33. La regola d'oro del farsi gli affari propri

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Sopravvivenza.

In statistica è presente sotto il nome di tavola della mortalità e prende in esame un numero x di sopravvissuti dal momento della nascita fino alla morte di quest'ultimi; in campo esoterico, d'altro canto, si parla di sopravvivenza dell'anima, ovvero dell'ipotetica durata dello spirito dopo il trapasso. In senso umano, invece, viene descritta come il superamento di una crisi o di una situazione di gravità estrema. Questa condizione è spesso affiancata all'impulso istintivo – alla tendenza innata, presente sia negli uomini che nelle bestie, a cedere a reazioni imprevedibili.

Ecco. L'istinto di sopravvivenza di Lóreley, per l'appunto, stava già pianificando una manovra evasiva coi fiocchi, suggerendole di darsela a gambe levate per correre in bagno. Ma le dita di Anaïs artigliate alla sua spalla non glielo avrebbero mai permesso. L'ennesimo bivio davanti a lei era perciò questo: continuare a sorridere come un ebete e prendere finalmente atto della sua maggiore età di fronte a Bernhard, oppure imbastire una scusa plausibile e tornare a molestare il buffet a testa bassa.

Hai vent'anni, cazzo, fattene una ragione. Non sei più una mocciosa.
Che c'è di male se tua madre pensa a rifarsi una vita?

Bernhard non era esattamente ciò che si era aspettata fosse. Una cinquantina d'anni, ad occhio e croce, occhi di un verde slavato, capelli color caramello. Mascella squadrata, espressione un tantino anonima, una spolveratina di rughe agli angoli della bocca e viso sbarbato a dovere. Tutto qua. Un normalissimo ed eccentrico cinquantenne –soprattutto per l'accostamento gessato blu e mocassini del medesimo colore– e fiero del suo bel rolex; talmente orgoglioso del suo orologio da averne controllato il quadrante all'incirca sette volte in meno di un minuto. Oppure, semplicemente, quella che Lór aveva catalogato come ossessiva adorazione era in realtà un movimento involontario provocato dal disagio.

Trascorsa quella che era sembrata un'eternità a tutti gli effetti, Anaïs la scosse un poco. Lór si sforzò di sorridere e le labbra dell'uomo imitarono all'istante le sue. Appena allungò pure la mano sinistra per ovvie ragioni lui accettò la formalità senza fare domande. Le parve di trovarsi di fronte a uno specchio.

Lór cercò di non barcollare quando Bernhard accentuò la presentazione con un energico su e giù. Björn e Ber, distanti dai tre il giusto da non dare nell'occhio, mormorarono all'unisono se non la smette rischia di spezzarla in due. Poi ci bevvero su.

"Finalmente ci conosciamo, tua madre mi ha parlato molto di te. Io sono Bernhard, lavoriamo spalla a spalla da qualche anno, ormai" le disse, e ritirò la mano nella tasca dei pantaloni. Il marcato accento inglese lo tradiva in pieno. "È grazie a lei se sono riuscito ad ambientarmi così presto, soprattutto per quanto riguarda la lingua. Fare pratica mi è indispensabile".

"Anche tu sei- cioè, anche lei è un vulcanologo?" la voce le squillò di un'ottava più in alto. Quel faccia a faccia aveva già assunto i toni di un interrogatorio forzato. 

"Geologo, più nello specifico geofisico. Ho avuto la fortuna di insegnare all'Università di Southampton per sei anni prima di rimettermi in proprio. Ma non voglio annoiarti" e controllò di nuovo che ore fossero. "Anaïs mi ha detto che sei un'artista".

Lóreley tossì per nascondere una risatina imbarazzata. 

Artista, eh?

"Beh... ci provo. Fare l'artista di questi tempi è particolarmente costoso".

"Sei alla Fær Øer, giusto?"

"Giustissimo".

"Immagino sia impegnativo".

"Altroché se lo è!" s'intromise Anaïs, strizzandole entrambe le guance. "Ma questo sarà il suo trampolino di lancio. Ha faticato tanto per ottenere la borsa di studio".

"Trampolino di lancio?"

"Sì, ahm... per luglio conto di trasferirmi in Francia..." Lóreley prese a torturarsi le mani pur di non pensare a Marcel. "In Francia, sì, a Saint-Médard-en-Jalles" balbettò. "Lì valuterò se iscrivermi a l'École Nationale supérieure des beaux-arts di Parigi oppure se tornare nel privato. Sono ancora indecisa".  

Inaspettatamente il vociare riverso nella saletta bianca e nera fu spaccato in due da un Anaïs forte e distinto. La donna mollò il viso di Lóreley e si voltò, piroettando sui tacchi a spillo con maestria. Poi richiamò l'attenzione di Bernhard su di sé con un'occhiata di troppo, che sembrò più una supplica che altro.

L'uomo afferrò l'sos al volo e si congedò a Lór con un ultimo sorriso, evitando, pure per amor proprio, ulteriori imbarazzi inutili. Lóreley, nemmeno a dirlo, gliene fu grata. Inconsciamente.

"Nuovo compagno di tua madre? Si vede lontano un miglio".

Lór carburò l'ironia di Ber con un sospiro. "Niente è stato ancora ufficializzato, ma a breve lo sarà".

La mora le agitò sotto il naso un flûte traboccante di prosecco. "C'est la vie, no? Insomma, la crisi di mezza età, capisci? E poi, guardali: lui la segue come se fosse la sua ombra. Pende dalle sue labbra, il che non è cosa da poco" Bergljót bevve un grosso sorso dal suo bicchiere. "Magari" e trattenne un rutto. "Magari è una cosa seria".

Lóreley alzò le spalle e afferrò il calice senza aver bisogno di verificare la natura del contenuto. Al banco degli alcolici, per sua fortuna, non servivano cicchetti di assenzio. "Leva il magari e siamo apposto" borbottò.

"La cosa sembra infastidirti".

Lór osservò le bollicine del prosecco ammassarsi sulla superficie: un'azzeccatissima rappresentazione del suo attuale stato d'animo. 

"Fin da piccola ho sempre sperato in uno strambo triangolo che comprendesse mia madre, mio padre e la compagna del suddetto. Per me era cosa normale pensarla così. Ma Anaïs merita di meglio" disse, soffermandosi di proposito sull'ultima parola detta – meglio, meglio, meglio. "E Marcel non lo è. Non lo è per lei. In realtà non lo è mai stato e va bene così. Hanno fatto una stronzata che inevitabilmente ha chiamato in causa anche me, ma ho smesso di fargliene una colpa da un po'. Come hai appena detto, c'est la vie. Questo è il pensiero più logico, al momento".

Bevve anche lei e con la coda dell'occhio carpì la faccia arricciata di Ber.

"Che c'è?"

La perplessità continuò a indugiare sul volto dell'amica, sopracciglio alzato e bocca mezza aperta. "Un triangolo? Tra i tuoi? Ma che cazzo di infanzia hai avuto?" le sbottò contro.

Lór soffocò una risata. "Ma hai sentito il resto, almeno? Quella era solo la premessa".

"'Fanculo il resto, tu sei malata!"

"Forse" sghignazzò l'altra e le restituì il bicchiere mezzo pieno. "Non berlo, mi raccomando" e fece per allontanarsi.

"Sei passata al lato oscuro degli alcolici da un giorno all'altro?"

"Non ho mai detto di voler smettere, ma neanche di voler cominciare. Ho solamente puntualizzato dicendo che non lo farò più al Prikid in tua presenza" le canzonò contro Lór mentre spariva tra la folla d'invitanti.

Prima di poter cantar vittoria dovette sgomitare fra la fiumana d'invitanti per raggiungere quanto meno il centro della sala. Un gruppo piuttosto numeroso sostava proprio davanti l'uscio che la separava dal bagno. Nel suo centro spiccava Dóróthea, la statuaria Barbára –riconoscibile dal fermaglio a forma di piuma di pavone nello chignon– e la sua fantomatica datrice di lavoro, Þórstína. Quindi accelerò di proposito il passo quando si ritrovò nell'occhio del ciclone, sperando, in cuor suo, di continuare ad essere abbastanza anonima pure con gli stivaletti ai piedi e la camminata sbilenca.

Raggiunse il bagno che quasi rischiava di farsela addosso. Il cartello guasto, in tutto questo, le strappò di bocca un merda borbottatissimo. Mentre si malediva la vescica, la scarsa tempra fisica e la poca fortuna, tentò di raggiungere il primo piano in tempi record. Il fracasso proveniente dalla sala adibita ai festeggiamenti si annullò non appena ebbe varcato la seconda rampa di scale e un silenzio innaturale la circondò subito dopo. Poco male: almeno avrebbe potuto sfilarsi le scarpe e soffrire a voce alta.

Lóreley onorò il patto subito dopo. Prima di decidersi a tornare, però, si stravaccò su un divanetto color rame, posizionato davanti un'interminabile fila di specchi a parete. Chiuse gli occhi e inspirò dalla bocca. Ripensò alla lezione esistenziale datale da Gaël e, in maniera del tutto involontaria, se lo figurò di nuovo nella testa intento a fotterle l'ultima tartina al salmone; il tutto condito dai suoi soliti consigli non richiesti – stavolta improntati sulle norme igienico-sanitarie e sul ragionamento chi tardi arriva, male alloggia.

Nemmeno quella sera gli aveva dato il ben che minimo pretesto per farlo comportare da gran pezzo di merda qual era, ma a Gaël non era comunque importato. A Gaël non importava un bel niente di niente, appurato, e Ber le aveva già rifilato la paternale sul fatto che lui è fatto così. Punto.

Lóreley schiuse appena le palpebre si guardò la punta del naso.

E allora perché a me importa? Perché è fatto proprio così?

Due piccole scosse la fecero sussultare. Immediatamente sgusciò verso destra e prese a tastare i cuscini del divanetto. Poi, seppur titubante, infilò la mano sana tra di essi col sopraggiungere di altre due vibrazioni: aggrottò la fronte nel constatare si trattasse di un cellulare.

Lór ispezionò l'uscio del bagno con una lunga occhiata intanto che pigiava il tasto centrale del BlackBerry. Lo sfondo ritraeva un Golden Retriver con un collare blu e una pallina da tennis mangiucchiata fra le zampe. Dietro l'animale, ecco far capolino un soggiorno che aveva avuto l'onore di visitare in una circostanza alquanto particolare.

Kim.

Lóreley si mordicchiò il labbro inferiore.

Che sia il cellulare di una delle due?

Se lo rigirò tra le dita, un po' confusa e colpevole.  Non poteva nemmeno sbloccarlo, l'accesso al menù richiedeva un pin di sicurezza – cosa fuori dalla sua portata, in quanto era allo scuro pure della data di nascita di entrambe le sorelle Bersisdóttir, e tentare avrebbe solo peggiorato la situazione. Un indizio, tuttavia, ce l'aveva eccome: un messaggio ricevuto da un mittente non registrato in rubrica. Non era neanche stato aperto. 

+354 *** *****3 (sconosciuto)
Dobbiamo parlare. Ti aspetto al secondo piano.

Poco propensa a tornare di sotto, Lór recuperò di malavoglia le scarpe e si avviò verso il punto indicato senza staccare gli occhi dal display. Durante la traversata non incrociò né gli addetti alla pulizia camere –si trattava pur sempre di un albergo– né i camerieri. Si era lasciata alle spalle il silenzio e il silenzio l'aveva infine riaccolta, come un vecchio amico... e, croce sul cuore, non seppe se gioirne o meno. Nel dubbio, lo ruppe in due con un richiamo.

"Gíta?"

Nessuna risposta le giunse alle orecchie. Allora proseguì lungo il corridoio spoglio e svoltò a destra, ritrovandosi in un secondo atrio, identico in tutto e per tutto alla saletta d'aspetto del piano terra. Oltre il bancone della reception non c'era anima viva e le due scalinate, posizionate agli angoli del salone scarno e minimalista, parevano condurre nel buio più fitto. Possibile che nessuno si fosse accorto della mancanza di corrente?

Col naso all'insù avanzò sul tappeto nero. La situazione cominciava a non piacerle. Individuò l'ascensore sulla sinistra, dietro un divisore fatto di canne di bambù bianche, e vi si avvicinò in punta di piedi.

"Edith?" squittì.

Niente.

Abbandonò gli stivaletti su un carrello portabagagli e s'infilò nell'ascensore a testa bassa pur di non prendere le scale. Durante la breve salita uno spasmo le attraversò per intero la mano fasciata, tanto violento da obbligarla a serrare debolmente il pugno. Il tempo di una veloce rassicurazione a mezza bocca e le porte lucenti sgusciarono di lato.

Secondo piano. Spa.

La voce pre-registrata le annunciò il falso: tenebre, c'erano solo fredde tenebre ora e davanti a lei, tagliate di netto dal neon cereo sopra la sua testa.

Lóreley sentiva la bocca asciutta e il cuore scalpitarle nel petto a più non posso, quasi fosse sul punto di collassare.

"E-" le mancò il fiato. "Edith? C'è nessuno?"

La tentazione di fare ritorno fu allettante tanto quanto lo era stata l'apertura del buffet, ma l'ennesimo tremolio emesso dal BlackBerry le suggerì l'idea più pessima e azzardata mai avuta in vita sua: ancora una volta fu l'istinto a prendere il sopravvento, ad impadronirsi delle sue gambe e a suggerirle di strizzare le palpebre una volta varcata la soglia di quell'apparente non-ritorno. E sempre l'istinto, adesso spalleggiato dall'ansia in persona, a guidarle entrambi i palmi sulle tempie e a schiacciarla verso il basso, verso il nero più nero, dritta tra le braccia di qualcosa a lei sconosciuto ed estraniante.

Doveva proteggersi dal non sentire di non sentirsi. Doveva farlo ad ogni costo, doveva lottare contro l'annichilimento imminente del suo corpo terreno. Doveva tornare indietro, doveva coprirsi, doveva...

No.

No, non ce n'era bisogno. Conosceva benissimo quella sensazione di incompletezza. L'aveva già provata, vissuta, temuta e in parte desiderata: poco meno di un mese prima, quando Radice le aveva fatto a pezzi l'anima, e nella manciata di ricordi storpi inculcatole nel cervello da Testa di Cervo.

Sono nel... Litlaus?

Un moto lontano, scaturito dalla sua volontà, le ordinò di riaprire gli occhi. Tacque, rimanendo in ginocchio, le dita ancora premute sulle tempie e la percezione tattile pressoché inesistente.

Fu come guardarsi allo specchio, ma in bianco e nero: una figura tremolante, accovacciata in quel buio che aveva smesso di inghiottire i contorni di ogni cosa, giaceva nella sua stessa posizione.

Entrambe le ragazze spalancarono la bocca all'unisono.

"Lór?"

"Edith?"

"Che-"

"Cosa?" la rossa scosse debolmente la testa, gli occhi sgranati e il respiro corto. "Io non-... che ci fai tu qui?"

Meccanicamente e a rilento, Lóreley tornò ritta.

L'ascensore non c'era più.

"Bella domanda, Edith" e il mormorio produsse un fastidioso eco. "Bella domanda".  

✖ Nel prossimo capitolo, "Le paure hanno i giorni contati":

Se avesse potuto spiegare in parole povere ciò che stava succedendo alla sua anima in quel momento, avrebbe di sicuro affermato che qualcosa mi sta spellando viva. Dire con certezza cosa le stesse accadendo sarebbe stata una pazzia, l'anima non era fatta di pelle e carne, eppure fu difficile cercare di ignorare le centinaia di pizzicotti che avvertiva ovunque: sulla nuca, sugli avambracci, sulle cosce, sulla pancia, dietro il collo, sugli zigomi. Allora Lór cominciò a grattarsi in maniera convulsa e incontrollata, finendo in ginocchio.
Edith, inorridita dalla scena, cascò all'indietro, ora vittima di una paura ancora più grande: quella di non avere il coraggio di agire.
Tutto si annullò con uno schiocco di dita.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro