35. Paralisi

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

La luce bianca le rimbalzò negli occhi, obbligandola a serrarli l'attimo seguente. L'anima aveva fatto ritorno al proprio guscio di carne, ma l'equilibrio, per sua sfortuna, non era stato abbastanza veloce da anticipare il suo arrivo.

Il cervello di Lóreley lavorava piano, pianissimo a causa dello stordimento che aveva addosso, e ci volle qualche secondo prima che capisse di trovarsi stesa a terra, a pancia all'aria, più nello specifico al Black Pearl di Reykjavík, sul pianeta terra e nell'anno domini duemilaundici. Sopra di lei, immobile, un lampadario fatto di gocce di cristallo e nastri neri, oscurato per metà da una matassa di capelli rossicci.

Lóreley

Edith l'afferrò cautamente per le spalle e l'aiutò a raddrizzarsi, ma non a tornare in piedi. Poco più lontano delle due, accasciata tra il banco della reception e un divisore fatto di canne di bambù, Johanna rantolava a voce bassa. Teneva entrambe le mani premute sul collo, a destra, lì dove si annidava lo svangur.

Né Edith né Lóreley riuscivano a vederle la faccia: la prima era troppo concentrata a ispezionare ogni anfratto della sala con occhiate veloci, quasi temesse di essere sbranata da un momento all'altro; la bionda perché, nonostante stesse faticando a riabituarsi alla nitidezza dei colori, non avrebbe comunque potuto farlo a priori, neanche volendolo con tutto il cuore.

Le ramificazioni sulla pelle di Johanna, quella del volto soprattutto, erano così fitte e spesse da averle inglobato pure naso e labbra, le palpebre, le sopracciglia chiare.

"Ce la fai a camminare?"

Quella domanda le rimbombò nella testa una, due, tre volte, tanto ovattata e baritona da procurarle una fitta lacerante alla tempia. La scosse per scacciare via il dolore. Pessima idea: in men che non si dica si trovò a fare i conti con una botta di nausea capace di farle vedere le stelle e un microscopico pezzo di avocado iniziò a farle su e giù per la gola.

Perché il suo corpo ci stava impiegando tutto quel tempo a riprendersi? Cosa c'era stato di diverso dal viaggio nel Litlaus? Perché non sentiva le gambe e le dita non volevano proprio saperne di muoversi?

non provarci è inutile non puoi

Edith rafforzò la presa, ma non la scosse. "Lór? Adesso ti prendo" e lasciò che il braccio le sgusciasse lungo il fianco, acchiappandola saldamente per la cinta. "Adesso ti prendo e ce ne andiamo, d'accordo? Ci penso io, non preoccuparti".

Bo'?

Prima che potesse sollevarla da terra, Lóreley si accasciò in avanti come un palloncino sgonfio. Non riusciva neanche a parlare.

"Mi dispiace, mi dispiace tanto" Edith tremò. "Ho dovuto farlo, mi dispiace. Te lo spiego dopo" le sussurrò, mortificata.

Lóreley piegò involontariamente la testa di lato intanto che l'abbandonava pure l'udito. Si sentiva come una bambola di pezza in balia delle onde. Si aspettò di essere sorpresa da un capogiro mentre Edith tentava di sollevarla per la seconda volta, ma ciò non accadde. Si accorse invece di trovarsi di nuovo supina, la guancia sinistra premuta contro il mattonato a scacchi e una spolverata di capelli davanti alla bocca. Il suo stesso respiro le ronzava nelle orecchie.

Che mi succede?

Non si sarebbe ripresa con tanta facilità, era una spietata certezza. Più i secondi passavano, più il suo corpo veniva divorato dall'immobilità, e il fattore scatenante di quel malessere non era stata l'illusione prodotta da Johanna. Un unico indizio alla sua portata, però, la spinse a riflettere: sull'inizio dell'incubo, Edith l'aveva toccata. Non aveva percepito le sue dita sulla guancia, ovvio, ciononostante ricordava benissimo della sensazione di paura che le aveva attraversato l'anima per una frazione di secondo. Che fosse...?

No, no, no. Non lo farebbe mai.

Lór roteò gli occhi, l'unico movimento volontario consentitole al momento, e li piantò al di là del bancone nero. Oltre a lei, Edith e Johanna, c'era un quarto coinvolto, presumibilmente l'artefice di quella catastrofe.

rimani concentrata... mia voce

Gli occhi cominciarono a lacrimarle e a stento strizzò le palpebre divenute, tutto d'un tratto, pesanti come macigni. Richard stava ora farneticando cose che lei non avrebbe mai saputo, la sua bocca che si chiudeva e spalancava in maniera convulsa, come se stesse vomitando fuori un rancore che si era tenuto dentro fino a farlo marcire. Edith gli rispondeva, gesticolando con una tenacia che non le aveva mai visto addosso. E Johanna, per ironia della sorte, continuava a patire le pene dell'inferno, proprio come lei.

Non ci capiva più niente, non capiva cosa avesse scatenato tutto quell'odio, non capiva quelle rivalità interne, non comprendeva il perché c'era finita in mezzo da un giorno all'altro. Voleva soltanto trovare la forza per rimettersi in piedi e scappare il più lontano possibile da quel posto. Mandare a puttane l'intero anno di formazione alla Fær Øer, tagliare pure i ponti con tutti quanti se necessario e nascondersi per il resto dei suoi giorni in Francia senza avere rimorsi.

Ma quello era un desiderio irrealizzabile. Troppo scontato, troppo normale. Troppo e basta. La verità era che seppur avesse infine scoperto dell'esistenza della Cerchia, non avrebbe potuto dire lo stesso delle migliaia di piccoli, malsani e pericolosi segreti che i suoi componenti si trascinavano dietro da anni, se non addirittura secoli. Scheletri che col passare del tempo si erano accumulati sul fondo di un armadio infinitamente piccolo e che avrebbero continuato a triplicarsi senza sosta, perché sarebbero comunque stati loro a volerlo, tutti loro. Non lei, non la gente comune e nemmeno il mondo intero.

Non riusciva più a compatirli.

Le venne da rimuginare sui suoi, di scheletri nell'armadio, intanto che attorno a lei si scatenava il caos.

Per quel poco che le era permesso, assistette a una serie di eventi apparentemente senza senso: vide le gambe di Werner che andavano rimpicciolendosi e il mattonato che scorreva sotto le sue cosce, come se qualcuno la stesse trascinando via di peso; poi fu la volta dello sguardo rabbuiato di Ber, del profilo spigoloso di Gaël a cui si aggiunse un braccio di Björn.

Lóreley volle chiudere gli occhi, ma l'immobilità l'aveva infettata per intero senza che se ne fosse resa conto. Allora si limitò a fissare il soffitto chiazzato dai bagliori lucenti, della stessa forma delle gemme che pendevano dal lampadario. Inaspettatamente li vide tremolare e annullarsi.

Prima che la paralisi potesse bloccarle anche i pensieri, un'ombra la sovrastò per intero e un sussurro la condusse tra le braccia di un sonno anomalo.

"Questa è l'unica cosa che farò per salvarti il culo, Dubois".

L'acqua scura dell'Ölfusá le circondava le caviglie nude. Il cielo sopra di lei era di una limpidezza unica, come mai lo aveva visto in vita sua, e l'erba, se solo avesse potuto accarezzarla e tastarne la consistenza, tanto rigogliosa da sembrare un tappeto sintetico.

Lóreley continuò a guardare avanti. Non riusciva a scorgere il ponte che congiungeva l'estremità di terra a quella opposta.

"Non è reale tutto questo, vero?"

No.

"Dovresti smetterla di ficcarmi in posti strani" borbottò sottovoce.

E tu dovresti piantarla di lamentarti ogni volta.

"Già" lei spostò il peso all'indietro e d'istinto puntellò i gomiti a terra per assumere una più posizione comoda. "Una volta tanto dici qualcosa di sensato. Facciamo progressi".

Ne abbiamo di progressi da fare.

"Non ne sono più tanto sicura".

Le incertezze fanno parte della vita, che tu lo voglia o no.

"Grazie per questa perla esistenziale".

Non c'è di che.

Lór si umettò le labbra.

"Bodvár?"

Mh?

"Cos'è successo al Black?" gli domandò, voltandosi. Lui era abbigliato alla sua solita maniera, cranio di cervo a celargli il viso e mantella consumata attorno al corpo morto. Chissà se c'era qualcosa di vagamente umano, lì sotto.

A tal proposito lo vide affondare le dita scheletriche in un ciuffo d'erba e afferrare un ciottolo smussato dalla corrente. Lo fece rimbalzare in aria due volte prima di scaraventarlo lontano.

Richard è morto.

"Morto?" ripeté Lóreley, più per aiutarsi a crederci che per metabolizzarlo.

Morto.

"Perché?"

Perché cosa?

"Perché non l'ho predetto? Perché non me l'hai fatto vedere?"

Non era necessario che tu lo impedissi.

Lóreley aprì la bocca. La richiuse. Poi la spalancò di nuovo. "Non..."

Non puoi salvare tutti, Lóreley. Ci sono giochi che la morte vince a priori. Richard aveva già patteggiato da tempo col Litlaus, prima ancora che tu arrivassi alla Fær Øer. Non avresti potuto opporti in ogni caso.

La voce di lei si confuse col gorgoglio dell'acqua tanto era flebile.

"Parli per esperienza personale?"

L'esperienza mi ha comunque portato a compiere degli errori, a cercare di salvare l'insalvabile, a giocare e rigiocare una partita che mai avrei vinto. Quello che vedi al tuo fianco è il risultato di quelle sciocchezze - Testa di cervo acciuffò un altro sasso, ma stavolta non lo lanciò. - Che tu ci creda o no, ho impiegato circa cento anni per comprendere il vero valore di una vita e quello di una morte. Entrambe le cose hanno la stessa importanza, ma non sono simili. I vivi sono vivi, i morti sono morti, questa è la prima e palese differenza.

Bo' si strofinò il pugno chiuso al petto. Poi lo allungò alla sua destra, riaprendolo proprio sotto il naso di Lóreley: il sasso non c'era più e al suo posto si era materializzata, come per magia, una stella di carta ritagliata frettolosamente. Scritta con un pennarello blu, la dedica nel mezzo recitava:

Grazie per aver brillato accanto a me.

"È stato difficile accettarlo. Sei stato tu a farmi dimenticare di Ían?"

Sì.

La ragazza ancora fissava la stella che le veniva offerta quando gli domandò su due piedi: "E Gaël? Perché me l'hai mostrato?"

La presenza abbandonò il dono tra l'erba.

C'è una cosa che entrambi dovete fare per me.

✖ Nel prossimo capitolo, "Cadere lontano dall'albero":

"Non lo so. Probabilmente sì. O forse no. In quegli anni non sapevo da che parte della bilancia pendere. Davo tutto per scontato per non sentirmi in colpa. Il bene col bene, il male col male, ce lo insegnano sin da bambini. È logico, no? Le sfumature non esistono. C'è solo il bianco e il nero e una linea netta che li divide. Ma col tempo mi sono ricreduta, c'è un motivo se il Litlaus non è a colori. Però ha tante sfaccettature, come questa realtà. Perché il Litlaus lo è a sua volta e si sa, ogni realtà è un mondo a sé stante e ha i suoi moti e le sue regole da rispettare: se qui ha più valore una vita di una morte, nel dillà ha più importanza il contrario. Bisogna rispettarlo. È necessario e la Cerchia continua ad accettarlo. Grazie a ciò non si è mai estinta".

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro