*43. Avere tutto e niente (pt.2)

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Fruscio di lenzuola che vengono tirate via. Odore di shampoo, bagnoschiuma. Fiori di lillà e menta, per l'esattezza. Mani che mi toccano le braccia, che arrivano ad avvolgermi le spalle con dolcezza, che mi aiutano a tornare dritta. Ho sonno, davvero tanto sonno, non ce la faccio da sola. Apro un occhio, strofino quello ancora chiuso e a malapena trattengo uno sbadiglio: la mamma, che è davanti a me, ha i capelli attorcigliati nell'asciugamano e indossa la tuta blu. Quella tuta blu.

L'abat-jour sul comodino è accesa, la luce gialla le rimbalza in faccia e le accentua le occhiaie. Apre e richiude la bocca di continuo, mentre litiga con le mie scarpe da ginnastica. Le ho tolte di nuovo senza slacciarle e il fiocco si è trasformato in un nodo epocale. Poco importa: lei riesce sempre ad aggiustare tutto, ogni cosa, anche se ha poca pazienza e borbotta di continuo.

Mi stropiccio la faccia col dorso della mano e Anaïs mi dà una veloce carezza sulla guancia come a invogliarmi a tornare vigile. Cosciente. In cuor mio so cosa sta succedendo, certo che lo so, la mamma mi accarezza in quel determinato modo solo quando sta per...

"Scegli un gioco da portare" dice e m'infila la scarpa destra, poi la sinistra. La stanchezza le vibra nella voce, gliela spegne. "Prendi anche Coco. Non lascio le chiavi alla signora Edda, l'elettricista è venuto la settimana scorsa. Ricordi, sì? Perciò portalo".

Non mi guarda. Un'altra carezza, stavolta sotto il mento, forse per costringermi ad alzare la testa. Io resto rigida, congelata nella carne e nell'anima. Lei non reagisce, ha capito che sto facendo di tutto pur di non lamentarmi. Infatti finisce di allacciare le scarpe e si alza, forse un po' troppo velocemente, e l'asciugamano le si apre sulla testa. Casca a terra, ma non le importa. Si avvicina al cassettone, i miei vestiti di ricambio sono già stati preparati.

Quando afferra pure lo zainetto fucsia e in maniera sistematica ci ficca dentro tutto il necessario, sposto lo sguardo su Coco pur di non piangere.

Non voglio che vada via. Non di nuovo.

Voglio che tu rimanga con me, ecco cosa voglio dirle, strillarle con tutta l'aria che ho nel petto. Ma alla mamma non piacciono i capricci. Dice che le bambine capricciose non vanno da nessuna parte e che non si realizzano mai.

Ma io lo desidero davvero. Desidero piangere e gridarle di non andare.

Voglio che tu ci sia. Sempre.

Ma Anaïs non c'è.

Mai.

Il tempo si accartoccia su se stesso, io mi accartoccio su me stessa. Mi lascio trascinare fuori casa una volta che tutti i preparativi sono terminati, Coco stretto al petto e un fastidioso grugno stampato in faccia.

La casa della signora Edda è a un passo dalla mia. Difatti, ci basta attraversare la strada deserta e in un attimo siamo entrambe sul pianerottolo ricoperto di ghirlande e festoni. Giusto ieri è stato il compleanno di Jana.

La signora Edda è sulla soglia che ci guarda. È ancora in pigiama e sulla sua faccia è ben visibile il segno del cuscino. Mi sorride appena sono accanto a lei.

Anaïs si strofina i capelli bagnati e lascia vagare lo sguardo sul legno macchiato del pianerottolo. Lo fa sempre quando è in difficoltà. Guardare altrove, intendo. Si concentra su particolari stupidissimi, passabili e insignificanti, e strascica una valanga di scusanti che, francamente parlando, non servono. Però si giustifica. E chiede scusa, scusa e ancora scusa... anche se non ce n'è bisogno.

"Per stanotte lascia che dorma con la traversina".

La signora Edda solleva un sopracciglio, stupita. "Ne hai parlato col pediatra?"

"Sì, mi ha consigliato una consulenza più specifica" le spiega Anais. "Dalla settimana prossima cominciamo le sedute".

L'imbarazzo mi fa ardere le guance. Non è colpa mia se faccio ancora la pipì a letto.

L'altra annuisce con vigore. "È un'ottima cosa. Vedrai, saprà aiutarla. Anche Ían ci è passato, ma nel giro di un paio di mesi abbiamo risolto il problema".

Se tu la smettessi di andare via non starei sempre così ansiosa, mamma.

"Ti ringrazio per la disponibilità. Ti chiamo appena sarò al container".

"Non preoccuparti. La danza ce l'ha questo giovedì, giusto?"

Anaïs annuisce. Ciò che succede dopo è un tripudio di raccomandazioni che so a memoria, un abbraccio velocissimo e un bacio stampato sulla fronte. Un attimo più tardi sono coricata in un letto che non è mio, in una stanza che non è la mia, in una casa che ho imparato, però, a farmi piacere.

Ían dorme al mio fianco. Mi dà le spalle e respira a bocca aperta. Senza far troppo rumore, sfilo la traversa e la nascondo sotto il cuscino. Infine mi accuccio su un fianco e Coco rotola rovinosamente a terra.

Nel buio, rischiarato da un bagliore blu, mi appiglio all'unica cosa che sento veramente di possedere. Che è sempre lì, ovunque io vada, che è e basta.

Le labbra si spezzano in una smorfia pietosa e gli occhi si riempiono di lacrime.

"Perché va sempre via" mi lagno in un sussurro.

Bo' non risponde, però mi guarda. Nelle sue orbite vuote ci leggo tanto, più di quanto una mocciosa di sette anni può umanamente arrivare a comprendere, e l'imminente pianto si annulla sul nascere.

Allora mi addormento in quel modo, senza aspettare una risposta. Quella che, in particolare, non arriva mai.

La mattina successiva, Coco è di nuovo sotto il mio braccio e le lenzuola sono asciutte.

La mamma sarebbe contenta di sapere che non mi sono pisciata addosso perché lei non c'è.

La mamma sarebbe contenta di...

Aspetta.

Lór serrò le mani attorno al peluche; un pappagallo giallo, blu e rosso con due bottoni al posto degli occhi, ma non riusciva a percepire la morbidezza del tessuto sintetico. Attorno a lei, adesso, un velo d'oscurità ad avvolgerla come un sudario steso su una salma.

Io non ce l'ho mai avuto un pupazzo di nome Coco, pensò e, d'istinto, si guardò i piedi.

Io ho imparato ad allacciarmi le scarpe quando avevo sei anni. Certo, sì. Avevo sei anni.

Io non l'ho mai imparato.

Lóreley alzò la testa e un cattivo presentimento le si fece largo nel petto, senza però fare rumore. Davanti a lei una figura tremolava come un fuscello al vento, i contorni sbiaditi e le forme rese incerte dalla morte stessa. Le dava le spalle, come si danno le spalle a chi non merita le giuste attenzioni.

Io ho sempre praticato nuoto.

Io danza. Danza classica.

"Ho fatto nuoto per dodici anni" scandì Lór, stavolta a voce alta.

Ho fatto danza classica per tredici anni.

Lór deglutì, o almeno le sembrò di starlo facendo. Chissà come stava reagendo il suo corpo dall'altra parte.

Chissà perché era lì.

Chissà dov'era quel ...

"Questa sei tu, non sono io".

E chi sei tu?

"Io sono Lóreley Dubois".

Io sono sempre stata Lóreley Dubois...

Il frammento di quella che un tempo era stata una persona viva tremò ancora alla stessa maniera di una corda di violino. Lentamente e in punta di piedi, come se stesse danzando, si voltò per intero, e la cascata di capelli vermigli -resi appiccicosi da chissà che cosa- le scivolò lungo la schiena.

In un batter d'occhio, i bordi della presenza si stabilizzarono facendole riacquistare la giusta materialità: era una donna. Una sua coetanea, con molta probabilità, o forse di qualche anno più grande, era difficile a dirsi. Dal monte di venere alle caviglie, dagli avambracci fino ad arrivare ai polsi, spirali di terra raggrumata ed ematomi neri scurivano la pelle lattea. Il collo, invece, era circondato da una linea grossolana, di un rosso così vivido da fare male agli occhi.

Sembrava che, da un momento all'altro, uno squarcio potesse aprirle in due la trachea...

Lo spettro la fissò a lungo con quei suoi maledettissimi occhi verdi. Poi si portò le mani sulle guance e tirò, tirò forte verso il basso, lasciando che le unghie imprimessero dei vistosi graffi. Mentre si sfregiava da sola, arrivando pian piano a grattarsi pure il collo, Lóreley non poté fare a meno di rafforzare la presa attorno al peluche.

Io so di essere stata qualcuno, ma non lo ricordo - si lamentò annaspando, le iridi che schizzavano in tutte le direzioni possibili come impazzite. - Io non me lo ricordo. Io non me lo ricordo. Io ricordo di essere stata una persona, io ricordo di aver avuto Coco, ma non ricordo perché... perché...

Lóreley indietreggiò fino a compiere cinque passi, resi incerti dalla paura, intanto che sul collo della ragazza cominciavano a susseguirsi, una dopo l'altra, grosse gocce rosse.

Io non ricordo perché si sono presi il mio fegato... perché mi hanno... mi hanno spezzato le braccia, le gambe, mi hanno cavato... mi hanno cavato gli occhi e... fa male... perché anche io sono stata una...

una...

una persona e... e io avevo tutto, avevo tutto quanto, avevo Coco, avevo la... danza... avevo una madre e un padre, avevo... avevo tutto e adesso non ho più niente...

La cantilena divenne inarrestabile, tanto forte e sentita che Lór dovette strizzare gli occhi e scuotere la testa pur di non impazzire lì sul posto.

Troppo dolore. Troppo sangue. Troppo disumano.

Scaricò la rabbia in un grido soltanto e la voce si annientò all'istante. Quando schiuse le palpebre, era di nuovo sola. Allora, le pupille scandagliarono il buio a una velocità impressionante, ma la presenza sembrava esser svanita nel nulla, il suo stesso nulla. Per un momento pensò di essere davvero al sicuro. Davvero salva.

Davvero se stessa.

Perciò, quel che ne seguì, non fu niente di calcolato oppure di voluto. Semplicemente cercò gli occhi a forma di bottone di Coco con i suoi e raggelò sul posto.

Lei la guardò dal basso, le dita di Lór premute attorno alle sue guance e agli zigomi.

Stava sorreggendo la sua testa. Solo quella.

Dove hanno messo la mia testa?

Lo shock impedì a Lóreley di gridare.

✖ Nel prossimo capitolo, "Tu sai chi sono io?":

Lór chiuse gli occhi, colta da un improvviso malessere interiore, eppure continuò la sua lista senza senso apparente. "Da bambina ho avuto un peluche di nome Coco, un pappagallo tropicale con i bottoni al posto degli occhi. Scendo sempre dal lato destro del letto, rido alle freddure, ho fatto danza per tredici anni, ho gli occhi verdi e..."
Nessuna risposta le giunse alle orecchie e questo la demoralizzò ulteriormente. Ora che ci faceva caso, stava parlando di sé come se fosse lei la presenza indesiderata.
"Mi piace tantissimo una canzone dei No Doubt".

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