36. Cadere lontano dall'albero

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"Tutt'oggi ancora si specula su cosa sia successo al Black Pearl. Ricordo che la notizia fu in prima pagina per intere settimane e la tv nazionale organizzò salotti e salottini per fare chiarezza sulla vicenda – anche perché lo scandalo riportava i nomi di alcune importanti famiglie islandesi. Mi sembra pure superfluo dirle che le dichiarazioni che trapelarono durante le interviste non rispecchiavano per nulla la reale versione dei fatti. E credo che, arrivate a questo punto, anche lei possa facilmente intuire il perché".

"La Cerchia" affermò lapidaria Audrine. "Giusto?"

"Giustissimo. L'unico erede delle Seðlabanki Íslands era morto in dinamiche poco chiare e il reverendo Bersi Sigurðarsón era in stato di fermo a causa di pesanti accuse di pedofilia" Lór annuì tra sé e sé. Si passava e ripassava tra le dita uno scontrino tutto accartocciato, trovato per caso nella tasca della gonna. Tutte le diciture erano stampate in lingua islandese. "Queste accuse furono mosse proprio da Richard che le lasciò registrate all'interno del suo cellulare. Una di queste parlava di Brimir e del suo legame con Bersi. Caso volle che le registrazioni furono trovate e divulgate dal telegiornale locale, poiché esortavano le altre presunte vittime di violenze a farsi avanti e a denunciare i fatti. Nemmeno a dirlo, i capi d'accusa crebbero a vista d'occhio: sei in totale, tutti accertati in pochissimo tempo".

"Perché la Cerchia non ha mosso un dito per..." Audrine deglutì prima di continuare, come se volesse soffocare le sue stesse parole. Aveva cominciato a sudare freddo all'idea di ciò che stava per domandare. "Da quel che mi è sembrato di capire, la Cerchia deve essersi intromessa per manipolare la stessa divulgazione delle notizie – o almeno quelle più scomode. Il mio quesito è: perché non cercare di insabbiare la vicenda di Bersi? Perché non riabilitare la sua figura invece che permettere la diffusione delle registrazione? Perché non... prevenire lo scandalo?"

"E perché mai? La Cerchia non nutriva più alcun interesse, né per lui né per Olva Íseldursson. Il primo era un fanatico protestante, fermamente convinto che la grandezza della Cerchia fosse dovuta a lui e ai suoi antenati; il secondo un povero scemo che doveva la sua importanza all'interno della banca d'Islanda grazie ai sacrifici e ai favori di sua moglie Irina. Favori che la portarono a scommettere l'impossibile con il Litlaus, con gli Auditori soprattutto. Una di queste scommesse riguardava proprio Brimir e Richard: Irina accettò di precludersi l'opportunità di generare una prole di sesso femminile, scegliendo, per l'appunto, di avere due gemelli maschi. L'altra faccia del patto era la promessa del successo imprenditoriale di Olva, che nel giro di pochi anni divenne uno dei primi soci delle Seðlabanki Íslands. Una passeggiata, vero? Avrebbero comunque potuto sperare in delle nipoti future e mantenere una posizione di vantaggio sia all'interno che all'esterno della Cerchia. Ma sta di fatto che, morale della favola, il destino non è stato clemente con nessuno di loro. Forse hanno osato troppo, forse non hanno prestato attenzione ai termini per cui hanno patteggiato, forse sono stati tolti di mezzo di proposito. Non lo so. E non m'interessa, ad essere sincera". 

"In sintesi, gli infiltrati nella Chiesa d'Islanda avevano bisogno di un'altolà in piena regola, Olva e Irina pure".

"Esattamente. La signora Benóný è diretta e non ama adottare le così dette mezze misure: le decisioni che prende sono inequivocabili. Secondo lei, anche la vǫlva avrebbe scelto di agire alla stessa maniera pur di mantenere un certo controllo sulla situazione, ma non ne sono particolarmente sicura".

"Quindi si aggrappava –aggrappa?– a questa convinzione credendo di star facendo del bene".

La paziente annuì a testa bassa. Continuò a pizzicare i bordi della ricevuta anche quando il silenzio si solidificò a tal punto da rendere Audrine irrequieta: il temporale primaverile si era nel frattempo infiacchito ma non si poteva dire lo stesso della curiosità della dottoressa. 

"E Richard? Da come me ne hai parlato, insomma... è come se fin dall'inizio avesse dato per scontato che sarebbe morto. Lasciare delle tracce è tipico di un individuo che ha già scelto cosa ne sarà di lui".

"Richard è morto schiacciato dal lampadario di gemme, ma ci avrebbe lasciato le penne in ogni caso. Ricorda del suo dono? Quello di richiamare gli svangur dal Litlaus, dico. Ecco: la sua controindicazione aveva a che vedere proprio con il trasporto di quest'ultimi in questa realtà. Gli stavano divorando l'anima da mesi, ormai, tuttavia ne era consapevole. Proprio per questo ha lasciato la traccia audio e ha continuato a vendicarsi su Edith per colpire direttamente Bersi, nonostante sapesse di essere una pedina sacrificabile per i suoi stessi scopi. Ancora non mi spiego come abbia fatto a rimanere così lucido. Il dolore e la vendetta devono essere stati le sue ragioni di vita fino al due novembre".

"È stato un caso?"

"Cosa?"

"Che il lampadario cadesse e lo colpisse in pieno".

"Ovvio che no".

Audrine si mordicchiò l'interno guancia. "No?"

"Data la gravità della situazione, tutti spinsero Björn ad esprimere un desiderio e lui non indovinò che ore fossero. Il resto lo conosce già".

"E cosa chiese, di preciso?"

"Che Richard la smettesse. Beh, a rigor di logica ha smesso per davvero..."

"Però un'alternativa c'era".

Lór fermò le mani e la guardò. "Dipende".

"E da cosa può dipendere?"

"Da che tipo di alternativa intende lei". 

"Parlo di te. L'alternativa eri tu".

"No, parla delle mie predizioni, è diverso". 

 "Quindi c'è differenza?"

"Ovvio che ce n'è. Io predico il futuro, un futuro malleabile e gestibile, non leggo mica il passato. Ciò che è stato già fatto non deve essere modificato: c'è in gioco l'equilibrio del presente stesso. Richard aveva già scelto cosa ne sarebbe stato di lui, e l'aveva scelto tramite il Litlaus, affidandosi comunque alla sua dote. Questo non era e non è di mia competenza". 

Le bocca di Audrine si assottigliò rivelando un sorriso stranissimo, le labbra tirate alla stessa maniera di un elastico per capelli. "Ma se nella più remota delle ipotesi ci fosse stato un modo per salvarlo, tu... tu l'avresti fatto? Avresti rischiato?" le domandò un po' a stento. Nemmeno lei credeva più alle sue parole. Nemmeno lei sapeva più cosa credere. 

"Non lo so. Probabilmente sì. O forse no. In quegli anni non sapevo da che parte della bilancia pendere. Davo tutto per scontato per non sentirmi in colpa. Il bene col bene, il male col male, ce lo insegnano sin da bambini. È logico, no? Le sfumature non esistono. C'è solo il bianco e il nero e una linea netta che li divide. Ma col tempo mi sono ricreduta, c'è un motivo se il Litlaus non è a colori. Però ha tante sfaccettature, come questa realtà. Perché il Litlaus lo è a sua volta e si sa, ogni realtà è un mondo a sé stante e ha i suoi moti e le sue regole da rispettare: se qui ha più valore una vita di una morte, nel dillà ha più importanza il contrario. Bisogna rispettarlo. È necessario e la Cerchia continua ad accettarlo. Grazie a ciò non si è mai estinta".

"Perciò pensi che Richard non temesse di morire".

"Ovvio che no, lui è stato cresciuto tra due realtà speculari. Non mi meraviglio a pensare che si trovi meglio dov'è ora: almeno è di nuovo con Brimir e non soffre più" Lóreley accartocciò lo scontrino e lo poggiò accanto alla stilo. "Provi a pensarla in questi termini: è più facile lasciarsi cadere da un burrone quando si sa cosa c'è oltre il nero, glielo garantisco". 

L'invisibile abbraccio dell'acqua lasciò spazio alla morbidezza delle lenzuola e l'odore di disinfettante, secco e penetrante, la investì in pieno. Lór riaprì gli occhi a stento e ci vollero una manciata di secondi prima che potesse abituarsi all'oscurità che, come un bozzolo, l'avvolgeva per interno. L'unica fonte di luce presente nella stanza verde celadon si diramava verso destra e in alto, proprio nell'angolo: era scaturita dallo schermo di in cellulare ma, date le circostanze, non riuscì a distinguere il viso del suo possessore.

Un secondo sforzo e sollevò la mano, quella fasciata, e meccanicamente se la scosse davanti la faccia. Come volevasi dimostrare era tornata e tutto, in lei, sembrava funzionare. Più o meno.

L'immobilità vissuta le aveva lasciato addosso un pessimo ricordo nel giorno più bello della vita di sua madre – un ricordo che, tuttavia, era adesso confuso e privo di senso. Il suo cervello era ancora in forzato stand-by e quel che era accaduto del Black Pearl, dopo l'annullamento dell'illusione prodotta da Johanna, non pareva avere molto senso.

Sapeva di essere stata infettata da qualcosa e che quel qualcosa l'aveva quasi uccisa in senso materiale, arrivando poi a divorarle a piccoli morsi anche l'anima. Ad un passo dalla fine Testa di cervo l'aveva trascinata in una Selfoss parallela, a tratti selvaggia e spoglia di modernità, tanto bella da scatenarle una nostalgia nel cuore che mai si sarebbe sognata di provare.

In sintesi, l'aveva tratta in salvo... un'altra volta.

La ragazza sfarfallò le ciglia e involontariamente immaginò di star sfiorando quei fili d'erba in punta di dita e il buio che si riversava nella camera d'ospedale si confuse con le tenebre che aveva incastrate sotto le palpebre. Lo scrosciare dell'acqua le rimbombò nelle orecchie assieme alla voce di Bo' che, in maniera serena e consapevole, le annunciava la morte di Richard.

Chissà com'era morto, chissà perché non era stato necessario predirlo e se tuttora era prigioniero del Litlaus.

Nel dubbio, soffocò quegli interrogativi in uno sbadiglio e si addormentò di nuovo. Sognò ancora l'Ölfusá ai suoi piedi: l'acqua era però nera, il cielo di un triste grigio e l'erba si era inaspettatamente colorata di bianco. Di fianco a lei, Richard brillava - di sangue, di gemme di cristallo e follia.

Il ragazzo le parlò a lungo, ma Lóreley non capì; non subito, almeno, tuttavia lo ascoltò senza interromperlo mai.

Se c'era una cosa che aveva imparato era che i morti non si dimenticano. Vanno rispettati e sentiti fino all'ultimo. Amati, in un certo senso, e compatiti entro un certo limite. Perché la morte altro non era che un traguardo, un probabile nuovo inizio per tutti loro, lei compresa.

Allora stette in silenzio fino alla fine. E mentre quell'agglomerato di carne e rabbia le raccontava di come era morto schiacciato sotto il lampadario, dopo che Björn aveva espresso un desiderio e fallito nell'azzeccare l'ora, Lór comprese l'inevitabile.

Il futuro era uno solo, le probabilità di riuscire a cambiarlo, invece, sfioravano l'infinito.

Lei, a confronto, non era niente, ed era giusto continuare ad esserlo. 

"Centoquarantatré corone di multa per dei maledetti libri, che gran stronzata".

Lór continuò a guardarsi i piedi, reprimendo un sospiro, e Anaïs l'affiancò con un brutto grugno stampato in faccia. Un gruppo di ragazze del secondo anno quasi finì addosso ad entrambe, tanto erano impegnate a confabulare sullo scandalo del momento. Distrattamente le ascoltò spettegolare sulla notizia da prima pagina che infestava il web e i giornali della capitale: era tornata alla Fær Øer da meno di sei ore e già desiderava darsela a gambe levate.

"Le multe non sono rimborsabili, vero?" borbottò ancora Anaïs, inviperita.

"Ti ho già detto che mi dispiace. Appena tornerò a lavoro te li ridarò con gli interessi" Lóreley, con uno slancio fiacco, si staccò dalla colonna di legno scuro e cominciò a camminarle affianco. Non aveva la minima intenzione di litigare con sua madre nell'atrio dell'università, non ne aveva le forze. Forse non ce le aveva mai avute, oppure non riusciva neanche più a sopportarla. In realtà non tollerava manco più se stessa.

"No, Lóreley, qui si parla di responsabilità e tu, sappilo, non mi stai un'impressione positiva. Si può sapere cosa ti sta passando per la testa? Quasi non ti riconosco più" continuò Anaïs, stizzita, e il battere dei tacchi a spillo sul mattonato lucido crebbe di passo in passo. Se avesse continuato a pestare il pavimento con tutta quella furia avrebbe di sicuro rotto qualche mattonella prima di arrivare in lavanderia. "Da quando sei qui dentro non fai altro che sbuffare. Non parli più con me. Con quello che è successo al Black, poi..."

Lór incassò il capo nelle spalle e la voce petulante non la raggiunse più: la tattica del annuisco di tanto in tanto per non farla incazzare più del dovuto entrò ufficialmente in azione. Lasciò vagare gli occhi per tutta l'ampiezza della sala, fredda e grigia, sentendosi più sola che mai, come uno scarabocchio a pié di pagina.

E pensare che appena tre giorni prima aveva trovato la forza di infilarsi una gonna a tubino e non deludere più le aspettative di nessuno, ma sfortunatamente era durata poco. Come sempre.

Ancora faceva col capo quando Anaïs le colpì la spalla con la mano. Stava gesticolando come una forsennata e ogni quattro parole masticava il nome Marcel. Allora Lór si fermò, indirizzò nuovamente la sua attenzione su di lei, riempì il petto d'aria e coraggio e...

... E niente. Non disse nulla. Rimase a bocca aperta, con quel tembile vaffanculo rimasto in bilico sulla punta della lingua, Anaïs pure.

Edith salutò entrambe con un sorriso timido. Aveva i capelli sciolti e il viso pallidissimo.

"Posso parlarti un attimo?" disse semplicemente, in un mormorio strozzato sulla fine. La fiumana di persone che si dilatava attorno alle tre sembrava non essersi accorta della sua presenza. Poco male: ora che il reverendo Bersi era finito nell'occhio del ciclone, passare inosservata doveva essere cosa gradita. Gradita e disperata.

Le gambe di Lóreley si mossero da sole, ma non parlò. L'idea di abbracciarla non le sfiorò la mente neanche per un momento.

Perché mi sento così... vuota?

Edith, dal canto suo, si gettò un'occhiata alle spalle e prese a bisticciare con un boccolo rossiccio per mantenersi calma. Non la guardava.

"Come stai?"

"Bene". 

La bionda si schiarì la voce l'attimo seguente.

Sforzati un poco, almeno.

"Tu?"

Edith sbatté le palpebre più e più volte, come se avesse una pagliuzza nell'occhio. "Bene".

"Di cosa volevi parlarmi?"

"Di..." Edith si morsicò l'interno guancia. "Di quello che è successo al Black. Ti chiedo scusa".

"Scusa per cosa?"

"Per la fattura".

Lór, d'istinto, cercò Anaïs, distante il giusto da impedirle di ascoltare l'inascoltabile. Batteva ancora il tacco a terra, ma i battiti -e l'incazzatura- si erano inaspettatamente affievoliti.

"La fattura?"

"La fattura d'immobilità. Te l'ho passata io. Cioè, qualcuno l'aveva appiccicata addosso a me, ma io ho fatto in modo che attecchisse su di te" Edith glielo disse con una velocità tale da mangiarsi qualche sillaba. "Fa parte del mio dono, ma non lo sanno in molti. Perciò scusami. Avevo paura e l'ho fatto senza pensarci".

Lóreley sollevò le sopracciglia rade.

"Davvero?"

"Davvero. Però Johanna te l'ha tolta quasi subito. Prima che fosse troppo tardi, dico".

"Quindi ho rischiato di morire".

"Più o meno". 

Onesto, si disse Lór, onestissimo. Per giorni si era lamentata del fatto che a tutti alla Fær Øer piacesse fare colazione con yogurt e bugie, e ora che le avevano sbattuto in faccia un minimo di cruda verità si sentiva una merda. Non per la schiettezza racchiusa in quelle parole, certo, tutti dobbiamo indiscutibilmente schiattare prima o poi, ma per altro: perché Edith aveva avuto paura e non ci aveva pensato due volte a metterla in pericolo. 

Anche lei ne aveva avuta una volta fuori dall'ascensore, anche lei aveva sfidato la sua sanità mentale pur di dimostrare a Johanna cosa valeva, anche lei aveva rischiato. Tuttavia Edith era fatta di un'altra pasta, di un'altra storia, di un altro vissuto. 

Edith non era Lóreley Dubois. Johanna non era Lóreley Dubois. Ber non era Lóreley Dubois. Testa di cervo, per sua sfortuna, sì.

Lór si accarezzò i denti con la lingua.

"Okay. D'accordo".

Edith tirò via un capello rosso che le era rimasto impicciato nel colletto. Poi boccheggiò un paio di volte, come se volesse ragionare meglio su ciò che stava per dire, ma Lóreley glielo impedì. 

Di' qualcosa, idiota.

"Mi dispiace per ciò che starai passando. Per la storia di tuo padre, intendo". 

Edith s'intrecciò le mani dietro la schiena. Guardò alla sua sinistra, divorando con una lunga occhiata la bacheca di sughero ricolma di fogli, foglietti e volantini. Giornali. 

Il primo accanto alla sua testa riportava per iscritto: 

Tre giorni dopo la tragedia consumatasi al Black Pearl Apartament, quattro giovani si fanno avanti per testimoniare contro il pastore di Reykjavík: Noi siamo con Richard. Ci ha reso giustizia - le dichiarazioni scioccanti delle presunte vittime del reverendo.

"A me non dispiace... ce lo siamo meritato. Credo che io l'abbia meritato" mormorò la rossa, ridendo appena. Quella conversazione aveva assunto delle sfumature decisamente surreali e disumane. "Richard ha avuto il coraggio di fare quello che avrei dovuto fare io. Ma non l'ho fatto. Non l'ho fatto perché non volevo credere a ciò che Bersi ha fatto negli anni, è pur sempre mio padre".

La vide indietreggiare di un passo, e di un altro ancora: adesso Edith sorrideva tra le lacrime. 

"A volte mi chiedo se sia vero che la mela non cade mai troppo lontano dall'albero. Perché a me non dispiace affatto della sorte toccata a Richard" sospirò infine. 

Lóreley la guardò andare via con uno strano sapore ad impregnarle la bocca. Si voltò per intero, fissando Anaïs. L'altra ricambiò lo sguardo senza dire una parola. 

"Hai ragione, mamma. Questo posto non fa proprio per me". 

Fine prima parte

Dopo una settimana passata a litigare con Wattpad, finalmente ci siamo! Che sollievo riuscire a pubblicare quest'ultima parte, sul serio. Ma il meglio deve ancora venire, perciò stay tuned!

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