24. Occhio (non) vede, cuore non duole

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Lór si voltò a pancia all'aria, non del tutto sveglia, ma neanche lontanamente dormiente. Il suo cellulare vibrava con insistenza da chissà quanto tempo, tant'è che Ber, coricata nel letto affianco, caricò un lancio degno di un giocatore di baseball che andò a segno al primo tentativo.

La bersagliata sollevò la testa e guardò in cagnesco l'arma del misfatto e la sua mandante: il primo inning era appena iniziato. 

Bergljót accese l'abat-jour con una manata. "Vuoi rispondere, sì o no?" sibilò.

Lóreley cercò di focalizzare il display della sveglia elettronica. Un'ameba, a confronto, avrebbe potuto vincere le Olimpiadi.

"Ma sono le cinque..."

"Appunto, diavolo, rispondi! Altrimenti te ne lancio un'altra e stavolta ti prendo il naso. Di proposito".

"Ti prego, no, è già grande di suo" si lamentò Lór e a tentoni recuperò il vecchio Nokia – e un pizzico di dignità da quel poco che le era rimasta. "Pronto?"

"Sarò famosa!"

"Buongiorno anche a te, mamma..."

"Hai sentito quello che ho detto? Sarò famosa, Lór!" esultò Anaïs dall'altro capo del telefono, la voce così acuta da mandarle in pappa il cervello. "Oh, e... stavi dormendo, vero?"

"Mamma, che diavolo, sono le cinque... è normale che io stia dormendo".

"Hai fatto le ore piccole, eh? Dove sei stata?"

"A crogiolarmi nel disagio e nello studio, cosa vuoi che faccia una come me".

"Sei così noiosa". 

"Cosa ti aspettavi? Sesso, droga e rock n'roll, per caso?"

Anaïs sghignazzò. "Dobbiamo riprendere quel discorso, signorina?"

"Sono. Le. Cinque. Del. Mattino. Maledetto. Il. Cielo".

"Sicura?"

Lóreley guardò Bergljót. Uccidimi, la supplicò col labiale.

Ber parlò in uno sbadiglio. "Puoi dirle di Werner".

"Ma non ci ho fatto niente!" obiettò l'altra, premendosi il cellulare al petto per occultare qualsiasi stralcio di conversazione. "Ci manca solo questo!"

"Secondo me ci sa fare".

Lóreley rispedì l'orribile ciabatta a pois al mittente, colpendo però un poster dei Sigur Rós. "Taci!" bofonchiò. "E tu smettila" ordinò poi ad Anaïs. "Ora: potresti giustificare il sarò famosa, mamma? Vorrei dormire un altro paio d'ore, se permetti".

"Il sito attorno all'Hekla è sicuro: l'Hekluskógar andrà in porto molto presto! E sai di chi è il merito? Ovviamente del mio team di ricerca! La comunicazione è arrivata da pochissimo, non sto più nella pelle!"

Lór tirò un sospiro di sollievo e un sorriso spontaneo le arricciò le labbra. Sì, era felice, felice per lei e per il suo traguardo. Ma non per la telefonata, eh. Quella avrebbe potuto risparmiarsela.

"Sei grande, mamma. Ora dove sei?"

"Ad Egilsstaðir con..." la donna esitò un momento e lo scrosciare della pioggia ovattò una voce dal timbro profondo: c'era qualcuno con lei, quel qualcuno. "... Con tuo zio, siamo arrivati giusto una mezz'ora fa. Tu renditi sempre reperibile, mi raccomando. Per la prossima settimana, non so di preciso quando, scenderò a Reykjavík, dobbiamo prepararci".

"Prepararci per... cosa, esattamente?" Lóreley inarcò un sopracciglio. Le sorprese non riusciva proprio a digerirle.

"Per la raccolta fondi, mi sembra ovvio. L'annuncio ci sarà il due novembre al Black Pearl Apartament. Li terrò il mio primo discorso! Oh, e... avvisa anche quella vecchia di merda di tua nonna, dev'esserci anche lei alla presentazione. Ora devo scappare" le disse, schioccando un bacio sul microfono. "Ti richiamo io, fai la brava!" e l'attimo dopo riattaccò.

Dovettero passare una decina di secondi prima che Lóreley si decidesse a fiondare il cellulare sul comodino. Sbuffò. Sua madre era una pessima bugiarda per natura, oltre che un'inguaribile capricciosa –e una guerrafondaia con i fiocchi, soprattutto se c'era di mezzo nonna Danielle–.

"Al Black Pearl, eh?" civettò Bergljót.

"Hai sentito tutto?"

"Non era mia intenzione, sai, ma tua madre strilla quando è al telefono. Sembrava di avercela qua dentro".

"Ti lascio immaginare cosa possa significare averla affianco tutti i giorni" rispose Lór in un sospiro. "Sì, comunque, al Black Pearl. Le cose si fanno critiche, almeno per me".

"E perché?"

"Dovrò essere impeccabile per non far sfigurare mia madre. Diavolo, mi ci vedi con un vestito addosso? Cioè, per vestito intendo uno di quelli da sera e bla, bla, bla..."

"Ahm..." Ber schioccò la lingua. Ci stava pensando. Per davvero. "No".

"Ecco, appunto".

"Però c'è un lato positivo".

"E qual è, illuminami".

"Sicuro e chiaro come il sole ci sarò anche io!"

Lór sollevò di nuovo il capo."Eh? Dici sul serio?"

"Sì. Mio padre ha partecipato al progetto di edificazione del Black. È un architetto, se proprio vuoi saperlo, e vista l'importanza della raccolta fondi può anche darsi che saremo presenti tutti quanti". 

"Tutti, inteso – ma tutti tutti?"

"Tutti tutti".

Lóreley si ammutolì. Che fosse quello un colpo di fortuna o una catastrofe preannunciata, poco le importava: almeno non avrebbe dovuto far da spalla a sua madre per un'intera serata, sfoggiando sorrisi finti a destra e a manca e decantando la sua ammissione alla Fær Øer... a quel Bernhard, soprattutto. 

Chissà che tipo di persona era, quanti anni aveva, quali erano i suoi piatti preferiti, i suoi interessi e la sua vita su un piano generale. 

I punti in comune tra i due novelli innamorati erano molteplici; il primo a favore di Bernhard doveva esser stata la convivenza forzata all'interno del container. Ma come? Nel senso: come era riuscito a fare breccia nel cuore di Anaïs? Perché proprio ora? Perché non prima? Il team di ricerca era rimasto immutato per anni, Lóreley conosceva tutti i suoi componenti meglio delle sue tasche... che fosse un nuovo acquisto?

Si agitò tra le coperte per scrollarsi quei pensieri dalla testa. Bergljót dormiva già. Seppur a stento, Lór crollò poco dopo, rintronata dall'antibiotico. Fine del primo inning

Balzò in piedi con la prima sveglia delle otto. Si preparò in tutta fretta e s'ingozzò un plumcake congelato mentre ancora litigava con la zip del parka. Non era psicologicamente pronta alla visita di controllo: a quello avrebbe preferito un cazzotto allo stomaco capace di farle vedere le stelle, oppure accettare e combattere la sua dipendenza ai plumkcake del distributore. Difatti, durante il tragitto istituto-ospedale in autobus, ne mangiò un altro. Sapevano di chimico e di buono, c'era poco da fare. 

Tralasciata la parte dei plumcake radioattivi e della mezz'ora passata a vestirsi con una mano sola, gli ospedali non le erano mai piaciuti, neppure da bambina. Se solo Ber non le avesse dato buca all'ultimo minuto, l'avrebbe amorevolmente costretta ad accompagnarla. Ma la fortuna non era mai dalla sua parte e questo, oramai, lo sapeva anche l'oltretomba. 

Scese alla fermata designata con la coda fra le gambe e prima di entrare fece un paio di respiri profondi. A passo spedito di avvicinò al banco delle accettazioni, il secondo a partire da sinistra, il più sgombro. Oltre il vetro c'era una donna sulla cinquantina, bassa e tozza, il tesserino in bella vista e le unghie laccate.

Senza distogliere l'attenzione dal suo lavoro, Angelika –come recitato dal cartellino– esordì con un: "Nome?"

Lóreley arricciò il naso. "Lóreley Anaïssdóttir-Dubois" rispose, mostrandole il certificato spiegazzato. "Sono qui per il cambio della medicazione".

La cinquantenne smise di digitare sulla tastiera e con un gesto veloce si aggiustò gli occhiali maculati sul naso. Aveva la faccia tirata da una smorfia indecifrabile, oltre che una ricrescita nera al quanto vistosa. Accostata a quel biondo platino slavato era decisamente un pugno in un occhio.

"Mi scusi, può ripetere?"

"Lóreley Anaïssdóttir-Dubois".

La signora inarcò un sopracciglio. "Dubais?"

"D-u-b-o-i-s" scandì Lór, alzando la voce. "È un cognome francese".

La simpaticona la squadrò un'ultima volta prima di fornirle il numero d'accettazione.

"Secondo piano, ambulatorio. Attenda lì il suo turno".

"Grazie, gentilissima". 

Lóreley s'imboscò tutto il necessario nelle tasche e si affrettò a raggiungere il punto indicato. Niente ascensori, per carità: l'ultima disavventura nel centro commerciale di Saint-Médard-en-Jalles le era costata quarantacinque minuti di deliri in attesa dei soccorsi, un attacco di panico finito male e la snervante compagnia di un gruppo di ragazzini più idioti di lei, tanto simpatici da averle strillato nell'orecchio moriremo tutti! ad ogni scossone. 

Una volta giunta nella sala d'attesa, si rannicchiò nell'angolo –in apparenza– più tranquillo, distante il giusto dal tipico bambino settato in modalità faccio casino e rompo tutto, anche le palle al prossimo. L'attesa sarebbe quindi stata lunga e catartica; tanto valeva perdersi nel solito rito di contemplazione del muro... ma di pensare non ne aveva proprio voglia e di ascoltarsi ancora meno. In pochissimo tempo l'aveva fatto pure troppo, trascurando il vero motivo del suo trasferimento a Reykjavík: il corso di preparazione e l'obiettivo di sloggiare in Francia alla prima occasione. 

Ora come ora, quanto sarebbe stato saggio pensare al futuro, al suo futuro da normodotata? Tra le mani non aveva niente, non ce l'aveva mai avuto, ma nella testa il casino c'era sempre. Era come se il mondo avesse accelerato il proprio moto di rotazione e lei fosse rimasta indietro, in disparte, dietro le quinte di una vita normale. A far cosa, per l'esattezza? Ad osservare, semplicemente, senza muovere un dito, o quanto meno a cercare di adattarsi.

Se c'era riuscito Radice, in quel maledetto sottosopra grigio e nero, perché non avrebbe potuto farlo anche lei? 

Sto pensando troppo, maled-

"Ciao".

Lóreley sollevò di scatto la testa, riportata alla realtà dallo strillo del bimbo che agitava un aeroplanino di carta, mica dalla tipa davanti a lei. Inconsciamente si portò la mano fasciata al petto, quasi volesse assicurarsi di avere ancora un cuore nella cassa toracica, e aggrottando la fronte osservò la figura che le riempiva il campo visivo: aveva l'apparecchio per i denti, una felpa blu tirata tutta d'un lato e una spruzzatina di acne sulle guance.

Ísmey si guardò attorno, visibilmente a disagio, e le agitò una mano sotto il naso per richiamarla. "Ci sei?" disse, ridendo.

Lór sbatté le palpebre un paio di volte. Che coincidenza. "Oh" deglutì. "Oh, ciao! Scusa, è che... ero... assente. Cioè, non ti avevo riconosciuta".

La vide fare spallucce mentre cominciava a dondolarsi sui talloni come una bambina. "Tranquilla, ero ferma qui ai distributori e ti ho vista. Che ti è successo alla mano?"

"Diciamo che non sono molto pratica con le scatole sigillate e i taglierini".

"Ahia!" esclamò Ísmey, storcendo la bocca. "Cavolo, deve aver fatto parecchio male".

"Nah, c'è di peggio. Certo, adesso sono un pericolo pubblico anche con un taglierino in mano, eh. Non che mi stia molto a genio la cosa..."

Ísmey rise di gusto, coprendosi la bocca. Doveva vergognarsi molto del suo sorriso d'argento. "Allora farò in modo di non essere nelle vicinanze quando maneggi un taglierino" disse. "Comunque, piacere. Non ci siamo mai presentate a dovere. Io sono Ísmey".

Lór allungò d'istinto la mano medicata. Si fermò. Scosse la testa, imbarazzata, e ricambiò il commiato con quella giusta. Perché era così nervosa? Era Ísmey, mica quel so-tutto-io di suo fratello.

"Lóreley, il piacere è mio".

Per una manciata di secondi calò un silenzio imbarazzante tra le due, le mani ancora strette l'una all'altra. Ísmey fu la prima a tornare sulle sue, indietreggiando di qualche passo.

"In realtà volevo ringraziarti" sussurrò subito dopo, ancora che ciondolava sui talloni. "Per quello che hai fatto. Se non ci fossi stata tu quel giorno alla Baia... non so davvero come sarebbe potuta andare a finire".

Lóreley la guardò con apprensione. Ci aveva rimuginato a lungo sulla questione salviamo Gaël Elíasson, ancora ci rimuginava e con molta probabilità lo avrebbe fatto fino alla fine dei tempi. Ma quel ringraziamento così sincero, così sentito, stava agendo in lei alla stessa maniera di un antibiotico: uccideva qualsiasi rimorso e risanava quel maledetto buon senso ereditato da suo padre.

"L'empatia ti ammazza i sentimenti."  

"Non devi ringraziarmi. L'ho fatto e basta".

Ísmey si crucciò in volto e qualcosa di tremendamente sbagliato uscì dalla sua bocca. "Non è solo questo. Se ci fosse stato qualcun altro al tuo posto, ora mio fratello non ci sarebbe più".

"Non-" Lór non riuscì a frenare una risata nervosa. "Non dire così, davvero".

"Lóreley, sul serio, è solo che..."

"Ísmey!"

Ísmey scattò sull'attenti a quel richiamo, tesa come la corda di un violino, Lór anche. Sull'uscio della sala d'attesa, tanto bianca da dare la nausea, ecco far capolino l'innominabile in carne ed ossa: si trattava di Gaël. Aveva le guance asciutte, la mandibola contratta e una merendina mangiucchiata stretta nel pugno destro. Il borsone abbandonato ai suoi piedi stava a significare una cosa solamente: il periodo di convalescenza in ospedale era concluso.

Mister-simpatia trucidò Ísmey con un'ulteriore occhiataccia, impaziente di levare le tende. "Hai finito?" la rimproverò, mentre si avvicinava con passo svogliato. L'aeroplano di carta gli sfiorò la gamba.

Lóreley era rimasta a bocca aperta.

Ci vede? Mi vede?!

"Non hai dimenticato niente?"

"Scusa? Me lo hai chiesto davvero? La mamma mi ha portato quattro cazzate e basta" le rispose a tono, scocciato, e in un boccone mandò giù quel poco rimasto della merendina.

Ísmey borbottò qualcosa e si sfilò il cellulare dalla felpa. "È papà" disse, controllando il display. "Scusate".

Non...

La ragazzina abbandonò la sala in quattro e quattr'otto. 

... Andare via. Bene.

Gaël ancora masticava quando le parlò senza preavviso. "Tu sei?"

Lei lo fissò con sospetto. Effettivamente non mi ha mai vista. Chissà se ricorda.

"Lórel-..."

"Ah, Dubois. Certo, certo. Quella della borsa di studio, ora ricordo" la interruppe, picchiettandosi l'indice sulla tempia. "In biblioteca, sì, sì. Quanto è piccolo il mondo". 

Lór storse la bocca. "Sì, quella della borsa di studio e della biblioteca, esatto". 

"Oh. Fantastico. E sei qui per la rinoplastica?"

Sbam

Palla al battitore.

Inizio del secondo inning.

✖ Nel prossimo capitolo, "Buona vita e buona fortuna, Lóreley Dubois":

Altre occhiate –gelide, voraci, affamate– sulla pelle, ennesimo trillo d'allarme che la incoraggiò a coprirsi. Un secondo attimo di silenzio unanime, come se si fossero accordati senza manco saperlo, e lui si avvicinò quel tanto da toglierle il respiro.
"Voglio essere onesto con te e andare oltre le mie semplici aspettative".
"La tua onestà e le tue aspettative non m'interessano, se questo può rallegrarti".
"Invece dovrebbero". 
Lóreley ebbe un sussulto e la rabbia cominciò a montarle nel petto. "Tu non conosci me e io non conosco te, il caso è chiuso".

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