45. Sbagliatissimi e terrorizzati

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D'un tratto era calato il gelo e poco c'entrava la manutenzione programmata dell'impianto di riscaldamento. Come se fossero stati colti da un'inaspettata tempesta di neve nel bel mezzo dell'atrio, entrambi restarono immobili, immobilissimi –lei ancora accasciata sul fianco e lui con mezzo volto coperto da una mano, quel giorno senza anelli–, il tempo necessario per tornare a coordinare azioni involontarie per natura, tipo respirare e pensare senza cercare di controllare né l'una né l'altra cosa.

Tacquero il giusto, insomma. Il giusto per carburare, prendere finalmente atto e sbloccare quella situazione inverosimile, grottesca e tragicomica.

Poi la mano di Gaël scivolò verso il basso, rivelando due pupille piccolissime circondate da un oceano ghiacciato. Lór rilassò le sopracciglia, tenute aggrottate fino a quel momento, e il suo stomaco ebbe un forte sussulto. Niente di ricollegabile alla mancata colazione: il bruciore che adesso le stritolava le budella e inaspriva la bocca fu causa diretta di quegli occhi fissi su di lei.

Se c'era una cosa che aveva imparato a sue spese, scontrandolo in tante di quelle situazioni improbabili da aver perso il conto, era che Gaël non ci provava nemmeno a fingere di guardarsi intorno. Nel senso: tutto ciò che aveva la sfortuna di rientrare nel suo campo visivo non veniva percepito per ciò che era, e osservato.

Lui non osservava mai, come se fosse per metà bloccato in un altro piano e che la realtà circostante non fosse abbastanza, o quantomeno all'altezza delle sue aspettative. Le venne naturale paragonarlo a un pesce rosso sbattuto in una boccia minuscola: la routine che gli si agitava intorno h24 era più paragonabile a uno scenario inconsistente spiato dall'altra parte del vetro. Di viverlo alla stessa maniera di qualunque essere umano pareva non interessarlo veramente, il che aveva un che di malinconico e terrificante.

I pesci rossi hanno la memoria corta e percorrono all'infinito lo stesso circolo, senza mai arrivare a destinazione, la loro destinazione. Non si curano di nulla, non compiono mai il grande passo; si limitano a girare, girare e ancora girare, come Gaël per l'appunto.

Però c'era da dire che, seppur fosse infinitamente contro natura pensarlo, lui aveva osato fare qualche eccezione con la suddetta: al World Class e in ospedale durante il cambio della medicazione. Nel secondo caso, più nello specifico, quando si era sentita schiacciata da un inaspettato senso di pericolo e minuscola da fare schifo. Quella volta in particolare era bastata a farle gelare il sangue nelle vene.

Ma con quella, Lóreley salì a quota due.

Non seppe se sentirsi onorata, impaurita, oppure arrabbiata. Fatto stava che non oppose resistenza quando lui decise di annullare le distanze che erano il marchio di fabbrica della loro fantastica conoscenza. Le agguantò il polso coperto dalla lana nera e la trascinò di peso nel corridoio a fianco, quello sprovvisto di videosorveglianza.

Il cervello riprese a scandagliare informazioni plausibili e il respiro a scuoterle il petto quando la sua schiena si scontrò col muro.

"Come lo sai?"

All'ombra della sua ombra, Lór capì di non starci capendo niente. Aveva contratto debiti con Johanna e il Litlaus, Bo' era nuovamente sparito nel nulla, si era pisciata addosso per colpa di un dannato di spettro, Richard era morto ed Edith espatriata chissà dove, non aveva notizie di Björn e Gíta da settimane, sua madre si era rivelata per la centesima volta un'egoista con tanto di meriti, suo padre stava morendo per colpa di una vita di merda fatta di altrettante dosi di egocentrismo e diluita con un alcolismo sapientemente mascherato da il whisky lo colleziono e basta, nonna Danielle aveva rotto il cazzo con le gallette di riso e le tisane e... 

E lei niente. Semplicemente niente.

Niente. 

Gaël, che ancora la teneva per il polso, la scosse.

"Come lo sai?" ripeté, stavolta scandendo meglio ogni parola come se stesse sillabando in una lingua a lei sconosciuta.

"Come lo so?"

"Non cercare di fottermi. A che gioco stai giocando?"

Lóreley avrebbe voluto riformulare per la seconda volta quella stessa domanda, ma il punto sopracitato glielo impedì. La sua bocca si aprì, si richiuse, si aprì una seconda volta e il lamento rauco che le scappò l'attimo seguente fece schizzare la rabbia di Gaël fino alle stelle.

Un altro scossone, un'altra spallata contro la parete. 

Era furioso.

Ma perché proprio con lei?

Perché proprio con me?

"Io non lo so" e il sussurro rimase impicciato sulla sua lingua. La tenacia che l'aveva accompagnata a quel faccia a faccia non c'era più, spazzata via dalla confusione, dall'incertezza. "Io..."

"Prima la biblioteca. Poi in spiaggia. Mi salvi la vita, mi dici di averlo visto, che ti è stato mostrato".

"Io, davvero, non-"

"Il diciannove ottobre entri nel Litlaus, patteggi con un Auditore, casualmente ti porti dietro anche il pacco possessione. Hai un lampo di genio, mi cerchi, ne parliamo. Okay, parliamone" Gaël annuì e tirando su col naso rinvigorì la presa, ma si trattenne dallo scuoterla ancora. "Parliamone, adesso che possiamo, perché stiamo toccando delle vette assurde che sanno troppo di coincidenza".

Il vocabolo del giorno era perciò coincidenza. Prima c'erano stati paura, Litlaus, indecisione, dote, premonizione, e prima ancora sogno, Selfoss, vuoto, mancanza, déjà-vu. Parole che s'incastonavano alla perfezione come minuscole tessere di un puzzle sempre più grande, complicato e assurdo. Un rompicapo che forse si sarebbe portata dietro per tutta la vita, che mai avrebbe potuto risolvere, un rebus di quelli che ti fanno una gran nausea quando ce li hai davanti. Però sapeva di dover tentare.

Perché il Litlaus aspettava lei da centovent'anni. Perché Bo', nonostante fosse lui il più morto tra i due, le aveva dato una valida motivazione per vivere, per spingersi sempre più a fondo e aiutarlo.

Quella motivazione era Gaël.

Una seconda motivazione, a rigor di logica, sarebbe stata un fattore in comune. Lei sbagliata, lui sbagliatissimo, come se qualcosa di più grande di un Dio avesse tirato insieme i dadi di entrambi. Ma il danno era stato fatto e niente sarebbe mai tornato al proprio posto. Non per loro volere, almeno. Forse. 

Perché ci pensano le costanti e le variabili a riassettare tutto. 

Perché...

"Da che pianeta vieni, biondina? Quello è Gaël Elíasson".
"L'egocentrismo cronico e un bel Porsche sono un mix letale, lo sanno tutti: guarda un po' come si è ridotto".
"Beh, alla fine è cambiato. Certe cose ti cambiano eccome. Da quando ha perso la vista non è stato più lo stesso. Io lo chiamo Karma".

Perché...

"Mentirei se ti dicessi che non è stato propriamente carino il modo in cui me l'hai detto".
"Questo è un problema che si pongono in molti. La sincerità può essere spiegata e recepita in milioni di modi, diversi gli uni dagli altri, sta a noi decidere quale adoperare e ricevere. Io preferisco accostarla alla schiettezza... e a nessuno è mai stato bene".
...
"Gaël non è pericoloso. Non gliene frega un cazzo di me, di te, delle tue mutandine oscene, della Cerchia, di niente e di nessun abitante sulla faccia del globo. Ciò nonostante ti consiglio di mantenere le giuste distanze: è letale, non pericoloso, tutto quello che gli vortica intorno".

Perché...

"Perché tu non eri nei miei piani. Non so chi sei, cosa sei, da dove vieni e perché mi hai salvato la vita. Veramente, non ne ho la più pallida idea. Ma una cosa è certa: se eri alla Baia, il pomeriggio dell'undici, un motivo c'è".
...
"Non è solo questo. Se ci fosse stato qualcun altro al tuo posto, ora mio fratello non ci sarebbe più".
...
"Avete parlato come se vi conosceste danni".
"Perché è così, semplice".
"Mi correggo, allora: avete litigato come farebbero dei vecchi amici".
...
"Sei vivo grazie a me".
"Fammi pensare... immagino tu voglia sapere il perché io sia accidentalmente caduto dalla scogliera".
"Non è mia intenzione ficcanasare nei suicidi altrui..."
"Lo stai già facendo. Non ti basta sapere che hai permesso all'Islanda di continuare a coltivare un futuro imprenditore pieno di buone intenzioni come il sottoscritto?"
...
"Quanto sai di lui?"
"Abbastanza, ma non troppo".
"Conosci il suo dono?"
"Cosa ti fa pensare che ne abbia uno?"

Perché...

"Buona vita e buona fortuna, Lóreley Dubois. Credo ti servirà, ora che sei con loro".
...
"E adesso rema, se non vuoi finire alla deriva. Ma fallo da sola: avere dalla tua un circolo di bastardi alla pari della Cerchia non ti darà le giuste risposte... solo tanta merda, oh. Stare con loro ti butterà addosso un'implacabile tempesta piena di merda. E affonderai, te lo dico col cuore in mano, e sarà solamente colpa tua. È uno spassionato consiglio, in fondo ti sono ancora debitore".
...
...
"Ora è il mio turno di fare una domanda".
...
...
...
"La Cerchia sa di te?"

"Tu credi che io stia cercando d'incastrarti, vero?" Lór, nel dirlo, si era sporta un poco, aizzata dalla rabbia che adesso le ribolliva ovunque. "Tu credi" e fece un respiro profondo pur di non strozzarsi con le sue stesse parole. "Tu non ti fidi di me perché pensi che la Cerchia, per chissà quale validissima motivazione nella tua stupidissima testa bacata, abbia preso me, una sfigata del cazzo, per incastrarti in qualcosa –o per qualcosa, che non è da escludere–. Me. Me, ti rendi conto? Tu stai davvero dubitando di me?"

"Hai assistito a un Decanto, sei entrata nel Litlaus, prevedi cose... vorresti dirmi che non è così?"

"Non me ne frega un cazzo dei tuoi scheletri nell'armadio, delle puttanate che dicono sulla tua famiglia, di quante volte mi abbiano ribadito di starti alla larga perché sei una mina vagante. Ma questo è reale" scandì Lóreley a denti stretti, alzando la mano inguantata senza preavviso, quella a cui Gaël era ancora artigliato. Un gesto preciso e la scoprì, voltando verso di lui il palmo marchiato dalla cicatrice del Samkaup... e dalla spire.

"Io non sto con la Cerchia".

"Convincimi".

"Io non sto con la Cerchia".

"Ti ho detto di convincermi".

"Allora rispondi a questa domanda: perché la temi così tanto?"

"Il mio non è timore".

"Ah, no?"

"No, affatto. Penso che anche tu abbia avuto modo di conoscerla: certi soggetti è meglio tenerli lontani per quieto vivere".

"Quindi la tua è sopravvivenza".

"Quando sei l'ultima ruota del carro è normale optare per un modus operandi simile. Non sei d'accordo con me?"

"D'accordissimo".

"Allora torniamo al punto precedente: perché mai dovrei fidarmi?"

"Perché tempo qualche settimana e io starò col culo in una dimensione parallela farcita di morti e parassiti mentre, qualcuno che tu conosci, avrà la fortuna di godersi la quotidianità di merda di Lóreley Dubois. E sottolineo di merda perché fino a settembre credevo che non ci fosse limite alla mia sfiga" le rispose a tono lei, tutto d'un fiato. "E invece eccomi qui. Eccomi qui a discutere con un falso invalido affetto da manie di protagonismo e a temere di dover lasciare la vita che ho sempre detestato per far posto a qualcun altro. E ho paura".

"Mentirei se ti dicessi che me ne importa qualcosa".

"Ma a quanto pare t'importa di questa persona che è con me".

Le dita di Gaël fremettero appena, attraversate da un debole spasmo. Lór se lo sentì scorrere addosso come se fosse suo.

"Giusto?" continuò, rompendo, finalmente, il magico gioco dei botta-e-risposta che animava i loro incontri. "Ovvio che sì. Allora, ricapitoliamo: il diciannove ottobre entro nel Litlaus, qualcuno si lega a me, tu torni miracolosamente a vedere. Giusto anche questo? A quanto pare sì. Ma per un momento ritiriamo in ballo la Cerchia, così, a scopo informativo. Hai detto di essere l'ultima ruota del carro, non godi di un'ottima reputazione, perciò presumo che tu non sia privilegiato tanto quanto lo sono gli altri. Il perché? Ah, boh. Però devi guardarti le spalle, sempre, perché se ci fosse stato qualcun altro al tuo posto, mio fratello sarebbe morto. Oltretutto, la Cerchia fa anche miracoli, vero? Ovvio che li fa, esistono gli Auditori per questo. Patteggi, scommetti qualcosa, guadagni e a tempo debito loro tornano a riscuotere quanto pattuito. Facile, facilissimo. Adesso che il primo intreccio è sciolto, l'ipotesi da prendere in esame è solo una: sicuro e chiaro come il sole che non hai patteggiato per riottenere la vista. Forse il prezzo era troppo alto, forse non ti è permesso praticare i Decanti per la situazione della tua famiglia... oppure, prima o poi, sarebbe tornata da sola, in qualche modo".

Il fuoco che lei aveva dentro si affievolì pian piano, ma le guance rimasero rosse e lo sguardo alto. Non avrebbe abbassato la testa per nessun motivo al mondo. Non più. Non in quel momento.

"Ciò che il Litlaus può invadere, lo invade. Ciò che è del Litlaus torna sempre al Litlaus. E questo... questo ha che fare col tuo dono. Perché tu ce l'hai un gjöf che è legato agli occhi, ma la Cerchia non lo sa. E lo hai usato su di me quel giorno in ospedale. Lo so. Me lo sono sentito addosso, non provare mentirmi".

Lór si rifugiò in una pausa brevissima, ora che poteva farlo, perché lui non l'avrebbe più interrotta. Se la stava guardando, allora stava anche ascoltando.

Ora che aveva la sua completa attenzione non sarebbe più tornata indietro.

"Se menti dirò alla rettrice quello che ho scoperto" gli promise a cuore aperto. "Senza rimpianti. Ti farà toccare da Gíta e lì non avrai scampo, lo sai".

Stavolta, Gaël non sembrò sorpreso.

"Una come te non può avere rimpianti. Ho sbagliato a pensare che tu fossi una persona onesta".

"Ho paura. La paura è più forte dell'onestà".

Era vero, era tutto vero. Era terrorizzata, aveva fatto centro ma, cosa più importante, si era rivelata essere quello che per genetica era fin dalla nascita, tutto in un colpo solo: ma quale empatia da parte di padre, ma quale orgoglio da parte di madre! Degli Østergaard e dei Dubois, lei, aveva ereditato solamente il peggio del peggio del peggio. Manco si meravigliò a pensare che un giorno si sarebbe infine trasformata in un Frankenstein fatto delle stesse e marce insoddisfazioni trasmessole da Anaïs, cucite tra loro con ago e filo dallo spiccato menefreghismo di Marcel. Era inevitabile, ma le andava bene così. Cos'altro aveva da perdere?

Ce l'aveva nei muscoli, nelle ossa, nel sangue, come Gaël.

E anche Gaël aveva paura, ma una di quelle brutte. Come lei.

Sbagliatissimi e terrorizzati, vittime inconsapevoli di coincidenze, doni e premonizioni...

Parola di Testa di Cervo.

Gaël la lasciò andare e buttò a terra l'Eastpak.

"Voltati. Dillà, verso l'atrio" disse con voce monocorde.

Lór si voltò a sinistra, lui la spinse appena. Poi, d'improvviso, le diede un buffetto sulla spalla. Uno soltanto.

"Cammina e svolta l'angolo. Fermati davanti al distributore".

Lóreley si era sentita congelare, ma non parlò. Assecondò quelle richieste con il cuore che le martellava nel petto a più non posso e gli occhi fissi davanti a lei. Addosso, più fastidioso del freddo che le aveva ghiacciato la punta del naso e le dita, la fantomatica sensazione di...

Oppressione.

Compì l'ultimo passo, ritrovandosi a un faccia a faccia indesiderato con le leccornie in vetrina.

"Ci sono".

"Lo so che ci sei" affermò Gaël, rimasto nel piccolo andito.

"Devo..."

"Devi solo guardare e ascoltare".

"Guardare...?"

"Sì".

Lóreley sbatté le palpebre. Cercò la prima fila con gli occhi: plumcake.

"Plumcake" le annunciò subito dopo.

Okay, i suoi plumcake erano sempre in prima fila. Certo. Era così in tutto l'istituto, tipo legge cosmica regolatrice degli eventi.

Strizzò gli occhi.

"Continua a guardare".

Terza fila: harðf-...

La voce di Gaël anticipò i suoi pensieri. "Harðfiskur".

Quinta fila.

"Patatine".

Quarta fila a partire da sinistra.

"Snack vegano".

Gli occhi saettarono in alto, poi rotolarono a destra come biglie azzurre e si piantarono infine sulla bacheca degli annunci. Prontamente evitò di rileggere i ritagli di giornale che parlavano del triste epilogo del Black Pearl.

"Volantino" commentò nuovamente lui. "Volantino sulla caccia alle balene".

Lóreley fece un passo indietro, poi un altro. A rilento tornò sulla bocca del corridoio e lì rimase, gli occhi adesso incollati su Gaël.

"Tu..." e tacque un attimo. Sentiva male alla testa.

"Quindi, tu... che vedi?"

Gaël si stropicciò le palpebre con gli indici prima di sollevarle, esitante come mai prima di allora: la cecità, la sua cecità era tornata.

"Adesso? Mi vedo".

Oh, adesso sì che la guardava: lo stava facendo attraverso lei, con le sue pupille.

Col suo gjöf.

✖ Nel prossimo capitolo, "Prendere atto, profanare, smaltire":

Che stupida era stata a pensare che tutto si sarebbe risolto con lo svelamento di un'identità. Presa dal panico e dalla paura aveva volontariamente omesso a se stessa i tre punti cardine -e agghiaccianti- che le avrebbero permesso di separarsi dallo spettro. In ordine logico suonavano più o meno così: prendere atto dello schifo di essere umano che si stava accingendo a diventare, profanare una probabile tomba senza provare alcun tipo di rimorso e prendersi la briga di sfrattare, prima del dovuto dal Litlaus, un'anima che aveva già sofferto abbastanza.

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