. Avrebbe tanto voluto urlare ho vinto io!, afferrare una pietra e colpire il messaggero di sventure che non udiva più, eppure riuscì a contenersi. Che avesse adempiuto o meno ai doveri che le erano stati impartiti, rimanendo imbrigliata in una congettura più grande della sua umanità, poco le importava: ce l'aveva fatta.

Ber l'abbracciò forte, apparentemente all'oscuro della maledizione che li aveva tutti condotti lì. Lóreley, d'altro canto, pianse come per anni aveva desiderato fare: senza freni, senza pudore, senza vergogna.

Ce l'ho fatta.
Questo è per te, Ían.

"Tieni".

Lóreley sollevò il capo, nauseata dall'aroma sprigionato dal caffé annacquato.

Björn perseverò fino alla fine, agitando la brodaglia rigurgitata dal distributore. "Lo so che non è il massimo, ma ti aiuterà a stare meglio. Credo" gracchiò. "La caffeina aiuta sempre".

In questo momento solo una doccia potrebbe aiutarmi, si disse, e accolse quel tepore provvisorio tra le mani pur di non obiettare: le forze per farlo l'avevano completamente abbandonata.

A giudicare dalla lunga occhiata che le aveva rivolto l'amico prima di sedersi stancamente sulla panca accanto, la sua faccia doveva fare proprio schifo. Gli occhi le prudevano da morire –a causa del pianto che era riuscita a calmare solamente un quarto d'ora prima– e di tanto in tanto qualche singhiozzo ancora le varcava le labbra.

Dal ritrovamento di Gaël la centrale di polizia di Reykjavík era caduta preda di una farneticazione collettiva. Qualsiasi agente in servizio mormorava sull'accaduto e già si speculava sulle motivazioni alla base della tragedia. Ma soprattutto si rifletteva su come diavolo avesse fatto Gaël Elíasson a scampare alla morte anche stavolta.

"Sei più tranquilla, adesso?"

Lór fissò le increspature brune che s'ammassavano nel bicchiere di plastica: stava tremando. "Sì" mentì. "Sì, sto meglio ora".

"Hai avuto fegato. Non so come tu abbia fatto a mantenere la calma fino all'ultimo" continuò Björn, abbandonando la testa al muro. Aveva i capelli sciolti.

"Già".

"Chissà perché l'ha fatto".

La plastica calda le scricchiolò inevitabilmente tra le dita. "Avrà avuto le sue motivazioni".

"Umh. Beh, gli ha detto culo pure oggi. Robe da pazzi... si è fatto un volo di dieci metri e ha pure rischiato di morire spiattellato contro gli scogli. Non vorrei essere nei suoi panni, ora".

"Nemmeno io" sospirò. "Dov'è Gíta?"

"Al telefono con i suoi. Non credo che abbiano preso bene quel che è successo. A detta di questi stronzi patentati eravamo parcheggiati in una proprietà privata. Ma non finiremo nei guai... spero. Al massimo una bella multa e passa la paura".

Lo sguardo di Lór percorse per intero l'ampiezza della sala d'aspetto, asettica e povera d'arredamento. Il suo indagare la condusse a Bergljót, l'unica che al momento pretendeva accanto a lei.

L'amica si trovava sul lato opposto al suo, oltre la seconda fila di panche bianche, con le braccia strette sotto il seno e un'espressione scocciata stampata in viso. Stava chiacchierando con gli agenti di scorta inviati sul posto per prelevarli. Uno dei due, il più basso e paffuto, si allontanò qualche attimo più tardi e a passo spedito raggiunse lei e Björn, come ordinato dal poliziotto che lo fiancheggiava.

Col taccuino stretto tra le mani la incitò a seguirlo con un'occhiata di troppo. Lór si strofinò i palmi sui jeans per farsi forza e Björn, con fare affettuoso, la incoraggiò a sua volta con una pacca sulla spalla.

"Dubois, giusto?"

"Sì, sono io".

L'uomo, di sicuro sulla soglia dei sessant'anni, prese ad accarezzarsi il baffo curato, squadrandola da capo a piedi. "Sono l'agente Ögrisson, piacere di conoscerti. Sarà una cosa veloce e indolore, te lo garantisco. Devo solo farti qualche domanda sull'accaduto, niente di particolare. Ti chiedo solamente di essere il più concisa possibile nel rispondere, d'accordo?"

"D'accordo".

"Breve resoconto della tua mattinata, Lóreley?" le chiese, incollando gli occhi sulle dichiarazioni appuntate.

"Beh... mi sono alzata verso le dieci e alle undici mi sono recata in università per i corsi di xilografia" cominciò lei, stringendosi nella felpa scolorita. "Sono una studentessa della Fær Øer".

"Continua".

"Sono stata in biblioteca a studiare fino a mezzogiorno e mezzo. Per pranzo abbiamo prenotato un tavolo al Grillmarkaðurinn. Ho mangiato un panino con le sardine e insalata".

Lo vide alzare gli occhi dal taccuino e un sorriso bonaccione gli increspò le labbra. "... Con la senape o senza?"

Lóreley si morsicò il labbro pur di non ridere. "Senza, signore".

"E?"

"Verso le tre abbiamo lasciato il locale e abbiamo gironzolato in jeep. Ci siamo fermati sulla conca per fare quattro passi, a circa un chilometro dalla prima scogliera della Baia. Non c'erano divieti d'accesso e il posto non era nemmeno recintato..."

"Sta' tranquilla. Un mio collega ha avuto modo di parlare con la famiglia Elías. Non sporgeranno denuncia, non preoccuparti" Ögrisson abbozzò un secondo sorriso. "La tua amica Bergljót mi ha detto che sei stata tu a trovare il corpo... assieme a sua sorella Ísmey".

Lór tacque. Si sforzò di ricordare più nel dettaglio quella che, fino a un attimo prima, aveva etichettato come tipa inquietante che soccorre gente a caso e si dispera –praticamente una dettagliata descrizione di se stessa–. Un minimo di somiglianza tra i due l'aveva però notata, a partire dai tratti somatici che li accomunava quali zigomi sporgenti, labbra sottili e orecchie piccole. Se la figurò nei ricordi, materializzandosela davanti agli occhi nel tentativo di confrontarla a Gaël: Ísmey portava dei capelli corti taglio maschile, di un nero pece frutto di una probabile tinta, un vistoso apparecchio per i denti, evidenti segni dell'acne adolescenziale sulle guance e la corporatura minuta.

Ad occhio e croce non le avrebbe comunque dato più di quindici anni. Fatto sta che vederla annegare in quello stato pietoso le aveva stretto il cuore in una morsa letale. Una cosa simile non l'avrebbe mai augurata a nessuno, nemmeno al suo peggior nemico. Forse.

"Ho visto Ísmey correre verso di me mentre passeggiavo lungo la riva. Si è accasciata vicino a quel che presumevo fosse un tronco d'albero e quando l'ho sentita strillare mi sono avvicinata. Sono stata io a praticare il massaggio cardiaco su Gaël".

"Lo conoscevi già?"

"Ci ho parlato una volta in biblioteca. Un paio di settimane fa, se non ricordo male. Nulla di particolare".

"Di cosa avete parlato?"

"Non... mh" Lóreley fece rimbalzare gli occhi da un capo all'altro della sala, visibilmente amareggiata. "Abbiamo parlato di cose. Punto".

Ögrisson, sospettoso, inarcò un sopracciglio. "Che genere di cose?"

"... Mi ha consigliato una visita dall'otorino e una rinoplastica per respirare meglio, ecco tutto".

"E non hai notato nulla di strano? Non so, qualche comportamento sospetto, una parola fuori posto..."

"Sul serio, mi è parso stare benissimo".

"Lóreley, non posso neanche immaginare quanto sia frustrante" l'agente le strinse la mano tra le dita grassocce. La cercò con gli occhi, scavandole nell'anima. "Ma è importante. Qualsiasi dettaglio, anche il più insignificante, potrebbe aiutarci nelle indagini".

Quel contatto improvviso la innervosì. "E io le ripeto che tutto mi è sembrato tranne che stare male. Stop".

Il sessantenne non demorse. Caricò il secondo colpo in canna, convinto in tutto e per tutto, eppure qualcuno si sentì in dovere di interrompere quell'interrogatorio forzato: Bergljót ora gli stringeva convulsamente la manica della divisa beige, poco propensa a tornare sulle sue.

"Non ha nient'altro da dire, quante volte deve ripeterlo prima che lei lo capisca? La lasci stare, è ancora sotto shock per quanto è accaduto".

"Ti dirò, signorina: le buone maniere prima di tutto".

Ber affilò i toni, rafforzando la stretta attorno al polso dell'agente, e un bagliore inquietante le attraversò gli occhi castani. Spalancati com'erano risultavano tanto innaturali quanto spiritati.

"Io dico che non c'è nient'altro da sapere. D'accordo? Vada a fare quattro passi che è meglio".

L'uomo fece per aprire bocca un paio di volte, forse impegnato a formulare una frase di senso compiuto, ma non ebbe la forza di controbattere tanta sfacciataggine. Si limitò a guardarsi attorno, adesso confuso, e scosse infine la testa mentre rifoderava il taccuino nella camicia.

Lóreley non disse nulla. Ögrisson la guardò un'ultima volta prima di dileguarsi oltre la vetrata a specchio della sala d'attesa, seguendo alla lettera ciò che gli era stato ordinato.

"L'insistenza non la sopporto proprio".

Detto questo Ber raggiunse i distributori automatici montati accanto ai bagni. Lór si era nel frattempo ammutolita. Domandarle del come avesse fatto a dissuaderlo con tanta facilità le venne spontaneo. Malgrado ciò non replicò, troppo impegnata a rimuginare sul suo patetico vissuto, quello che l'aveva condotta fino lì. Solo la voce di Björn, di un'ottava più alta del normale, la richiamò tra i comuni mortali.

"Mamma?!"

La gentile signora in divisa, ferma sull'uscio dell'ufficio del vicequestore, lo trucidò con un'occhiata soltanto. Nemmeno Lór avrebbe dimenticato quello sguardaccio truce e accusatorio, nossignore, anche perché identico a quelli che le lanciava Anäis quando si ostinava a controbattere. Quella skill intimidatoria dovevano possederla tutte le mamme del mondo, non c'era altra spiegazione.

La donna non batté ciglio, parlando come un soldato di ventura. "Björn, entra nel mio cazzo di ufficio. Adesso".

Il pregiudicato in questione si accolse la testa tra le mani prima di avviarsi al patibolo per ricevere la giusta sentenza di morte.

"Sono spacciato". 


✖ Nel prossimo capitolo, "Di post-it gialli e rosa":

"L'euforia scaturita dalla resurrezione di Gaël –mista alla soddisfazione di essersi presa una rivincita contro la morte– si alternava a stati d'animo non proprio catartici e felici. C'erano momenti in cui sentiva esplodere dentro il bisogno di rassicurarsi, di dirsi che andava tutto bene e di non aver scombussolato alcuna legge regolatrice dell'andazzo cosmico o, peggio, manomesso lo scorrere del tempo stesso. Un attimo dopo tornava però vigile, armata dello spiccato senso da buon samaritano trasmessole da Marcel e si abbandonava alla finta quotidianità che si respirava alla Fær Øer, soddisfatta dell'operato, il suo operato."


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