11. Raggio di sole

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16 ottobre 2011

(...) L'arte della predizione affonda le sue radici nel mistico e nell'antico. Le predizioni avvengono in maniera consapevole e selettiva, in una sorta di interscambio che coinvolge l'ultraterreno e la materialità esistenziale dell'essere umano: il ricevitore che si avvale della facoltà pratica di eseguire questo contatto diretto col mondo dei morti altro non è che un medium, un tramite di carne ed ossa investito dal volere divino e dotato di un'estrema sensibilità al mitico e all'invisibile.

Il medium, od anche detto oracolo e sciamano, assume connotati differenti a seconda della sua terra di provenienza e assimila nelle modalità di venerazione la cultura primigenia a cui appartiene. La leggenda vuole che, in territorio islandese, quest'importante carica sia stata affidata alla guida di un singolo individuo, generalmente di sesso femminile, e alla sua cerchia di aspiranti cantori, anch'esse donne. Nella cultura popolare d'Islanda la medium cardine prende quindi il nome di vǫlva.

(...) La vǫlva si spoglia della pesante umanità che la lega visceralmente all'ambito materiale tramite canti e balli esoterici, conducendosi così a uno stato di estasi superiore. Spesso ricorre all'uso di infusi dalle proprietà allucinogene per accelerare questo processo di scissione dal concreto all'intangibile. (...) In un contesto prettamente fertile e legato alla sensualità come forma di estrema compattezza, i riti orgiastici sono ammessi: l'unione spirituale di più individui agevola l'accesso al piano astrale denominato Litlaus (illustrato a pg.102).

(...) È importante ricordare che l'investitura della vǫlva è di carattere ereditario, in quanto le modalità di concepimento sono parte di un rito di trapasso che segna la fine dell'attuale mandante in carica.

Pensierosa, Lóreley addentò la porzione di mela rimasta, succhiando poi il succo che le impiastricciò le dita. Si pulì la bocca con la manica della divisa e gli occhi indugiarono sull'ultimo paragrafo letto.

Fu difficile per lei smembrare le informazioni apprese e incollarsele addosso, anche perché quel carattere ereditario, per quanto ne poteva sapere, non la riguardava: le origini danesi di sua madre la discostavano ulteriormente dal mito della vǫlva, per non parlare del gene francese ereditato da Marcel. Per giunta la fantomatica medium era dotata di una volontà propria sul piano delle predizioni terrene ed era solita indurle tramite riti estatici.

Le somiglianze con la vǫlva erano pressoché minime, se non nulle. L'unico fattore accomunante trattava la percezione di un futuro incerto e la possibilità di cambiarlo a seconda delle proprie necessità. Il pensiero di non essere sola tornò quindi a tormentarla.

A chi apparteneva la volontà che stava mettendo in atto? A lei non di certo. Ma se le tempistiche e le circostanze fossero state dalla sua parte avrebbe scelto in modo autonomo di salvare Ían, in quanto suo amico, mica Gaël... forse. La sua solidarietà aveva comunque preso il sopravvento, guidandole le mani e la bocca durante la rianimazione del ragazzo.

Questo la rendeva debole, malleabile e incapace di tirarsi indietro per natura. Le alternative future si suddividevano perciò in scappare e sentirsi un mostro e agire e stare in pace con se stessa. Escludendo quindi varie ed eventuali obiezioni di coscienza, il giudizio di una situazione le apparteneva soltanto per metà, alla sua metà umana. La morale della favola era di facile deduzione: si era fatta avanti con Gaël per ritrovare la serenità perduta con la morte di Ían e quel qualcuno doveva averlo saputo a priori.

Lór si ripose il libro sulle gambe, la testa che scoppiava e il respiro corto. Più si sforzava di comprendere, più la verità le sgusciava via dalle mani, come fosse sabbia asciutta. Rimbambirsi su ragionamenti alla base dell'etica e della morale non l'avrebbe aiutata a passare altre cinque ore in quel supermercato di merda, oltretutto. Si rimise in piedi, abbandonando il mattone di novecento pagine su uno scaffale del magazzino, e lanciò nel cestino accanto il torsolo annerito prima di uscire.

Si armò di tanta pazienza e tornò a etichettare le confezioni di carta igienica con un vago odio impresso negli occhi. Quella sera il civettare di Arey aveva superato i limiti del sopportabile: magari avrebbe avuto la fortuna di predire la sua, di morte, e scegliere volontariamente di fregarsene.

Mentre si sollevava sulle punte per raggiungere il terzo ripiano, un tipo le rubò di mano il pacco da sedici rotoli. Lóreley inghiottì un insulto e tornò composta con lentezza, colta in fallo.

Werner sventolò vittorioso il bottino di guerra e accennò un sorriso timido, il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Indossava una tuta grigia, umida all'altezza delle spalle, e qualche lacrima di pioggia ancora gli colava dai capelli. Una goccia s'impicciò tra le pieghe di una cicatrice sulla guancia, fatta risaltare dai riverberi bianchi sprigionati dai neon. Lór non ci aveva mai fatto caso, o molto probabilmente non si era mai presa la briga di osservarlo così a lungo.

"Priorità" sghignazzò il ragazzo, visibilmente in imbarazzo. "È tremendo quando ti accorgi di aver finito la carta igienica... nel momento meno opportuno della giornata, non so se mi spiego".

Lór si stropicciò gli occhi e una risata le crebbe in gola. "Diavolo, lo capisco eccome" si sforzò di sdrammatizzare, e il ricordo della bottiglia di Jameson andata in mille pezzi tornò a castigarla.

Cavolo, lo aveva evitato per settimane... e ora ce l'aveva di nuovo davanti, bello come il sole e bagnato dalla testa ai piedi. Ma soprattutto bello.

Da quanto ho cominciato a fare certi apprezzamenti su Werner?
questa è una caduta di stile, Lóreley

"Ciao, comunque. Cioè... avrei dovuto salutarti prima. Intendo prima di prenderti questo dalle mani".

"Priorità, l'hai detto anche tu" rispose lei di rimando, e s'intrecciò le braccia al petto con fare meccanico, indecisa sul ringraziarlo o meno.

Sperò che quell'incontro imbarazzante finisse al più presto. Non voleva si sapesse che la progenie del Samkaup -sì, proprio della catena di supermercati- rivolgesse la parola a una comune mortale come lei. Ma Arey, bella che accomodata alla sua postazione da cassiera nullafacente, già li osservava da lontano con un sorrisetto maligno stampato sulla bocca e la lima per le unghie sollevata a mezz'aria. A fine turno le avrebbe fatto il quarto grado negli spogliatoi, Lóreley lo sapeva bene, e quella sarebbe stata l'occasione perfetta per liquidarla con un bel fatti i cazzi tuoi.

Werner scrollò le spalle. "Sei qui da molto?"

"Dalle sei".

"E finirai alle due, giusto?"

gira a largo, amico

"Giustissimo" Lór incollò gli occhi al prezzario pur di non guardarlo. Chissà come se l'era procurata, quella cicatrice. "Mi va bene così, però. Non ho molto da fare in settimana".

"Per due anni ho fatto il tuo stesso turno, ti parlo del periodo del liceo. Questo è il più tranquillo e con meno scocciature, anche se vivere di notte non è il massimo" si confidò.

"Quindi puoi capirmi, insomma. Dev'esser stato stressante per te se mettiamo in conto anche la scuola. Sono stati i tuoi ad obbligarti?"

"L'ho fatto volontariamente. Meno stavo in casa e meglio era per me".

Lóreley si mordicchiò l'interno guancia, evitando di sbilanciarsi con domande inopportune. Che aveva voluto insinuare?

Werner captò il suo indugiare, correndo ai ripari. "Comunque posso dire di aver fatto gavetta anche io, qui dentro. Il prezzario del duemilasei lo ricordo ancora!"

"E io quello di quest'anno, che coincidenza" disse Lóreley, cadendo preda di una risatina nervosa. Fece per sfilare il taglierino dalla tasca dei pantaloni e agguantò una scatola di cartone sigillata, l'ultima da rassettare. Quella conversazione stava avendo degli alti e bassi allucinanti.

"Beh... ti lascio lavorare in pace. Ci becchiamo a lezione" la salutò, sorridente.

Lór sollevò la testa intanto che accompagnava la lama del taglierino con la mano libera.

Dai, ringrazialo.

"Werner?"

"Sì?"

"Volevo dirti grazie per..."

Una bomba di puro calore le si raggrumò nella mano destra, esplodendo al suo interno e frammentandosi infine sino alle punte delle dita. La sgradevole sensazione lasciò spazio a una fitta lacerante, accompagnata dall'odore ferroso del sangue e dalla consapevolezza di aver fatto una cazzata. Lóreley balzò all'indietro, lanciando l'arma del misfatto assieme a un grido, e l'attimo dopo realizzò l'effettiva grandezza dello sfregio sul suo palmo.

I tempi di reazione di Werner furono tanto veloci quanto inaspettati. Le si parò di fronte con una falcata soltanto, afferrandole la mano tagliuzzata, noncurante dei fiotti rossi che gli lerciarono la felpa. Gliela spinse sulla pancia, tirando poi il bordo della divisa blu affinché potesse avvolgerla per bene.

"Ah, cazzo..." mugugnò lei, pallida come un cencio. "Dio, che stupida!"

Werner non si diede per vinto. "Calma, calma. Tienila stretta e basta" la incoraggiò con un filo di voce.

Lóreley non obiettò, troppo impegnata a inorridire alla vista del sangue. Rassicurata da chissà quale volere cosmico si abbandonò allo scorrere degli eventi, mentre quel santone di Werner la caricava sul suo bel fuoristrada parcheggiato dietro l'angolo e la trascinava con una calma invidiabile al pronto soccorso.

Tutto era accaduto proprio perché Lór, che di facce da culo ne aveva da vendere, si era decisa a ringraziarlo per aver messo una buona parola con i suoi -perché doveva, lo aveva fatto al cento per cento, non c'era altra spiegazione- sull'incidente del Jameson. E il caso aveva voluto che quella presa di coscienza le costasse un taglio di circa sei punti, una prognosi lunga tre settimane e Werner in perenne veste di crocerossina.

A pensarci quest'ultima cosa le andava pure bene. Avere affianco un babysitter affascinante, ricco e con la sua stessa passione per i prezzari stagionali non sarebbe stato male. Il lato positivo di quelle sfighe a palate era allettante, doveva ammetterlo.

Badante e sfigata adesso sedevano spalla a spalla nella sala d'aspetto dell'ospedale, entrambi silenziosi e nauseati dall'odore dei disinfettati. Lór teneva il braccio alzato, come consigliato dal medico che l'aveva torturata con i punti sutura per più di quarantacinque minuti, e Werner disegnava sul suo Ipad. Erano da poco passate le undici e la furia del temporale non accennava a diminuire. Per quanto Lóreley lo avesse pregato di levare le tende e di lasciarla a marcire nella sua stupidità, lui aveva controbattuto con una valanga di sorrisi, i soliti e smielati sorrisi alla Werner.

La forza di volontà era dura a morire in lui. Quindi le venne spontaneo pensare: tra quanto si sarebbe rotto le scatole di soccorrerla e di corteggiarla?

Un sospiro lo distolse dai suoi scarabocchi. "Senti dolore?" le sussurrò con fare apprensivo.

"Un po', ma sta passando".

Werner le passò l'Ipad, sogghignando. "Tieni, allora. Guarda".

Lóreley inarcò un sopracciglio nel mentre realizzava l'effettiva stupidità dello sketchino. Il doodle in questione era lei, i capelli scompigliati e l'uniforme in disordine. La bocca spalancata in un grido con tanto di onomatopea affianco, il tutto condito da rotoli di carta igienica fluttuanti e prezzari del duemilaundici.

"Ma dai, ho seriamente fatto questa faccia?" Lór rise di gusto.

"Sì. Per un attimo ci sono rimasto anch'io!"

Una lacrima, scaturita dalle troppe risate, le sfuggì dalle ciglia. Lóreley la raccolse col dorso della mano sana, tirando su col naso. "I doodle ti vengono davvero bene. Per me è un dieci" ammise.

"Addirittura, io direi un sette. E pensare che Johanna s'incazza parecchio quando sketcho lei".

Boom.

Prima regola del manuale del buon rimorchiatore: evitare di nominare l'acerrima nemica della tua preda in un momento così intimo e demenziale. Mai tirare in ballo quella stronza di Johanna nelle vicinanze di Lóreley Dubois, a essere precisi, e il repentino cambio d'espressione di quest'ultima ne fu la prova.

Tutto d'un tratto le tornarono magicamente alla mente, a suon di bidibi bodibi bu, le vicende che l'avevano allontanata dall'idea di frequentare Werner. La sua scarsa dedizione ai ragazzi era la prima in assoluto, il driver-ricatto nelle mani dello scapolo del Samkaup la seconda, gli avvertimenti di Gíta la terza. E l'ultima, non meno importante delle precedenti, l'incomprensibile amicizia Werner/bionda-atomica.

Avrebbe voluto chiedergli cosa lo legasse a lei, perché la frequentasse e come facesse a sopportare -e supportare- tanta cattiveria gratuita. Ciononostante si morse la lingua, si diede dell'idiota e incassò l'ennesimo colpo basso, rimpiangendo -rimpiangendo?- quel piccolo momento di gloria che si era ritagliata con mister raggio di sole e sorrisi a non finire.

Quella storia dei tabù alla Fær Øer doveva finire e la sua sfortuna andarsene a quel paese. Il senso del dovere... anche. E l'animo solidale, quello come capofila e in direttissima.

Werner, che stupido non era, qualcosina sembrò carpirlo. Distese le gambe e s'intrecciò le mani dietro la testa, gli occhi bruni attaccati al soffitto e un'espressione seriosa gli era calata sulla faccia.

Una frase, una soltanto, la più sbagliata, incosciente e dolorosa fino a quel giorno, attimo e secondo: "So che eri nelle docce, quel giovedì. Negli spogliatoi della piscina".

Lór abbandonò il braccio fasciato sul grembo, le dita che pulsavano a più non posso. "Lo so".

"Immagino non fosse tua intenzione origliare".

Quella puntigliosa constatazione la incitò a continuare: pararsi il culo in un momento simile avrebbe soltanto peggiorato la situazione.

"Avrei tanto voluto farmi i fatti miei".

"Quindi hai sentito tutto".

"Ero lì" masticò Lóreley, affilando i toni. "Ovvio che ho sentito" ribadì. "E mi spiace, ho provato a essere imparziale, ma non ce l'ho fatta: qualunque cosa abbiate fatto ad Edith non m'interessa, ma ci sono dentro, in un modo o nell'altro. E fa male, Werner".

"Quanto sai di lei?"

"Poco e niente".

"E allora perché dovrebbe toccarti?"

"E allora perché annusi il culo a una come Johanna?"

Le chiacchiere di un gruppo di tirocinanti di passaggio riempì quel vuoto di parole che andava disperatamente riempito.

"Io non sto sotto a Johanna, perché dovrei?" commentò Werner subito dopo, stizzito. "Ma che ti salta in mente?"

"Me lo chiedi pure? State ricattando una persona!"

"Io non sto ricattando nessuno!" sbottò lui, tornando in piedi. "Nessuno. Okay? È una storia lunga".

"Werner..."

"Ti ho detto che è una storia lunga. Basta così".

Lóreley si morse la lingua pur di non contestare, anche se la pressante urgenza di fargli fare un testa-muro la stuzzicò a tal punto da annullare lo stordimento dato dagli antidolorifici.

"Sì, certo. A dare gli ordini siamo tutti bravi" sibilò infine tra sé e sé, raggiungendo il banco delle accettazioni a passo spedito.

Recuperato il certificato di rilascio, Lór si ficcò nell'auto a testa bassa, in attesa. Di cosa? Nemmeno lei lo sapeva con certezza. Come Gíta, Werner stava adottando la stessa tattica di evasione: c'era troppo da sapere e nulla da dire.

Tutti tacevano. Tutti compievano un passo più lungo della gamba e poi tornavano sulla difensiva, al sicuro nel loro fantastico castello fatto di sputi e apparenze. Come gli stronzi, perché gli stronzi tornano indietro, sui propri passi. E i colpevoli.

Tutti, alla Fær Øer, erano colpevoli. Perché?

Di questo, a Lóreley Dubois, non sarebbe dovuto importare un cazzo, appurato.


✖ Nel prossimo capitolo, "Allargare i centrini con gli indici":

"Nulla era cambiato e Lóreley ne fu grata. I ninnoli spolverati a dovere, le fotografie incorniciate che celavano ogni centimetro di carta da parati, i tappetti srotolati sul parquet scricchiolante e le montagne di riviste di bricolage ammassate in salotto. L'odore di buono, di vissuto e di carta straccia, il profumo che aveva accompagnato le miti estati di Reykjavík e la sua spensieratezza. Le calamite sul frigo, la lavagnetta scarabocchiata, i centrini immacolati sul tavolo da pranzo... Danielle l'aveva sgridata tante di quelle volte quando lei, che ferma non ci stava manco sotto tortura, si divertiva ad allargare con gli indici. E poi, manco a dirlo, erano dolori."

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