38. Zenzero e limone

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Abbandonò il borsone di nuoto a terra e borbottò un sì, la tisana va bene zenzero e limone senza zucchero grazie tante per zittire nonna Danielle che le parlava –strillava– dal piano di sotto. Appena udì il classico grugnito di risposta, Lóreley avanzò con passo incerto mentre si torturava la fasciatura sbilenca, nera di grafite all'altezza del palmo, e si fermò nel centro di quella che era stata la cameretta di Anaïs per ben dodici anni. Tutto lì dentro sapeva di adolescenza turbolenta condita con un pizzico di ribellione.

Le pareti color crema erano ricoperte di poster dei Depeche Mode, intervallati da ritagli di giornale e adesivi di Cindy Lauper; sotto la scrivania d'epoca erano stati accatastati una manciata di vinili di dubbio gusto e un'anta dell'armadio, invece, era interamente tappezzata di fotografie scattate da una polaroid. Una di queste riportava sul bordo bianco una dedica scritta in danese con un pennarello indelebile.

Lór si avvicinò per guardare meglio e in un batter d'occhio riconobbe il viso tondo di sua madre. Nello scatto aveva i capelli corti, cortissimi come spesso le aveva vietato di tagliarli, un enorme brufolo sul mento e sorrideva come una bambina. Stringeva tra le braccia una brunetta piccina piccina ed entrambe indossavano un paio di shorts con calzettoni annessi. Sullo sfondo, quella che sembrava essere la baia della capitale, grigia e ventosa. Come sempre.

"Lì aveva la tua età" la voce di Danielle le arrivò alle orecchie che era quasi un sussurro. Nella mano destra stringeva una tazza decorata col manto di una mucca – presumibilmente la sua tisana zenzero e limone.

La signora si accomodò pesantemente sul letto e questo cigolò un po'. Lór le si sedette a fianco subito dopo.

"Straordinario come la genetica non ne sbagli una".

"Non sei stronza quanto lo è lei".

"Parlo dei brufoli" sospirò la più piccola e, affondando il capo nelle spalle, afferrò il bibitone fumante che le veniva offerto. "Ogni volta che entro qui dentro mi fa uno strano effetto".

"Avrei voluto buttare questa roba anni fa ma lei me lo ha vietato. Un giorno di questi impacchetto tutto e via... anche perché mi deve un servizio di piatti d'epoca".

Lóreley immerse la faccia nel vapore prima di ricordare alla povera signora un lutto di proporzioni mastodontiche. "Parli del servizio che ha spaccato quel famoso Natale di sei anni fa?" domandò ironicamente.

"Parlo del mio servizio di piatti d'epoca che ha spaccato quel famoso Natale di sei anni fa. C'è mancato poco che la mettessi sotto col Cherokee. Quel giorno Anaïs ha rischiato".

"A proposito di rischi: ti ha detto se torna per cena?"

Danielle soffiò sulla sua tisana per raffreddarla. "Mangerete fuori. Non chiedermi il perché".

Lóreley bevve in religioso silenzio, Danielle anche. La brodaglia che tracannò pizzicava da fare schifo ed ebbe il potere di ricordarle quanto tristi sarebbero state quelle due settimane di permanenza a casa Østergaard.

Ma che alternative aveva? Nessuna, ovviamente. Lei non aveva mai avuto delle alternative a cui appigliarsi, neanche a pensarci. Le sembrò quindi di aver fatto un disastroso salto nel tempo e che fosse involontariamente finita in un passato che da sempre faticava ad accettare: quello in cui Anaïs veniva a svegliarla nel cuore della notte, le infilava quelle poche cose nello zainetto fucsia e la spediva dai vicini fino a data da destinarsi. Il tutto per monitorare un vulcano di merda e alimentare il sogno di un progetto che, fino a qualche giorno prima, aveva visto realizzarsi per un pelo. Per un pelo, sì: il ricevimento c'era stato, il comitato stampa pure, ma nessuno aveva previsto che ci potesse scappare anche il morto... e ai giornalisti piaceva spettegolare su quello, mica sulla futura pianificazione di un rimboschimento in un'area finalmente divenuta vivibile e fiore all'occhiello dell'Islanda. Macché.

"Nonna" mormorò d'improvviso Lór e tornò a guardare la fotografia fulcro del suo malessere. "Secondo te, perché la mamma mi ha tenuta?"

Un pugno di rughe si rapprese sul volto dell'anziana. "Tenuta – tenuta, nel senso..."

"Perché ha continuato la gravidanza?"

Danielle scosse la testa una, due, tre, quattro volte, come se al suo interno ci fosse un fastidioso brusio da scacciare via ad ogni costo. L'aria divenne pesante, gli animi di entrambe si annullarono all'unisono. Non era una domanda facile, quella, non era una domanda da fare e basta. Però Lór se l'era sentita rimbombare fin dentro le viscere, insistente e inopportuna, soprattutto adesso che la sua vita aveva inaspettatamente preso una piega stupida, occulta, terrificante e senza senso. Soprattutto ora che aveva visto l'altra parte del mondo, più nello specifico il Litlaus, e non sapeva più cosa pensare. Non sapeva più per cosa o per chi era lì.

Ancora non riusciva a spiegarsi perché era toccato a lei.

Danielle, che era ancora in pigiama, poggiò la tazza mezza vuota sul comodino. Poi si strofinò le mani ingioiellate sulle cosce per riprendere possesso di sé.

"Quando sei nata, Lóreley, eri piccola come una nocciolina e non hai pianto. In sala d'attesa c'era solo tuo zio Bjarni ad aspettarti, io ero dall'altra parte dell'ospedale a infilare e a sfilare cateteri. Per mia scelta, ovviamente" cominciò. "Tua madre non me l'ha mai perdonato perché era mio dovere esservi accanto. E ha ragione, ha sempre avuto ragione. Però, in un certo senso, ci sono stata: ho combattuto un'intera mesata per ottenere solo turni serali, perché me lo sentivo che saresti nata proprio di notte. Allora, quando ho saputo che eri lì, che eri nata, sono subito scappata da te. E ti ho guardata e-" Danielle le afferrò la mano, quella martoriata dal taglierino. La voce, di tanto in tanto, tremolava appena, come la fiamma di una candela sul punto di spegnersi. "E anche tu lo hai fatto. Quando è successo io ho scordato tutto, tutto quanto. Ogni cosa. Ho dimenticato tutta la rabbia che avevo provato nei confronti di tuo padre e di tua madre, ho dimenticato perché ti avessi odiata così tanto prima che venissi al mondo. È bastato uno sguardo solamente e non ci ho capito più niente. Ormai c'eri" ribadì con sicurezza e si lasciò sfuggire un sospiro, uno di quelli liberatori che ti fanno sentire leggera come un palloncino. "Ormai eri lì e fremevo all'idea di vederti diventare grande. Non me ne pento più. Agli Østergaard serviva una come te".

Lóreley, nel profondo, intuì ciò che la nonna aveva lasciato intendere, ma c'era una parte di lei grande quanto una scheggia di vetro che continuava a scalfirle l'animo. Pizzicava, dava un prurito da matti, e grattarsi per allietare il fastidio avrebbe significato accettare una palese verità: con Marcel condivideva il sangue, non un legame. All'apparenza non c'era mai stato un rapporto padre-figlia vero e proprio, e ciò era innegabile.  

A volte aveva la sensazione di esserci capitata per sbaglio, in quel presente. E, croce sul cuore, poteva considerarsi un errore a tutti gli effetti: la sua dote non era nelle corde dei vivi. Sentiva di star vivendo perché qualcuno che aveva giocato a fare Dio col mondo lo aveva voluto, e non si era di certo trattato dei suoi genitori. Barando di proposito durante una partita a carte contro il volere cosmico, quest'ultimo aveva chiamato in causa anche lei. Ma perché?

"Lór?"

"Umh?"

"Non sto dicendo che non ti voglio bene". 

"Non l'ho mai pensato". 

"E non ho neanche detto che tua madre non te ne voglia e lo stesso vale per tuo padre. Morirebbero per te e lo sai".

La ragazza assaporò un altro sorso di tisana per nascondere il piccolo spasmo che le increspò la bocca: non voleva piangere. Non doveva farlo.

Fin da piccola ho sempre sperato in uno strambo triangolo che comprendesse mia madre, mio padre e la compagna del suddetto. Per me era cosa normale pensarla così. Ma Anaïs merita di meglio e Marcel non lo è. Non lo è per lei. In realtà non lo è mai stato e va bene così. Hanno fatto una stronzata che inevitabilmente ha chiamato in causa anche me, ma ho smesso di fargliene una colpa da un po'. Come hai appena detto, c'est la vie. Questo è il pensiero più logico, al momento.

Danielle tuttora le carezzava la mano e il tremolio che attraversò il corpo di Lóreley la convinse ad addolcire i toni ancor di più. 

"So che è difficile. Nessuno dovrebbe essere costretto a compiere una scelta per stare bene, ma a volte è necessario. Tu però puoi essere più furba di tutto questo: ama tuo padre e ama tua madre alla stessa maniera, nonostante la lontananza dell'uno e dell'altra. Il vostro è un legame che non si spezzerà mai".

"Ha già cominciato a sfaldarsi".

"Togliti dalla testa che tua madre non-"

Lór tornò in piedi con uno scatto e la tazza le scivolò di mano, finendo su un tappeto di pelliccia ecologica. 

"Lei è stata egoista e lui un idiota. Perché continui a proteggerli nonostante tu stessa mi abbia appena detto di non avermi accettata sin dall'inizio? Cazzo, è palese e lo è anche la realtà dei fatti: la mamma non vuole che io vada in Francia, non vuole che io costruisca un vero rapporto con Marcel perché, udite udite, lo odia. L'ha odiato e continuerà a farlo fino alla fine dei tempi e vorrebbe che cominciassi a farlo anche io. A volte mi chiedo se non provi lo stesso pure nei miei confronti, perché non riesco a spiegarmi... non riesco a spiegarmi il motivo..."

La figura di Anaïs faceva adesso capolino a un angolo della porta. Aveva la faccia tirata in un'espressione così criptica che Lór si domandò se l'avesse rotta o meno. In tutti i maledetti sensi. Però non demorse. Dilatò le narici, soffiò forte per tenere a bada tutta quella rabbia incontrollata, e a mezza bocca sillabò ciò che si era tenuta dentro per vent'anni: "Non riesco a spiegarmi il motivo di tanta superficialità". 

Le rimanenti due non fecero un fiato. Non si scomposero nemmeno quando Lór si precipitò al piano di sotto, tirò via il parka dall'appendiabiti per poi fiondarsi fuori da quella dannata casa, ignorando pure il povero Bjarni di ritorno dal supermercato. 

Non seppe per quanto camminò. Il tempo, ora come ora, non aveva più alcuna valenza per lei. Però era vero, verissimo: era cambiata e Anaïs ci aveva visto giusto. Ma come avrebbe potuto spiegarle che l'origine di quel cambiamento così drastico era la consapevolezza di poter parlare a tu per tu con la morte? Sua madre non disponeva degli strumenti necessari per prestarle ascolto. Per capire, per comprenderla a pieno. E a rigor di logica neanche lei ancora riusciva a farlo, neppure ora che aveva realizzato quanto Bo' fosse vero e artefice di una simbiosi così malata. Per cui, che senso avrebbe avuto continuare a tenere a bada tutto quel dolore? Perché si era sempre impegnata a ignorarlo, ma mai ad accettare la sua esistenza?

Perché tutto quanto deve essere un casino?

Quando fu sicura di essersi allontanata abbastanza, Lóreley si rannicchiò su una panchina isolata, nei pressi del World Class. L'aria gelida le si posò addosso quasi subito, contrastando quel poco calore che era in grado di emanare. Aveva la bocca tuttora impregnata dell'acre sapore dello zenzero. 

Per scacciarlo via respirò a pieni polmoni, gettando la testa all'indietro. 

"Non me ne frega un cazzo" mormorò. 

Strizzò le palpebre per non darla vinta alle lacrime e un grido le crebbe in gola. 

"Non me ne frega un cazzo!"

"Grazie per averlo fatto sapere al mondo intero, Dubois". 

Lór spalancò gli occhi, ma si rilassò. 

"Qualcuno deve averti mandato a punirmi, non c'è altra spiegazione" mormorò con spietata schiettezza. 

"Ah... forse. O potrebbe anche darsi che si sia trattato solo di un caso".

Lóreley sollevò la testa e Gaël fece spallucce.

"Stai facendo la pazza davanti al World Class di giovedì pomeriggio. E io, guarda un po', sto aspettando che mia sorella finisca gli allenamenti di pattinaggio. Proprio gli allenamenti del giovedì pomeriggio". 

Che culo. 

✖ Nel prossimo capitolo, "Il diciannove ottobre":

Lóreley lo fissò un attimo con la coda dell'occhio. Aveva il naso rosso e i capelli spettinati, più corti dal ricevimento al Black Pearl. Il taglio sulla tempia, quel fantastico souvenir che si era procurato facendo dell'arrangiatissimo bungee-jumping dagli scogli della Baia, era adesso un lontanissimo ricordo, ridotto a una linea sottile e pallida. Proprio sotto la cicatrice spiccava un neo. Non ci aveva mai fatto caso. Anche perché, l'ultima volta che entrambi avevano avuto la sfortuna di stare così vicini l'uno all'altra, lei aveva sperimentato sulla sua pelle un'ubriacatura memorabile... e notare una piccolezza simile sarebbe stato troppo complicato per il suo cervello. 

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