17. Le condizioni di Rót

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Una goccia di sudore corse giù per la guancia arrossata, indugiando qualche attimo sulla curva del mento. Gíta se l'asciugò col dorso della mano e parlò sicura, nonostante il tremore delle gambe la stesse tradendo in pieno. "È da contatto, te l'ho detto, e pure incubata, forse. Io non me ne intendo granché, ma ho comunque fatto qualche ricerca a riguardo" speculò. "È una pratica inusuale e pericolosa, anche per il responsabile. E l'artefice, manco a farlo apposta, deve essere una a caso che nel tempo libero si diletta a rovinare la vita degli altri".

"Perché credi che sia stata lei?" Bergljót continuò a fissare l'ematoma senza battere ciglio. Dal centro della diavoleria s'ingrossavano, palpitanti, manciate di capillari neri, tanto fitti da emulare una necrosi. "Non è la mano di una donna. Non è la mano di Johanna".

Edith sollevò di poco il capo, annaspando come un pesce fuor d'acqua, mentre sul viso bianco prendeva forma una nuova consapevolezza. La maledizione impressa a mo' di tatuaggio sembrava avere vita propria, oltre che a consumare di secondo in secondo quella della sua vittima. Dal loro ingresso in camera, difatti, il parassita ignoto aveva continuato ad espandersi come una malattia: se cinque minuti prima aveva a malapena potuto sfiorarle la noce del collo con le presunte dita, ora le occupava per intero la spalla e minacciava di raggiungere la spina dorsale. Solo Dio avrebbe potuto sapere cosa le sarebbe capitato se non avessero agito al più presto.

Ci volle qualche secondo prima che Gíta potesse carburare l'informazione, prenderne atto e arrabbiarsi quel tanto da ricominciare a sbraitare. "Che cosa vorresti insinuare, che non è farina del suo sacco? Guardala, cazzo! Edith sta sputando addirittura i denti! Johanna ha tutte le carte in regola per fare questa merda, non puoi negarlo!"

"E io ti ripeto che non è la mano di Johanna, potrebbe essere di chiunque. Come faccio a risanarla se non sono sicura di quel che dico e faccio? Sarebbe peggio, credimi. Potrebbe finire male, più male di così" Ber inspirò forte. "E io non voglio altre responsabilità addosso... sto già pagando per le stronzate di Fanndís".

I tre tacquero, Edith pure. Adesso cercava di controllare l'affanno e il dolore, digrignando i denti per non darla vinta ai singhiozzi, e con un gesto avventato si tirò su a sedere, senza coprirsi. Guardò Gíta, poi Björn, gli occhi s'incastrarono in quelli di Ber e conclusero il loro stanco investigare su Lóreley.

Lei abbassò subito i suoi. Fu un riflesso veloce, incondizionato e non voluto, lo stesso che ti obbliga a correre ai ripari quando sai di non avere altra scelta, quando hai paura, quando senti il terrore strisciarti dentro e non puoi nullificarlo. Preferì non ricambiare, non guardarla per codardia. Quanto poteva farsi schifo?

"E quindi? Come la risolviamo?"

"Chiediamo aiuto a un Auditore".

Stavolta fu Björn a contestare, paonazzo dalla testa ai piedi. "Cosa? Ma sei scema?"

"Un Auditore? Ma scherzi?" fece eco Gíta, portandosi le mani alla testa. "Adesso stai davvero dando i numeri!"

"Hai un'alternativa migliore?" Bergljót li guardò di sbieco. "Tanto sarò io a parlarci, eh".

"Quelli chiedono sempre qualcosa in cambio, che sia uno spazzolino da denti o la carcassa del tuo primogenito".

"Guarda un po', che coincidenza: non avrò mai figli, Björn. Si faranno bastare qualcos'altro, che so... un rotolo di carta igienica o un manciata di anni da parte mia".

"Ber" Gíta, in un ultimo e disperato mugolio, la scosse per le spalle. "Non puoi giocare con gli Auditori".

"Non voglio giocarci".

"Ah, no?"

"No. Sarà uno scambio equo... provarci non costa nulla, in fin dei conti. Non c'è alcun vincolo tra me l'Auditore se rifiuto l'offerta prima di suggellare il patto".

"Ed è per questo che hai portato lei?"

"Può darsi".

Lóreley ancora si fissava la medicazione quando capì di doversi rendere partecipe –e complice– di una follia di gruppo. Allora si passò la lingua sui denti, totalmente allo scuro del ruolo che avrebbe dovuto recitare quella notte, e tutte le sue perplessità trovarono sfogo in una domanda soltanto: "Rischio di morire?"

Ber aprì la bocca. La chiuse. La riaprì. "Ah... no".

Probabilmente fu la febbre a parlare al suo posto. "Okay".

"Okay?"

"Ahm... sì. Qualunque cosa sia... va bene. Non so esattamente cosa debba fare, ma... ci provo" la bionda scrollò le spalle. "Insomma, lo faccio".

Se avesse realmente potuto farlo, Lóreley si sarebbe tirata indietro e tanti bei saluti. Ma, come aveva ribadito al suo subconscio fino ad avere la nausea, doveva spingersi più in là e affidarsi.

Se c'era qualcuno dietro di lei, con lei o dentro di lei, quella sarebbe stata l'occasione giusta per capirsi e, per quanto umanamente sbagliato fosse, accettarsi senza fare storie. Non che sapesse cosa fosse un Auditore, o del grado di pericolosità di una maledizione da contatto: sapeva di aver visto Gíta nel momento del pianto e di averla rassicurata dicendole che, sì, se mai fosse capitata l'occasione avrebbe soccorso ciò che di più caro aveva.

Edith non era niente di concreto nel suo quotidiano, eppure per Gíta era il mondo. Il suo mondo, sua sorella. Come lei che avrebbe messo a soqquadro pure l'aldilà per Marcel e sua madre, Gíta stava scendendo a dei compromessi tutt'altro che sani in nome di un amore che non aveva confini. E lo rispettava, lo avrebbe rispettato in nome della sua umanità, i suoi secondi fini avrebbe potuto aspettare.

Seppur fosse tutto dannatamente marcio e oscuro, Lór ci aveva visto del bene in quel mare di merda. Un fuocherello caldo e sfrigolante di buoni propositi. Perché Edith, qualunque cosa avesse fatto per meritarselo, non lo meritava e basta.

I preparativi per la macabra contrattazione furono lenti e complicati. Bergljót bocciò subito l'idea di celebrare il Decanto in giardino, complici i due gradi stagionali e la febbre di Lóreley. Optarono quindi per la mansarda in disuso, allestendoci dentro quel che agli occhi di un comune mortale sarebbe potuto sembrare un ammasso di terra fertilizzata e cerini, mica un cerchio rituale.

Pulire quello schifo fu l'unico chiodo fisso di tutti, anche di Edith, che aveva più l'aspetto di un cadavere che altro. Il countdown, oltretutto, cominciò a pressarli: avevano dodici ore a disposizione prima di incappare in un incidente diplomatico di proporzioni cosmiche – Bersi e Barbára sarebbero rincasati alle undici in punto, di ritorno da una convention ad Austurland.

Gíta coprì ogni superficie riflettente presente in casa, senza dare alcun tipo di spiegazione a riguardo. Quando ebbe finito, si sfilò le ciabatte e sotterrò i piedi nella terra fredda, posizionandosi dove le era stato indicato – una mezzaluna di terriccio la separava da Björn e Lóreley.

L'imbucata non fiatò durante la preparazione, impegnata a sfregiarsi l'interno guancia coi canini. Ad opera ultimata c'era soltanto il silenzio a suggerirle di star facendo una stronzata.

Nemmeno i cani si udivano più. Sbuffi di polvere appesantivano l'aria e quattro ceri bianchi erano stati accesi in rappresentanza dei partecipanti.

Bergljót attraversò l'anello di terra e si fermò nel suo centro, lì dove sfrigolava l'ultima fiamma, la più grande. Tra fianco e braccio teneva un fagotto di tessuto e un gomitolo di lana.

"Sarò breve, Lóreley" cominciò, scoprendo l'oggetto avvolto nel cotone: si trattava di un bastone inciso. "Entreremo tutti nel Litlaus, più siamo e meglio è. Tu sarai la mia ancora, Gíta il tuo appiglio e Björn quello di Gíta. Secondo punto: non guardare nessuno e non toccare nulla, a meno che tu non voglia portarti a casa uno spirito ed esserne tormentata – e io non so esorcizzarli, sappilo. Terzo punto, stavolta rivolto a tutti: non rompete il cerchio per nessun motivo. Se cominciate ad accusare la stanchezza, dite a voce alta sono di ritorno, al resto penserò io. Anche se sarebbe più opportuno rimanere" aggiunse velocemente, mentre infiocchettava la parte superiore del manufatto. "Quarto e ultimo punto: se dovessi allontanarmi, tenete d'occhio il filo rosso, questo qui. Se non dovessi fare ritorno per un certo tempo, la mia ancora è obbligata a lasciare il cerchio, e così a ripetersi con i rimanenti. Speriamo non sia necessario. Domande?"

Tutti scossero la testa all'unisono, tranne Lóreley: aveva la mano alzata.

"... Lór?"

"Spiegazione esaustiva, non c'è che dire, ma vorrei vederci meglio".

"Eh".

"Cos'è un Auditore?"

"Gli Auditori sono spettri che, per i motivi più disparati, rimangono legati al Litlaus e ne diventano parte" intervenne Gíta. "Mi spiego: il Litlaus è un limbo di passaggio. Quando un morto lo raggiunge, egli è destinato a rimanerci fino a quando il corpo non si decompone del tutto. Sparita la carne di qua, lo spettro è libero di andare via, in quanto il peso della materialità non c'è più. Questo processo temporaneo ci concede il lusso di appellarci a un defunto. Una bella fortuna, vero? Tuttavia c'è un'eccezione che riguarda gli Auditori: può capitare che non ci sia un trapasso definitivo per qualcuno di loro, quindi si adattano alla circostanze".

"Sono... furbi" Lóreley aggrottò la fronte. "Ad adattarsi, dico".

"No, sono degli approfittatori e pure stupidi. Sanno che in questa parte di mondo ci sono degli sprovveduti come noi... e c'è poco da fare, esistono e basta, è l'ecosistema del Litlaus a richiederne la presenza".

"E noi ci caschiamo ogni volta" soffiò Björn, le labbra tese.

"Già".

Bergljót agitò le braccia per richiamare l'attenzione dei tre. "Bene, avete finito di perdere tempo? Adesso vi legherò questo ai polsi. Nel frattempo presentatevi: quella a cui stiamo per far visita non è casa nostra. Saremo degli ospiti momentanei ed è giusto far sapere che ci siamo e chi siamo. Quindi dite il vostro nome e terminate con che il Litlaus mi accolga".

Detto questo, Bergljót srotolò il primo metro di cordicella e si avvicinò a Lóreley con passo deciso. Lei allungò subito i polsi verso l'amica, che glieli indicò col bastone, e con un sospiro di troppo recitò: "Mi chiamo Lóreley... Dubois e che il Litlaus mi accolga".

Intrecciati i primi nodi, Bergljót passò oltre.

"Sono Gíta Bersisdóttir e che il Litlaus mi accolga".

Björn deglutì intanto che toccava a lui immischiarsi in quella catastrofe preannunciata. "Il mio nome è Björn Þorvarsson e... che il Litlaus mi accolga".

Ber tornò al suo posto, i piedi scalzi e il bastone cerimoniale sollevato a mezz'aria. Una spirale di simboli indecifrabili –o rune, le poche fonti di luce rendevano impossibile una lettura più accurata– correva per tutta la sua lunghezza, interrompendosi in prossimità della punta bitorzoluta. Ed è qui che Lór raggelò: da qualsiasi prospettiva lo si guardava, il legno deforme sembrava ritrarre dei visi umani.

Bergljót agitò il manufatto, circoscrivendosi sulla testa una corona fatta di vuoto. "Io, Bergljót Johannsdóttir, che delle Tre sono la Seconda, la Tessitrice, la Prudenza, che di Ástrós la Sagace posseggo la dote e non il sangue; che di Dórótea nata dall'Acqua amo il mito e non il destino; che di Fía delle Stelle ammiro le gesta e non gli errori, chiedo che il Litlaus mi accolga".

Lóreley sigillò gli occhi nel momento esatto in cui Bergljót calò il bastone a terra. Susseguì un altro schianto, identico al primo; il parquet che scricchiolava, quasi fosse sul punto di fracassarsi. Poi un terzo colpo decisamente più ovattato, un quarto e un quinto lontani come echi. Arrivò così il sesto, simile allo zampillo di una pietra lanciata in acqua. O meglio... in un pantano.

Lóreley non si interrogò sul mancato bisogno di respirare, in quanto bisogno più non era. Non c'era la pesantezza della carne, la sua carne, non c'erano le ossa e le vampate di calore alla mano, quella medicata. Non c'erano odori e rumori, non c'era vita.

Volle riaprire gli occhi e la mostruosa fitta che le pressò le tempie la incitò a farlo. Non si era mai chiesta come potesse essere l'inferno per un peccatore e il paradiso per un martire. In quel limbo, però, gli unici colori ammessi e concessi poteva contarli sulle dita di una mano: grigio, bianco, nero. Dovunque posasse lo sguardo, amici compresi, ciò che la circondava era un'oscenità incolore, fatta eccezione per il filo rosso.

Una fanghiglia molle le circondava le caviglie e la nebbia, tanto densa da poterla afferrare, li confinava nel loro stesso escamotage di protezione: che fossero in trappola o meno, sarebbe stato il Litlaus stesso a deciderlo.

"Cavolo, fa sempre più schifo qua dentro" mormorò Gíta fra sé e sé, tastandosi braccia e gambe.

Bergljót strattonò il bastone, richiamando l'attenzione dei presenti  – e per zittirla. "Ultimo avvertimento: non dubitate. Se qualcuno di voi si tira indietro, sappia per certo che mette nella merda i rimanenti". Più che avvertimento, Bergljót lo aveva rimarcato a tal punto da tramutarlo in minaccia. A giudicare dalla sua tenacia, poi... quante volte c'era già stata nel Litlaus?

La videro muovere qualche passo incerto, quasi volesse tastare il terreno non-terreno sotto i piedi, e di nuovo si armò del manufatto rituale, agitandolo prima a destra, poi a sinistra. La gestualità somigliava a un battito d'ali.

"Rendo grazie per averci accolti. Sono qui, o Spiriti, per invocare il vostro aiuto. Mi appello a un Auditore, implorando una consulenza diretta, affinché un patto venga consumato da me medesima".

Le parole di Ber vagarono sole, divenendo parte del grigio Litlaus, eppure perseverò fino alla fine, concludendo la stramba danza solo quando la poltiglia prese a ondeggiare in modo lento e concentrico.

La melma si gonfiò in una bolla nera che scoppiò subito dopo, arrestandone bruscamente i movimenti sulla superficie. Una seconda increspatura, stavolta più vicina a Bergljót, molleggiò da sotto a sopra a una velocità sorprendente, esplodendo infine verso l'alto, come il getto di un vulcano rimasto dormiente troppo a lungo.

L'ammasso molliccio che ne venne fuori aveva poco di umano e, a giudicare dai tempi di risposta al quanto ridotti, doveva anche peccare d'impazienza: in men che non si dica presero forma un paio di braccia scheletriche, dotate di artigli color pece, e delle ramificazioni gli sbocciarono sulla testa, incasinate come le corna di un cervo.

Non aveva un volto. Dopotutto, a cosa gli sarebbe potuto servire nel Litlaus?

Bergljót si allontanò mentre l'Auditore, ancora gocciolante, le sfiorava una guancia. Lóreley credette di morire quando udì uno schiamazzo, roco e distorto: una bocca ce l'aveva, eccome se ce l'aveva.

La Seconda, o meglio, quel che ne rimane – sputò il mostro, dondolandosi sul tronco ben saldo a terra. Era un albero, un albero putrido e malato. – Se ci fosse un modo per quantificare il mio tempo, bambina, ti direi che sono trascorsi tanti anni dall'ultima volta che una Seconda, o meglio, quel che ne rimane, mi ha invocato.

La bestia infernale si sporse un poco.

Un uomo – osservò, sibilante.  – Un'errante e... una non-battezzata. Siamo ai ferri corti, a quanto vedo. La Cerchia non ha più carne da offrirmi? Carne buona... intendo.

Bergljót si umettò le labbra. Della gelatina nera ancora le imbrattava la faccia. "Non sono qui per parlare della Cerchia, Auditore".

Rót, mia cara, il mio nome è Rót come Radice. Radice sta per albero e albero sta per Rót, che vuol dire Radice. Tutto torna, come tutto torna a Rót. Una nomina inusuale per un Auditore che ascolta e suggella, perché non sempre i patti tornano indietro. O vanno avanti. Avanti e indietro... poco importa. Io, Radice, sono sempre qui. Assieme ai morti.

"D'accordo... Rót".

Che sta per Radice.

Bergljót si voltò verso i tre, sbigottiti quanto lei.

Gli artigli di Rót, quattro per mano, continuarono a fendere l'aria. – Cosa cerca la Seconda, o meglio, quel che ne rimane?

"Cerco un patto, Rót...." Ber titubò un momento. "... Come Radice".

No, bambina, no. Rót come Radice e Radice sta per albero e albero sta per Rót, che vuol dire Radice – la rimproverò, tracciandole un secondo sgarro, stavolta sulle labbra.

Bergljót sputacchiò la sostanza appiccicosa, disgustata, intanto che Gíta strattonava il filo rosso legato al polso di Lór.

"Sono stupidi a modo loro, te l'ho detto: ti sfiniscono a tal punto da costringerti a stipulare i patti. Ed è per questo che li odio".

✖ Nel prossimo capitolo, "L'indovinello":

"La Seconda, o meglio, quel che ne rimane, odia aspettare perché il tempo non aspetta nessuno. Consuma, mastica, divora... divora. Presto o tardi di te, Seconda, o meglio, quel che ne rimane, non rimarrà nulla. E io aspetterò il palesarsi di quel dì. Rót, come Radice, aspetterà. Sarai il mio nutrimentoRót si curvò un poco, abbastanza da sovrastarla. Gli arti erano un tripudio di escrescenze e pulsazioni. – E diventerai una splendida Radice, una Radice dell'albero di Rót. I patti sono solo l'inizio, per cui... parla, bambina, e io ascolterò.
"Ho bisogno che tu estingua una maledizione".
Le maledizioni non si estinguono perché sono il male dell'uomo e il male dell'uomo non si estingue mai. Ma Rót può mangiarle."

Scrivere questo capitolo mi ha fomentata tantissimo! C'è un piccolo scorcio del Litlaus e una parte delle creature che lo abitano, Rót in particolare (che sta per Radice...)
Radice è liberamente ispirato a un pg realmente esistente in una campagna di Symbaroum, giocata assieme a DavidePenazzato. Il suo modo di ruolare il negromante in questione mi è piaciuto talmente tanto che ho deciso di dedicargli un pezzo di Litlaus lol grazie per avermi dato la possibilità di trattarlo all'interno del racconto, davvero.
Ordunque, la pubblicazione è stata anticipata nuovamente per motivi di lavoro (e ti pare). Quindi, ciancio alle bande e ditemi cosa ne pensate!
Tanti bacini,
Maria

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