20. Un cielo pieno di stelle

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Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo.

Lór faticava ad addormentarsi, la testa pesante e i punti sutura che prudevano da morire. Si stazionò nella porzione di letto più calda e immerse la faccia nel cuscino, stropicciandocela su per l'ennesima volta. Dalla messa in atto del Decanto una quiete irreale aveva avvolto la villa a mo' di sudario e il silenzio era tanto denso da bucarle i timpani - se avesse dormito in camera con Ber, il suo russare le avrebbe quanto meno potuto tenere compagnia.

Il punto era che Lóreley non aveva la minima intenzione di ascoltare il ronzio dei suoi pensieri. Avvertiva distintamente il battito irregolare del suo cuore e un sibilo insistente le solleticava le orecchie - prodotto dallo scrosciare del sangue a spasso nel corpo, più simile, però, a un sussurro: il sussurro del suo ego, quello che aveva sempre cercato dentro di sé nei momenti di debolezza e che, dal suo ritorno alla realtà terrena, possedeva una petulante voce di uomo. Ironica, tagliente e stanca.

Ora più che mai sentiva di non essere sola e, molto probabilmente, era stato lo stesso Litlaus a risvegliare in lei questa consapevolezza. Con naturale concessione si era affidata a quei suggerimenti interiori senza dubitare della loro veridicità, come una bambina impaurita durante la sua prima recita scolastica. Non si era mica domandata cosa o chi fosse penetrato nel suo cervello senza il suo permesso; no. C'era stata senza fare storie, mettendo avanti alla sua incolumità il desiderio di volersi rendere utile... e, di fatto, manco aveva reagito quando il tipo decapitato le aveva afferrato la mano fasciata con dolcezza, come solo la morte in persona può fare.

"Secondo punto: non guardare nessuno e non toccare nulla, a meno che tu non voglia portarti a casa uno spirito ed esserne tormentata - e io non so esorcizzarli, sappilo".

Lór deglutì, la gola in fiamme e la salivazione alle stelle. Forse fu la suggestione a prendere il sopravvento, in parte provocata dal buio che l'aveva accolta quando si era rintanata sotto il piumone: si sforzò di tenere gli occhi spalancati fino a farli lacrimare, vigili e fissi sull'agglomerato nero ai piedi del letto, frutto di un gioco d'ombre prodotto dai suoi vestiti. Le maniche della felpa, lasciate a ciondolare nel vuoto, le riportarono alla mente gli artigli di Radice.

Ha un mio capello, maledizione. Ma cosa mi è saltato in mente?

Una lacrima le tracciò una linea umida sulla faccia, percorrendole poi il naso e fermandosi sulla sua punta. La scacciò subito via con un gesto meccanico, i muscoli aggranchiti dall'eccesso di adrenalina, e sigillando le palpebre si promise di non riaprirle più fino al mattino successivo. Prima di ricominciare ad avere paura, quindi, si addormentò.

Sull'inizio ci fu solo uno stordimento parziale e l'impressione di star cadendo nel vuoto; poi arrivò, forte come un cazzotto alla tempia, la certezza di star dormendo, sì, ma di essere in parte cosciente di non esserlo del tutto. Allora si ordinò di toccarsi la faccia e così accadde: una volta riaperti gli occhi realizzò di stare in un sogno lucido a regola d'arte.

Lo trovò bizzarro. Anche nel Litlaus la percezione del tatto era alterata dalla mancanza di materialità corporea, con la sostanziale differenza che durante il sonno non c'era un vero e proprio distaccamento dell'anima, come spiegatole da Gíta prima di andare a letto. Sotto molti altri punti di vista, invece, le due cose condividevano tre particolari aspetti: l'assenza di percezione sensoriale era la prima, la volontà di ritorno alla realtà pure, il ricordo del viaggio anche.

Lór mosse un passo, scartando a priori l'idea di darsi un pizzicotto, troppo esausta per tentare di opporsi. Il nero che aveva tutto intorno ovattava qualsiasi rumore e rallentava ogni suo movimento, braccandola in una coltre fumosa che sapeva di ricordi. Le sembrò di galleggiare in un mare nero, di camminare sul fondale di un abisso oscuro, tanto profondo da aver inghiottito pure lo scorrere del tempo.

Mentre il tallone sfiorava il terreno invisibile ad occhio nudo, ecco che una luce arancione frazionava l'oscurità, rivelando una stanza che aveva del famigliare. Un paio di sospiri e i bordi del sogno riacquistarono la giusta nitidezza e la confusione l'abbandonò in maniera definitiva: ora e davanti a lei c'erano dei banchi, diciotto per l'esattezza, disposti in tre file da sei. In tutto poté contare sedici figure, tutte ordinatamente sedute e in attesa. Nonostante non avessero un volto e degli occhi, la stavano fissando, lo percepiva sulla pelle e nell'anima.

Un rantolo alla sua destra la costrinse a voltarsi. Una donna alta sedeva sul bordo della cattedra, l'unica riconoscibile tra quella marmaglia di visi sbiaditi. Alle spalle di entrambe, un cartellone blu copriva per intero la lavagna scarabocchiata durante l'ora di aritmetica.

La bocca della maestra Alanta continuò a spalancarsi e richiudersi, intanto che i mugolii sommessi si tramutavano in parole a lei care.

"Il buio non è mai interamente buio. Sapete perché? Prendete un cielo, ad esempio: è scuro, può far paura, ma se non ci sono nuvole si possono scorgere miriadi di bagliori. Quelle sono le stelle, bambini miei".

Lóreley strinse i pugni e lo scricchiolare della carta la fece trasalire.

"Per molto tempo le stelle hanno guidato gli uomini nei loro viaggi più impetuosi. Ecco: Ían adesso è una stella, una stella in un cielo pieno di altrettante stelle. Sarà sempre lì, pronto a guidarci. Ed è per questo che oggi, tutti voi, avete ritagliato una stella di carta e scritto un messaggio per lui" disse la maestra Alanta, indirizzando poi l'attenzione alla bambina lì accanto.

Entrambe si scambiarono uno sguardo di troppo.

"Lóreley, leggi ad alta voce cosa hai scritto per Ían" la incoraggiò, poggiandole una mano sulla testa.

Lór sfarfallò le ciglia una, due, tre volte, e una patina di lacrime le offuscò pian piano la vista. Si passò la stella gialla da una mano all'altra, la carta umidiccia di sudore e stropicciata per il troppo stringere. Nel centro, tra le righe nette, ecco comparire una dicitura in grassetto, scritta un po' troppo frettolosamente e ancora fresca.

"PREDIZIONE"

Lóreley aggrottò le sopracciglia e ricacciò indietro le lacrime. Le tornò alla mente, veloce come un lampo a ciel sereno, il post-it appiccicato al muro della sua camera, accanto a quelli che raccontavano della seconda previsione riguardante Gaël.

Inspirò ed espirò. È un sogno, è solo un sogno, si disse, mentre il terrore le smuoveva il mal di pancia, tanto reale da scatenarle una manciata di brividi lungo la schiena. Doveva pizzicarsi, doveva svegliarsi. Doveva farlo, e subito anche.

Alanta scosse leggermente la mano tra i capelli dell'alunna, tramutando il gesto in una carezza sentita. "Gira la stella, Lóreley".

La bambina trattenne il respiro e fece quanto le era stato chiesto: sul retro era impresso uno sketch veloce, fatto di grafite nera e coi contorni ricalcati da linee verdi e rosse. Lo aveva disegnato lei in un futuro che nella realtà sarebbe stato il suo attuale presente e del quale, però, ignorava qualsiasi perché. La chiave di tutto stava perciò nel ricordo, un ricordo che aveva annullato.

"Testa di cervo?" domandò Lóreley, confusa.

Alanta sorrise. "Ti ricordi di lui?"

Ti ricordi di me?

Lór guardò davanti a sé e i mormorii in crescendo velarono la voce gutturale della presenza che, immobile, le scavava dentro con le orbite vuote, intagliate nel teschio d'animale. Sapeva di averlo già visto, sapeva di averlo vissuto nel suo quotidiano per tanto tempo e, in cuor suo, sapeva pure di averlo perso a causa di qualcosa. A suggerirglielo fu un tepore lontano, un senso di affezione che le scoppiò nel petto e le infiammò le guance, caldo abbastanza da... forzarla a non rispondere. Lór, in tutta onestà, tacque. Era indecisa, era confusa, era in parte spaventata dall'esistenza di quel legame di cui non riusciva a ricordare l'origine. Se il suo cervello aveva cestinato tutte le memorie riguardanti testa di cervo, assieme a quelle della morte di Ían, un motivo plausibile doveva esserci; anzi, c'era e basta, non era di certo lei a trovarsi nel torto.

Lóreley scosse velocemente la testa per negare. Era la verità, non lo ricordava affatto, non voleva mentirgli, non voleva farlo soffrire. Però...

I chiacchiericci si arrestarono, le carezze della maestra Alanta anche. Testa di cervo inclinò il capo di lato e sfilò la mano tenuta nascosta nel poncho consumato. Tra i polpastrelli del pollice e dell'indice, fatti di carne raggrinzita, reggeva un capello tanto biondo da riflettere la luce del sole.

Riportami a casa, allora. Portami via dal Litlaus e staremo di nuovo assieme.

Lóreley sgranò gli occhi e si tirò su a sedere intanto che l'abbaiare di un cane si riversava in corridoio. Era mattina.

Si massaggiò una guancia e a tentoni raggiunse lo specchio a parete ancora coperto. Tirò via il lenzuolo a quadri, abbandonandolo ai suoi piedi, e avvicinò il volto alla superficie lucida, più di quanto avesse voluto fare: si era pizzicata. Nel sonno. Lo aveva fatto. Non una, non due, non tre volte, bensì quattro. Quattro paia di mezze lune le correvano dallo zigomo destro fino alla curva del mento, per un totale di otto segni.

Il pizzico più vicino all'occhio, presumibilmente l'ultimo della carrellata d'autolesionismo notturno, ancora sanguinava.

Raggelò.

Se Testa di cervo si era sentito in dovere di importunarla anche in sogno, questo voleva dire tante cose. La prima era che conosceva tutto di lei, a tal punto da riuscire a manipolarle i ricordi anche durante il sonno. La seconda, ancor più scontata della precedente, era che un tempo avevano condiviso qualcosa, ma, come accaduto per Ían, lo aveva scordato. La terza ipotesi, infine, parlava chiaro: in un modo o nell'altro, il capello-premio preso da Radice era ora in suo possesso.

Il peso di due anime.

Per trovare una risposta definitiva alla questione, quindi, avrebbe dovuto trovare lui. Solo e soltanto lui...

Lóreley inclinò la testa all'indietro e spalancò la bocca, ormai su tutte le furie.

"E io come cazzo ti trovo nel Litlaus, razza di imbecille?!" strillò tutto d'un fiato, consapevole di esser stata udita dal diretto interessato.


✖ Nel prossimo capitolo, "Questioni di causa-effetto":

"Che Gíta avesse tutte le ragione del mondo per avercela a morte con Werner era un conto, frugare nelle sue memorie per conto di Ber un altro. Ma Werner c'era capitato proprio a fagiolo quella sera al Samkaup, non poteva di certo negarlo, e il suo spirito da crocerossina le aveva comunque permesso di arrivare al pronto soccorso in tempi ridotti. Era stato gentile, eppure navigava in un mare di torti - e merda, a dirla tutta. La gentilezza che le aveva dimostrato era da prendere con le pinze, la mirabolante USB in suo possesso un'aggravante che lo coinvolgeva in una situazione fuori dalla sua portata. Era un caso di assoluta moralità, quello, e Lóreley lo sapeva bene. Se solo lo avesse convinto a fare di testa sua, forse..."

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