27. Io credo nell'essere umani (pt.1)

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Erano rimasti in quel modo fino ad avere le mani sudate, vicini quel tanto da consolarsi senza dover dare voce ai propri pensieri. Il cervello in forzato stand-by, la lingua appiccicata sotto il palato e gli occhi incollati alla cupola di vetro sopra le loro teste. Avevano goduto entrambi di una pace provvisoria, mentre il mondo intorno veniva stravolto dallo scorrere del tempo, dell'euforia, della normalità.

Quest'ultimo punto in particolare se l'erano meritato. L'avevano cercata l'uno dentro l'altra –Lóreley in Werner e Werner in Lóreley, senza eccezioni– e non trovandola si erano fatti bastare ciò che quel momento aveva potuto offrire a entrambi: un temporale, una calma interiore apparente, un cinema. 

Lór era stata la prima a tornare sulle sue, approfittando della vescica debole per filarsela in bagno. Werner, dal canto suo, non aveva più replicato a suo favore e sdrammatizzando davanti a un trancio di pizza aveva lasciato morire la questione nella maniera più azzardata possibile: ridendo, semplicemente, e ignorando di proposito le sei chiamate di Johanna delle otto.

In macchina lui aveva fumato una sigaretta, la quinta della giornata, e aveva canticchiato The Passenger nel disperato tentativo di riempire il silenzio che era calato nell'abitacolo. Nonostante si fosse sforzato di non darlo a vedere, Werner sembrava essersi pentito della sua confessione, tanto che aveva consumato il drum mal rollato in poco meno di sette boccate; Lór, invece, si era voltata verso il finestrino e tanti bei saluti.

Avere una rivale come Johanna –rivale di cosa, poi?– tra i piedi non ne sarebbe valsa la pena, ma di mollare l'osso proprio non le andava, era una stupida questione di principio. Un'alternativa valida sarebbe potuta essere l'entrata in vigore dell'usucapione su Werner inteso come bene materiale, oppure di lasciare tutto nelle mani del caso e di aspettare a braccia conserte l'evolversi degli eventi. Fatto stava che Werner era riuscito ad entrare nella sua vita a passo di carica e i pro, come anche i contro, poteva considerarli gli uni alla pari degli altri.

Era vero, l'Islanda le stava stretta, e non lo aveva detto per scoraggiarlo, anzi, ma di consolidare un rapporto in madrepatria e al contempo pensare di sparire in Francia per il resto dei suoi giorni la faceva stare male. La sua dote la faceva stare male... e in cuor suo sapeva che non sarebbe scomparsa magicamente durante l'imbarco al gate.

Come avrebbe potuto spiegare a suo padre le epistassi improvvise e gli attacchi di panico nel cuore della notte? Con pa', c'ho l'ansia non di certo. In apparenza, quindi, l'idea di abbandonarsi completamente alla casualità le era sembrata la scelta più ovvia, anche a costo di ritrovarsi in un mare pieno di merda. All'effettivo, aveva cominciato a navigarci a vele spiegate dopo che Ían era morto col cranio fracassato dal paraurti di un BMW. Stava perciò a lei continuare a lottare pur di non affondare. Non a sua madre, non a Marcel, non a Ber, non a Testa di cervo.

Nemmeno a Werner, il suo nuovo strumento d'evasione, ma solo e soltanto a lei, come qualcuno aveva ben pensato di scrivere nelle stelle, senza mettere in conto la sua predilezione alle sfighe.

Quando era rientrata ai dormitori, circa un'ora più tardi, Ber l'aveva bloccata sull'uscio della camera e rifilato un terzo grado coi fiocchi, facendo leva proprio sul suo inusualissimo abbigliamento – vedere Dubois con la gonna non era certo una gioia per gli occhi, ma era comunque apprezzabile lo sforzo.

Lóreley era rimasta sul vago, limitandosi a un drammatico riepilogo di Breaking Dawn e dirottando l'attenzione dell'amica sul culo di Taylor Lautner, l'argomento del giorno. Il risultato le aveva concesso un attimo di respiro, tanto che Bergljót era riuscita a intavolare un dibattito talmente approfondito sulle grazie dell'attore da lasciarla senza parole... e con la voglia di riguardare il film in streaming.

Lór era la campionessa indiscussa nell'attuare delle manovre evasive per avere salva la vita, Bergljót pure, ma le riusciva ancora male. Aveva tanto da imparare, mica come la sottoscritta. Ergo: dire le bugie non era il suo forte. Infatti, dopo essere rientrata in camera dalla doccia veloce, aveva evitato, in maniera plateale, di scoprirsi la pancia. Si era infilata la maglia dei Rolling Stones, il suo pigiama improvvisato, e successivamente le aveva dato le spalle per togliere l'asciugamano.

Lóreley non aveva fiatato, ma l'aveva guardata di sottecchi, fingendo di litigare coi lacci degli anfibi e sporgendosi un poco per avere una visuale migliore. 

Manco a farlo apposta, le era tornato in mente il pomeriggio passato in compagnia di Werner.

La Cerchia stava togliendo loro ogni libertà, l'aveva capito e in parte dedotto il perché di tanta crudeltà. Ciò nonostante non avrebbe comunque potuto farci nulla; quello non era il suo mondo e vista la gravità dei fatti forse era meglio così.

Ancora gocciolante, Ber l'aveva rassicurata in un balbettio, dicendole che il fantomatico incontro era andato una meraviglia. La Benóný era stata dolce come una zolletta di zucchero, avevano mangiato del sushi a pranzo e niente, nel concreto, aveva potuto suggerirle l'opposto. Tutte le convocate, parole sue, non avevano avuto gravi ripercussioni durante la seduta programmata del giovedì.

I vistosi ematomi che Ber aveva tentato di nascondere sotto la maglia sdrucita, in ogni caso, stavano a testimoniare il contrario.

Se c'era una cosa che Lóreley non aveva mai provato sulla sua pelle, tra le tante altre che le limitazioni di Selfoss non le avevano mai permesso, era l'imbucarsi a una serata evento del sabato – special guests in questione gli Atomicon, alcol a fiumi e una futura e prima sbornia da evitare come la peste, se possibile. 

Di nuovo in gonna e con un filo di matita sotto gli occhi, Lóreley se ne stava in piedi davanti al bancone e di tanto in tanto s'imponeva di mandare giù un sorso di zero-due, la stessa da mezz'ora. Sostava in seconda fila, gli sgabelli che circondavano il banco della spillatura erano stati tolti per facilitare la calca di persone. Tra gli assetati riconobbe un paio di universitari del corso di marketing, una certa Abela Bárðursóttir in shorts e le stesse matricole che, disgustate, le avevano fatto una tac con gli occhi nel mentre passeggiava col belloccio di turno.

A quel pensiero, trattenne il respiro e tracannò un sorso. Magari avrebbe potuto mandarle a quel paese senza avere alcun rimorso. Ovviamente da brilla.

Bergljót riemerse dall'ammasso di corpi col terzo bottino dal loro arrivo: due cicchetti d'assenzio. Prima che Lór potesse aprire bocca, l'amica gliene versò uno nel bicchiere.

"Ma sei fuori?"

Bergljót bevve il suo con un colpo solo. "Questo è il tuo rito d'iniziazione, biondina" la consolò, cacciando fuori la lingua. Lóreley non era un asso in materia, ma doveva bruciare tantissimo. E fare un tantino schifo. "Devi farti le ossa, ora che sei in mezzo ai lupi".

"Bevendo..."

"Assenzio e birra, esatto".

"Ma è disgustoso!" controbatté Lóreley. "Vomiterò di sicuro!"

"Il vomitare è la prassi" Bergljót le cinse le spalle con un braccio. "Dai, bevi e smettila di frignare. Tanto è solo per stasera, che t'importa? Ci sono io con te!"

"Che grande rassicurazione..."

Lóreley guardò il contenuto di dubbia commestibilità all'interno del bicchiere, mentre Ber la invogliava con un sorriso poco rassicurante a compiere il famigerato rito d'iniziazione. Poi fece spallucce, ricordandosi d'avere appena vent'anni e troppi malesseri da dimenticare, e in poco meno di tre sorsi lo mandò giù.

Sì, faceva proprio schifo e Bergljót era un pessimo esempio da seguire. Ma chi l'avrebbe giudicata per questo? Il fine settimana era appena iniziato e la domenica mattina, fino a prova contraria, era perfetta per rimanere a vegetare a letto. L'acidità di stomaco e l'emicrania, però, cozzavano un pochino col resto.

Nel giro di qualche minuto il miscuglio improvvisato di luppoli e assenzio compì egregiamente il suo dovere, complici il caldo epocale e l'inizio dell'esibizione. La sensazione di leggerezza alla testa non tardò ad arrivare, così come la voglia di sentirsi come una persona qualunque. Selfoss le aveva dato tanto e tolto ugualmente molto, ma lei, almeno per quella notte, avrebbe fatto di tutto pur di riprenderselo.

Tra le luci soffuse, gli assoli e i cori che partivano sin dal fondo della saletta dimenticò di essere Lóreley Dubois. Scordò di avere la gonna, scordò il disagio latente che la perseguitava da quando ne aveva memoria, scordò l'Islanda, scordò il Litlaus.

In quel lasso di tempo si sentì veramente bene, compiuta, assoluta e... libera, sensazioni speciali che era riuscita ad assaporare in poche occasioni: durante la vacanza sulle Dolomiti nell'ottobre del '98, alla vigilia di Natale di sei anni prima, quando sua nonna le aveva insegnato a fare manovra nel vialetto col Cherokee; oppure sulla Baia della capitale, tra i ciottoli e il rumore delle onde, il giorno in cui aveva salvato...

Lóreley rallentò i saltelli fino a fermarsi. Si guardò attorno, cercando di ignorare il fastidioso sfarfallio che le disturbava la vista. Le luci andavano e venivano – viola, rosso, blu. Si pigiò i polpastrelli sul palmo sano: la mano di Ber non c'era a stringere la sua. Non più.

Non pensarci.

Aprì la bocca, masticò Bergljót, ma non riuscì ad udirsi. Qualcuno la spintonò indietro, un altro di lato. Riempì i polmoni d'aria, scansandosi i capelli dalla faccia. Un tipo le sgattaiolò di fianco, urtandola per la spalla; una dreadlock le mimò un sentito vaffanculo – le aveva rovesciato addosso mezzo gin-tonic nel mentre veniva sbattuta qua e là alla stessa maniera di un flipper.

Lóreley strizzò gli occhi, sentiva caldo, sentiva di non sentirsi, come se fosse involontariamente ripiombata nel Litlaus. Allora si toccò il polso, immaginando di avere il filo rosso ad avvolgerglielo, e il suo cuore ebbe un sussulto.

Un bagliore dalle sfaccettature gialle e magenta l'accecò momentaneamente e delineò una sagoma che aveva del famigliare, distante da lei il giusto da non esserlo realmente. Sbatté le palpebre con violenza e nelle orecchie si fece largo un fischio assordante e monotono.

Lo vedeva. Era lì.

Lui era lì.

La fissava, immobile e fermo come le lancette di un orologio che ha smesso di funzionare. Impassibile, incolore e imprendibile, vicino e al tempo stesso lontano dalla sua materialità.

Lór avanzò a tentoni, Testa di cervo si voltò fino a darle le spalle. Lo seguì – o meglio, si lasciò guidare dal tintinnio dei cristalli che gli pendevano dalle corna.

Giunta allo svincolo dei bagni, di lui non era rimasto niente. Superò una coppia appartata su un divanetto in similpelle e concluse la sua caccia al tesoro sull'uscio dell'unico bagno presente.

Avvinghiò le dita al pomello unto, tirò ed entrò.

Quando richiuse la porta tappezzata di sotto bicchieri, l'ipotesi di aver esagerato col bere trovò terreno fertile nel suo cervello, attecchendo assieme allo stupore.

Il bagno del Prikid non c'era più. Dinnanzi a lei, invece, si palesò un atrio di altri tempi. 

... Continua

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