16. La prova dell'uovo

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19 ottobre 2011


Un sole inconsueto, a tratti tiepido, le batteva insistentemente sulla faccia. Un bagliore più caldo degli altri la incoraggiò a riaprire gli occhi, le palpebre che pesavano da morire quando provò a sollevarle: nuovo giorno, solito risveglio di merda.

Prima di alzarsi per ricominciare a vivere da normodotata, Lór consumò il suo solito rito di contemplazione del muro, con la bocca semiaperta e i muscoli indolenziti da una leggera febbre. Dopodiché inghiottì una pasticca a secco e con disgusto notò quanto gonfie fossero le dita della mano infortunata: sembravano dei salsicciotti ricoperti di salsa barbecue.

Si vestì mogia e ringraziò la sua cattiva abitudine di non slacciare mai le scarpe da ginnastica. Raggiunse il distributore al pian terreno, trafugò un pacchetto di patatine a testa bassa e con la stessa fiacchezza di un'entità incorporea si rintanò nuovamente in camera, circondata dai suoi demoni giornalieri – gli appunti d'incisione e i libri sull'occulto da restituire prima di essere multata.

La cartina del campus ancora penzolava di lato, lasciando in bella vista il grottesco découpage di post-it sull'intonaco. Uno giallo, il secondo, si era staccato rimanendo impicciato nel groviglio di fili e prese dietro la scrivania. Seppur a fatica Lóreley riuscì a recuperarlo e lo tastò con le dita unte e salate di Cipster.

Respirò forte.

Per quanto atipico fosse il contesto in cui era finita, Bergljót le aveva promesso una soluzione e Lór, francamente parlando, ci aveva creduto, ci stava sperando con tutto il cuore. C'avrebbe pensato lei ad aiutarla a snodare l'ammasso di problemi che si trascinava dietro, sì, e tutto sarebbe andato per il meglio. Tutto era schifosamente sotto controllo... in apparenza.

Senza volerlo era capitata in un preambolo ricco di colpi di scena e stranezze, risucchiata dal lato oscuro di una Reykjavík che metteva i brividi addosso: stando alle parole di Ber, Johanna l'aveva maledetta non una ma ben due volte.

Cavolo, due. Il perché? Perché Johanna era la Prima. La Prima, stando al sintetico resoconto millenario di Bergljót, pareva farsi rodere il culo per tutto, per capriccio e in qualunque momento.

Ma cosa diavolo stava a significare il concetto maledire una persona? Ballare attorno a un fuoco acceso mentre si invocavano spiriti non propriamente benigni, oppure forare una bambolina di pezza e cantilenare sottovoce dei malocchi? Tutto poteva essere, in quanto l'esistenza della Cerchia le era stata spoilerata dalla stessa ragazza che aveva cercato di manipolarla affinché potesse dirle la verità. La cattiveria di Johanna, per giunta, aveva già avuto modo di assaggiarla in passato, nonostante fosse stata allo scuro dell'attiva partecipazione della suddetta all'interno di quello scempio. Per due volte l'aveva perciò maledetta, appellandosi a chissà quale rigurgito cosmico e diabolico; per altre due ancora si era beata del suo status quo di temuta e rispettata nel tentativo di intimidirla alla vecchia maniera, senza mezzi termini.

I conti tornavano, la voglia di vederci chiaro un po' meno. Lór cominciò a peccare di sicurezza e il leggero tremore che le lambì la mano in cui stringeva il rettangolo di carta fu il primo segno di cedimento emotivo: comunque sarebbe andata a finire, paura ne aveva in ogni caso.

Per sua fortuna le fatture non l'avevano manco lontanamente sfiorata, ma la costante sfiducia la portò a credere il contrario. E se invece fosse stata proprio Johanna a causarle in modo indiretto il taglio sulla mano? Scosse la testa una, due, tre volte per scrollarsi quel pensiero idiota dal cervello. Con molta probabilità lo sgarro sul palmo se l'era procurato per disattenzione, mica per altro. Mica per ringraziare Werner, un altro criminale latente invischiato in sette dimenticate persino da Dio... ammesso e non concesso che ce ne fosse stato uno per loro.

Lóreley sbatté le palpebre un paio di volte per cancellare le bollicine colorate che le riempivano il campo visivo. Il giallo accecante sprigionato dalla carta e la striscia di colla secca sui polpastrelli, oltretutto, la stavano innervosendo. Allora sigillò il pugno, accartocciando e stritolando il contenuto scritto a penna, nella vana speranza di sentirsi meglio. Di sentirsi decentemente. Non più sola, non più spaventata, non più parte di qualcosa, non più arrabbiata. In fin dei conti voleva solo capirci qualcosa, era la sua natura a richiederlo.

Quindi cestinò il post-it "predizione" e prima di avviare lo streaming di The Walking Dead ebbe l'accortezza di comprare un altro pacco di patatine. Alla paprika, stavolta, giusto per placare quell'insaziabile fame data dal pre-mestruo.

S'accasciò sulla sedia alle sue spalle, come un mollusco senza guscio, e pigiò play. Lo sguardo lucido di febbre, tra uno stacco di sequenza e l'altro, continuò a caderle sul muro di fronte.

D'un tratto si ritrovò a piangere. Non per la scena strappalacrime del finale di stagione e nemmeno per la botta ormonale che le aveva marchiato il mento con un brufolo grande quanto il suo indice.

Dopo anni e sinceramente, pianse per il semplice gusto di farlo.

C'erano soltanto due cose in quella vita che riuscivano a mandarla fuori di testa: gli espedienti evasivi, o più comunemente chiamate bugie dette a fin di bene, e le sorprese inaspettate. Per sua sfortuna Bergljót era la regina indiscussa delle stronzate megagalattiche e le sorprese le riuscivano piuttosto male. Ma aveva anche dei difetti, del tipo che russava come un autotreno da sbronza e fumava dovunque, anche nei bagni comuni.

"Dove stiamo andando?"

Ber decelerò nei pressi di un incrocio, sbuffando dalle narici. Un'altra domanda di troppo e l'avrebbe fiondata fuori dall'auto in corsa.

"Te l'ho già detto".

"Allora ti espongo il mio quesito in modo diverso: perché stiamo andando a casa di Gíta?"

"Appena saremo lì ti spiegherò tutto, d'accordo?"

Indispettita, Lór si appigliò al maniglione sopra la testa pur di non mandarla a quel paese. Era notte, faceva un freddo cane e per di più aveva pure ricominciato a piovere. Il bel tempo di quella mattina sembrava già un lontano ricordo e si era pentita di non aver bivaccato sul prato del campus con un buon libro sotto mano... ma anche no. Spararsi dodici episodi di The Walking Dead, ingurgitare quattro pacchi di patatine, una coca cola e un plumcake nel giro di un pomeriggio le aveva ricordato quanto fosse bello marcire in solitudine. O almeno cosa si provasse vivere come una ventenne qualunque.

"Non vedo Gíta da quel giorno in spiaggia, è normale che io voglia sapere del perché" ragionò Lór, stizzita, per poi continuare in un borbottio: "Alle undici di sera, di martedì, tu mi stia trascinando a casa sua contro la mia volontà".

"Appunto per questo dovresti essere felice di vederla. Anche se dubito che la cosa possa essere... ricambiata, passami il termine".

Lóreley si voltò a fissarla. L'intermittenza gialla prodotta dai lampioni che scorrevano ai lati della 4x4 le accentuò i solchi sulla fronte.

"Perché non dovrebbe?"

"Shht, biondina, siamo quasi arrivate. Hai paura dei cani grandi?"

Lóreley roteò gli occhi. "No".

"Ne ha sei in giro per casa, preparati in ogni caso".

Lóreley incassò il capo nelle spalle, avvolte dal parka nero che ancora puzzava di mare, e per abbondanti cinque minuti non si azzardò a spiccicare parola. Estorcere informazioni di vitale importanza non era il suo forte e Bergljót aveva talento, tra i tanti altri in suo possesso, a zittirla.

Superarono l'area industriale e la residenziale, imboccando una via senza uscita e parallela alla Baia. Nella folta e opprimente desolazione serale, ecco far capolino sulla destra il loro punto d'arrivo: una casa non proprio modesta, tipica della periferia di Reykjavík. Tre piani, di un bianco panna annacquato e circondata da un grazioso giardino recintato. Sul pianerottolo ravvivato da catene a led, delle bouganville s'intrecciavano folte e rigogliose, nonostante il clima islandese fosse più propenso a distruggerle, certe piante.

Bergljót parcheggiò dietro una jeep, la jeep, e l'attimo dopo già camminava in compagnia dell'imbucata per eccellenza. Scampanellò un paio di volte, trasalendo per l'abbaiare improvviso oltre la soglia.

Ber indietreggiò con una falcata sola, allontanandosi quel tanto da sentirsi al sicuro. "Beh, ti ho chiesto se hai paura dei cani grandi" disse, imbarazzata. "Perché... ecco, io li odio".

Lór scosse la testa, senza speranza. "Sei un'idiota".

"Penso sempre al bene del prossimo".

Un cigolio e il portone con la larga vetrata a scacchi verdi e rossi si aprì.

"Lóreley?"

"Björn?" esclamò lei. "Che cavolo hai fatto ai capelli?"

Lui balzò, spaventato, intanto che il peggior incubo di Bergljót gli si palesava in mezzo alle gambe: il grande, minaccioso e tenero muso di un Golden Retriver. Inutile dire che era già tornata –scappata a gambe levate– sul vialetto.

Björn si stropicciò i capelli corti, mentre cercava di scollarsi di dosso l'enorme palla di pelo che fremeva per rotolarsi in giardino. "Queste sono le punizioni corporali di mia mad- Gíta, lo vuoi chiudere sì o no?"

"Sì, chiudilo che è meglio!" fece eco Bergljót. "Insieme agli altri lupi che ti girano per casa!"

"Che ci fai tu qui?"

"E se ti dicessi che non ne ho la più pallida idea?" Lóreley scrollò le spalle, ridendo nervosamente. "A quanto pare sono sempre l'ultima a sapere le cose".

Björn cercò con gli occhi Bergljót. Lei in tutta risposta sollevò le braccia al cielo in segno di resa e mimò un poi ti spiego.

Stanco di aspettare una manna dal cielo –e dell'ondeggiare del testone di Kim tra le cosce– Björn si apprestò a rinchiudere la bestia desiderosa di coccole nello stanzino.

Una volta dentro, Lóreley capì che il reverendo Bersi e consorte dovevano nutrire un amore spassionato per il golf, le auto sportive con gazzette annesse, i cani, il giardinaggio e lo stile chabby-chic in tutte le sue forme. Due persone veramente a modo e all'apparenza squisite, se non fosse stato per il fatto che facevano anch'essi parte di una setta di occultisti deliranti.

Altra nota peculiare di Bersi e Barbára era il mostrare, o meglio, lo sfoggiare le proprie figlie come fossero gioielli.

Una ripetitività ossessiva che dava il voltastomaco – e i brividi. Ogni centimetro di muro era interamente occupato da foto di Edith e Gíta, sempre sorridenti e infiocchettate a dovere. La cornice più grande l'aveva però ammirata in salotto, posizionata sull'imponente camino incastonato nel muro: una gigantografia color seppia che li ritraeva tutti e quattro insieme, le sorelle in primo piano. Gíta sorrideva in modo curioso, birichino quasi, e sulle gambe incrociate reggeva un libro di fiabe; Edith invece le stava sdraiata accanto, col viso tondo incastrato tra le nocche. Alle spalle delle due, ecco i genitori più fieri del mondo.

Lei era bella, bella come il sole. Gli occhi sottili da cerbiatta, la pelle liscia e una cascata di capelli scuri, accuratamente tirati oltre le spalle e impreziositi da un fermaglio a forma di piuma di pavone. Era slanciata e incantevole, come incantevole era il sorriso timido che le arricciava le labbra. Suo marito, invece, l'opposto: bassino e rotondo, la pelle lentigginosa e una calvizia precoce che non gli aveva lasciato scampo. Pel di carota, probabilmente, come Edith in particolare, anche se i tratti somatici di entrambe erano frutto di un mesh-up ben riuscito di Bersi e Barbára.

I cani ancora si sgolavano in cucina quando Gíta corse al piano di sotto con un secchio sotto braccio. Era un bagno di sudore e il pallore della sua faccia non lasciava presagire niente di buono.

Una domanda, come da rito d'inizio serata.

"Perché c'è lei?"

"Perché lo chiedete tutti con la stessa faccia scocciata?"

Gíta gettò la bacinella ai suoi piedi e una porzione di melma gelatinosa contenuta al suo interno macchiò il tappeto. "Ber?" ringhiò a denti stretti, ignorando bellamente la terza ospite.

"Se mi lasci spiegare..."

"Ma si può sapere che hai in testa? La segatura? I cazzo di criceti? La merda?" sbottò d'un tratto Gíta. "Ti avevo chiesto la partecipazione di tu-sai-chi, mica..."

Björn sventolò una mano per zittirla. "Hai sentito quel che ha detto? Falla parlare, almeno!"

"Cazzo, allora, spiega, sbrigati, avanti".

"Grazie, gentilissima" Ber si sfilò il chiodo, lanciandolo sul divano. "Quella lì è la prova dell'uovo?"

"Delle sei uova. Ho seguito alla lettera le tue indicazioni ma non è cambiato nulla".

Silenzio. Tutti puntarono gli occhi sulla poltiglia purulenta, mentre l'olezzo di decomposizione si disperdeva nell'aria assieme alle probabili speculazioni a riguardo. Björn fu il primo a cedere al conato di vomito e, indietreggiando, si coprì metà viso con la felpa blu.

"Okay" mormorò poi Bergljót, leggermente spiazzata. "Okay. Portami da lei e decidiamo sul da farsi".

"Prima dimmi..."

"Gíta" la richiamò Ber, seria. "Non c'è tempo".

Gíta si morsicò il labbro inferiore e il sussulto che le attraversò il corpo trovò pace in un sospiro: era disperata, glielo si leggeva in faccia.

I quattro si accodarono nella salita delle scale buie, la piccola padrona di casa come capofila, e giunsero davanti alla camera di Edith dopo un breve tour del primo piano. Una luce obliqua, tagliata di netto dalla porta semiaperta, si srotolava sul parquet scuro del corridoio, illuminandone una porzione.

Bergljót fu la prima ad entrare, Lór si affiancò a Björn e Gíta rimase sull'uscio, straziata nel profondo da un lamento debole e roco.

Edith vegetava a terra, stesa su un tappeto di lenzuola, raggomitolata su se stessa a mo' di riccio. Nuda, dalla testa ai piedi. La pelle resa lucida dal sudore rendeva il suo incarnato pari a quello di un morto. Mugolava e sopprimeva il pianto tra i capelli rossi, ridotti a una matassa di nodi. I muscoli in tensione le guizzavano sotto pelle a intervalli irregolari, come se ci fosse qualcosa di vivo e pulsante a strisciarle nella carne.

Sulla schiena striata di graffi c'era una macchia, più simile a un livido violaceo che ad altro. Lóreley poté contare cinque dita.

Edith, sentendosi osservata, sollevò il collo e sbarrò gli occhi lucidi. Aveva le labbra spellate e sanguinanti.

"Ti prego, Ber" gracchiò, e un enorme singhiozzo le spezzò il respiro e le parole. "Ti prego... mi sento morire... aiutami".

Gíta si sfilò qualcosa dalla tasca dei jeans.

"Tieni. Prima ha vomitato questo".

Bergljót non rispose. Afferrò l'oggetto e l'osservò con maniacale attenzione: quello che adesso faceva rimbalzare da una mano all'altra aveva una forma curiosa, rettangolare e smussata. Che fosse di Edith, o meglio parte di lei, era scontato... in fin dei conti lo aveva sputato lei quel molare


✖ Nel prossimo capitolo, "Le condizioni di Rót":

"Volle riaprire gli occhi e la mostruosa fitta che le pressò le tempie la incitò a farlo. Non si era mai domandata come potesse essere l'inferno per un peccatore e il paradiso per un martire. In quel limbo, però, gli unici colori ammessi e concessi poteva contarli sulla punta delle dita: grigio, bianco, nero. Dovunque posasse lo sguardo, amici compresi, ciò che la circondava era un'oscenità incolore, fatta eccezione per il filo rosso.
Una fanghiglia molle le circondava le caviglie e la nebbia, tanto densa da poterla afferrare, li confinava nel loro stesso escamotage di protezione: che fossero in trappola o meno, sarebbe stato il Litlaus stesso a deciderlo."

Capitolo un po' lungo, un po' strano e ancora troppo vago, lo so. Ma già nel prossimo avremo una visione più chiara di quel che sta succedendo ad Edith e dell'utilità di Lóreley in questo macello u.u quindi stay tuned e non perdetevi il diciassettesimo *risata malvagia*, "Le condizioni di Rót"! Fatemi sapere cosa ne pensate, meh!


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