32. Al Black non si comanda (pt.2)

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Lór respirava piano e a bocca aperta, l'apparecchio le doleva da morire - la visita mensile dal dentista si era rivelata una tortura in piena regola. Nonostante il dolore martellante le avesse scatenato un mal di testa coi fiocchi, se ne stava immobile sotto la doccia, gli occhi fissi sulla tendina rosa pregna d'umidità. Il coraggio di uscire, tutto d'un tratto, le era venuto a mancare.

Sul tessuto sintetico erano delineate due figure nere, delle quali distingueva a malapena gambe e braccia. Si trattava di Þorsteina e Benía, il loro civettare a voce medio-alta aveva un che di irritante, udibile anche con lo scrosciare dell'acqua: entrambe, forse per gioco, si anticipavano a vicenda ciò che andava detto. Lo facevano sempre. Sembravano vivere una simbiosi perenne, come se, al momento della loro venuta sulla terra, una singola anima fosse stata fatta a metà da chissà quale malignità cosmica e infine sbattuta in due corpi diversi. Totalmente opposti. Però se la intendevano e questo, a Lóreley, non piaceva affatto.

Non le era mai piaciuto.

"La sai l'ultima?"

"L'ultima?"

"Sì, l'ultima!"

"Spara!"

Lór avvitò la manopola e l'acqua smise di bagnarla.

"Hanno beccato Aríus e Arnóra..."

"... Nel bagno del primo piano. Cioè, è stata lei a beccarli. Lo sapevo già".

"Poverina, che colpo basso. Da dicembre faceva comunella con lui sul bus! Credo proprio che si sia montata un tantino la testa".

"Hai delle prove?"

"Ovvio che ce le ho. Parola di..."

"... Ella".

"Sì, Ella. Castoro parlava solo con lei fino alla settimana scorsa, poi l'ha allontanata di colpo. Mi ha detto che l'ha vista col brutto grugno sulle scale antincendio".

"Ma che si aspettava? È una mezza oui-oui-baguette. Cazzo vuoi che me ne importi delle sue vacanze chic in Francia, è proprio insopportabile. Che poi -Marcel mi pare si chiami- è..."

"Vecchio, sì. Da quello che so potrebbe essere il padre di sua madre. Che schifo. Però la signora Østergaard è stata furba... può giocarsela sul mantenimento. Chissà quanto prende al mese, lui ha tanti soldi".

"Non credo molto... hai visto come si veste Lóreley?"

"Male. Decisamente male".

"Malemente male".

"Malemente male! Suona..."

"Bene".

"Benissimo".

Þorsteina e Benía scattarono come molle nell'incrociare lo sguardo di Lóreley, adesso riflesso nello specchio striato dal vapore. La sua faccia non esprimeva nulla. Benía invece roteò gli occhi, cercando di assumere la tipica posizione da alpha snob, e piroettò su un piede per voltarsi. Aveva un brufolo proprio sulla guancia, uno di quelli grandi e rossi da non schiacciare. Però era bella. Bella a modo suo. Anche Þorsteina.

"Che vuoi, Castoro?" le sussurrò Benía con finta cattiveria. Þorsteina continuò a fare finta di nulla, districando nodi invisibili con la spazzola. 

Ancora gocciolante, Lóreley ridusse gli occhi in due fessure: il coraggio mancato si era tramutato, in maniera inaspettata, in rabbia; una rabbia calma, quasi riflessiva. Poi, un po' a fatica, si sfilò l'apparecchio mobile per poter parlare senza intoppi. Þorsteina, che la guardava di sbieco dallo specchio senza arrestare le spazzolate, fece un versetto di disapprovazione. 

"Seicentosettanta euro".

Benía si portò le mani ai fianchi fasciati dall'accappatoio, senza smettere di squadrarla. "Che stai dicendo?"

"Sono i soldi che mia madre prende mensilmente dall'assegno di mantenimento" spiegò Lóreley. "Equivalgono a novantunomilaquattrocentocinquantacinque corone islandesi. Più o meno" e la voce le venne a mancare. Un brivido ghiacciato la costrinse a serrare le dita attorno al braccio per rimanere calma. L'attimo seguente si portò la mano sotto il naso, ancora sigillata, e proseguì con lo sproloquio. "Con quei soldi mi ci paga le lezioni di francese -va anche bene chiamarlo oui-oui-baguette- e quelle di nuoto".

"Non credo di averti chiesto spiegazioni a riguardo".

Lóreley alzò le spalle e si guardò il pugno. "Quelle vere arrivano adesso".

Þorsteina spalancò la bocca in un grido muto quando Benía ricevette un cazzotto sulla bocca. Un cazzotto un po' improvvisato, dato con uno slancio fiacco e una mezza scivolata in avanti, ma pur sempre un cazzotto.

Lór non batté ciglio.

"Questo, invece" scandì lentamente, mentre tornava composta. "È quello che prendi tu".

Lór sfarfallò le ciglia per scacciare quel ricordo dalla testa - e il viso di Benía Arnaldsdóttir striato di sangue e lacrime, una stronzata-monito che le era valsa un'espulsione a tempo indeterminato dalla squadra di nuoto. A mente vuota si passò la lingua sui denti, mentre continuava a specchiarsi sul finestrino madido di pioggia. Le sembrò di avvertire ancora l'apparecchio sotto al palato, oltre che i rimproveri del suo ex-coach nelle orecchie.

Nonna Danielle cantava sottovoce Hallelujah, interpretando a modo suo il testo di Jeff Buckley, e tamburellava le dita sul volante a ritmo di musica. I sedili del Cherokee emanavano lo sgradevole aroma di arbre-magique e cipria.

Lór sospirò forte, lo stomaco sottosopra. Se avesse potuto tornare indietro...

"Avere delle preoccupazioni alla tua età, gioia mia, è una grande cazzata".

La più giovane si passò un dito sotto l'occhio per cancellare una sbavatura di trucco. Le perle di saggezza di Danielle contenevano sempre una parolaccia al loro interno: era la prassi. E conferivano alla frase, parole sue, più enfasi.

"Non sono preoccupazioni, le mie".

"Lóreley Dubois, è come se ti avessi fatta io. Smettila di sparare stronzate. Tua madre potrebbe pure abboccare perché è un'allocca di natura, ma con me sappi che non attacca" Danielle le diede un pizzicotto sul ginocchio, acciuffandole, però, soltanto il collant da cinquanta den. "Che c'è che non va?"

La jeep si fermò a un incrocio. Il semaforo era rosso.

"Hai mai-" Lór si ammutolì momentaneamente, e il silenzio tra le due fu riempito da una vivacissima pubblicità di detersivi eco-sostenibili. "Hai mai avuto l'impressione di star facendo una cosa che per te è giusta ma che per gli altri non lo è affatto?"

"Per l'amor di dio, se è giusta per te, perché cazzo devi dare retta a ciò che pensano gli altri? Non siamo mica tutti uguali, diavolo. Sai che noia, sennò".

Lóreley si sbottonò il colletto della camicia, ora preda di una vampata di calore. Sì, la nonna aveva proprio ragione: che noia, sennò. Preoccuparsi delle conseguenze -se ciò che si compie viene fatto in buona fede-, preoccuparsi dei giudizi altrui -se ciò che si sceglie di fare è consono a una morale accettabile- non è mai del tutto produttivo. Alle volte è la circostanza stessa a richiedere una sana dose d'impulsività, qualche volta è l'istinto a cogliere l'attimo, a rapirti il corpo, ad annebbiarti la mente, a costringerti ad agire. Ogni tanto è bene lasciarsi andare, quindi Lór capì.

Capì che se avesse potuto tornare indietro avrebbe comunque colpito Benía sulla bocca, spaccandole il labbro e pure qualcos'altro. Se avesse potuto tornare indietro avrebbe comunque scelto di salvare Gaël, mettendo in discussione le intricate e indiscutibili strade tracciate dal destino. Se avesse potuto tornare indietro avrebbe comunque lasciato la mano di Ían, quella mattina di dodici anni prima.

Non poteva correggersi e correggere le scelte di cui lei stessa era stata l'artefice, soprattutto quelle che l'avevano condotta alla Fær Øer e in bilico fra la vita e la morte. Componevano il suo vissuto dalle fondamenta, c'era poco da piangersi addosso, e lo stesso avrebbe potuto dirlo degli eventi, le decisioni fatte a cuor leggero e le situazioni sbagliate: tutto era stato compiuto per suo volere e nessuno, tralasciata la sua istintività, aveva contaminato il suo metro di giudizio. Nemmeno Bo'.

Danielle rispettò il silenzio di Lóreley per tutta la sua durata, nonostante il tamburellare delle sue dita fosse aumentato a dismisura.

Danielle rispettò quel silenzio, consapevole del fatto che le preoccupazioni della nipote, forse, coincidevano con un errore commesso nel passato, primo mattone delle sue, di fondamenta.

Allora canticchiò a bocca chiusa Hit road Jack fino al parcheggio del Black Pearl pur di non parlare.

Anaïs era stata un portento. Lóreley, seduta accanto a Danielle nella sala adibita per il convegno, l'aveva guardata e ascoltata senza mai abbassare la guardia. Un piccolo intoppo c'era però stato: quando era arrivato il turno di suo zio Bjarni ad esporsi con un monologo pieno zeppo di termini tecnici, qualcosa le aveva colpito la spalla - un elastico per capelli. Lei si era voltata di scatto e nel mentre aveva pugnalato Ber con un'occhiataccia, Gíta l'aveva salutata alzando il medio e Werner, poco più indietro della famiglia protestante al completo, le aveva rivolto un sorriso sornione. Tipico di lui.

Prima di mettere mano al buffet sponsorizzato proprio dal Samkaup, Lór si era sorbita un'altra interminabile ora assieme ai colleghi di sua madre, stringendo mani a non finire e decantando la sua ammissione alla Fær Øer. Riuscì a svignarsela nel bel mezzo di un dibattito sull'energia eco-sostenibile a cui, di sicuro, aveva preso parte anche il fantomatico Bernhard - la decisione di fronteggiarlo a stomaco pieno le si era radicata nella testa, peggio della sinusite, e l'impellente urgenza di ingozzarsi di salmone le era sembrata un'ottima scusante. Ma la verità era che desiderava solamente temporeggiare quella disastrosa presentazione, nulla più. Oltretutto non conosceva volto e voce del suo nemico, il che era un punto a suo sfavore.

Mentre litigava con la pinza una mano afferrò l'ultima tartina rimasta sull'espositore. Ad avvolgere il medio del maleducato in questione c'era un anello con delle corna di cervo.

Lóreley sollevò un sopracciglio, pronta a ribattere, ma le parole le rimasero impicciate sulla lingua. Gaël, dal canto suo, si limitò a una scrollata di spalle.

"Che c'è, Dubois? Ne hai cinque nel piatto".

"Con quella sarebbero state sei".

Lui aggrottò la fronte. "Il nostro mondo si basa su concetti di costanti e variabili. Se la matematica non m'inganna, sei meno uno fa cinque, e questo ne è un esempio lampante. Tutto quadra" disse. "E poi c'è da dire che sono stato più veloce di te".

"È una gara, per caso? Se ci sono le pinze vuol dire che vanno usate".

"Se continuerai a rispettare le norme igienico-sanitarie finiranno anche quelle col tonno" le spiegò e, tempo di una frazione di secondo, mangiò il bottino di guerra. "Con permesso" masticò infine, superandola. "Vado ad onorare il concetto di costanti e variabili con le altre tartine".

Lóreley posò la pinza sul ripiano e mandò giù un'imprecazione. Se avesse potuto tornare indietro lo avrebbe salvato in ogni caso, non c'erano dubbi. Non c'era più motivo di averne, Gaël aveva avuto ragione: ci avevano già pensato le costanti e le variabili a riassettare l'ordine cosmico. 

Senza pensarci due volte afferrò una manciata di tartine all'avocado, ignorando lo sbuffo della signora ingioiellata dietro di lei.

✖ Nel prossimo capitolo, "La regola d'oro del farsi gli affari propri":

Prima di decidersi a tornare si stravaccò su un divanetto color rame, posizionato davanti un'interminabile fila di specchi a parete. Chiuse gli occhi e inspirò dalla bocca. Ripensò alla lezione esistenziale datale da Gaël e, in maniera del tutto involontaria, se lo figurò di nuovo nella testa intento a fotterle l'ultima tartina col salmone; il tutto condito dai suoi soliti consigli non richiesti – stavolta improntati sulle norme igienico-sanitarie e sul ragionamento chi tardi arriva, male alloggia.
Nemmeno quella sera gli aveva dato il ben che minimo pretesto per farlo comportare da gran pezzo di merda qual era, ma a Gaël non era comunque importato. A Gaël non importava un bel niente di niente, appurato, e Ber le aveva già rifilato la paternale sul fatto che lui è fatto così. Punto.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro