46. Prendere atto, profanare, smaltire (pt.3)

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Gaël seppe che Lóreley era ancora viva nell'esatto momento in cui la udì deglutire. Per il resto, il corpo della ragazza era così contratto su se stesso che pensò potesse spezzarsi in due anche con un'occhiata di troppo. Ragion per cui, ecco che erano entrambi ricorsi alle care e vecchie abitudini: non appena avevano varcato la soglia della stanza sotto lo sguardo sospettoso delle stronzette di quella affianco, lui, senza fare troppi complimenti, si era seduto sulla scrivania di Ber, non prima di aver tirato giù una colonna di fotocopie e appunti per farsi spazio, gli occhi di nuovo concentrati sul parquet. 

Nel momento di silenzio che si era andato a creare per ovvie ragioni, Lór gli aveva invece osservato le mani, constatando per la seconda volta quanto fossero vuote, grandi e ossute. Lo trovò buffo, oltre che terribilmente inquietante: Gaël smetteva di indossare l'anello con le corna plasmate nell'acciaio e Testa di Cervo, di riflesso, smetteva di esistere dentro di lei, lasciandola a marcire con uno spettro appiccicato all'anima e l'ennesimo rebus da risolvere. Da sola.

"Quindi Paskúm l'ha ammazzata per conto della Cerchia" Lór lo disse piano, pianissimo, come se avesse paura di scatenare di nuovo la rabbia di Gaël. L'altro, però, si limitò ad afferrare un evidenziatore e a ruotarselo tra le dita.

"Sì".

"Tre anni fa".

"Esatto".

Lóreley si grattò il collo, nel vano tentativo di allentare la corda invisibile che glielo stringeva. Parlare le stava richiedendo una buona dose di fiato e coraggio, cose che aveva smesso di avere di default da due mesi circa.

"Eppure i telegiornali..."

"È tutta una messinscena. Perché tentare di occultare dei sacrifici quando puoi creare un personaggio ad hoc e farli passare per omicidi seriali? È più semplice. Molto più semplice".

Lóreley ci ragionò su un attimo: perché costruire un'identità tanto mostruosa come quella di Paskúm? A che pro, se i contro erano in netta maggioranza? Se la Cerchia possedeva veramente un piccolo dominio su un qualcosa che andava oltre ogni concezione eticamente umana, perché non tentare di manipolare le informazioni dall'interno e, come negato da Gaël a priori, far perdere le proprie tracce ad ogni omicidio compiuto? Perché non farli passare per semplici scomparse? Perché, all'effettivo, la Cerchia aveva sentito il bisogno di sventolare ai quattro venti l'esistenza di un serial killer? Che sperava di ottenere?

Attenzioni, forse?

Le attenzioni di qualcuno in particolare?

"E cosa stanno cercando?"

Gaël svitò il tappo dell'evidenziatore e si tracciò una linea viola sul pollice. "Una cosa che è andata persa tanti anni fa" disse e ne tirò un'altra parallela, stavolta più sottile.

"E... ce l'aveva lei?"

"No".

"Ma di cosa si tratta?" insistette Lór.

"Il dono della vǫlva. Altro non so. Lo status quo della mia famiglia non mi permette di sapere altro".

"Perciò non sai nemmeno della vera identità di Paskúm" proseguì lei.

"No" Gaël finalmente la guardò, il capo che pendeva leggermente a destra. "Ma potremmo chiederlo a Dí. Sempre che voglia collaborare".

Quell'ultima considerazione fece tanto male quanto uno spigolo piazzato nel fianco. O una caduta per le scale. Non accidentale, ovviamente. Oltre che a procurarle una sofferenza tanto atroce, la invitò a spremersi le meningi una seconda volta pur di non risultare stupida - cosa che stava capitando fin troppo spesso per i suoi gusti. Punto uno: che tipo di consapevolezze mortali poteva avere un morto? Certo, Bo' ne aveva a palate per un'entità che abitava il Litlaus da centovent'anni, ma... 

... Dí era diversa. Non agiva per cognizione di causa, nossignore. L'invasione fisica, il contagio emotivo che stava attuando su di lei poteva considerarlo più una sorta di goffo tentativo che un approccio ben pensato.

Punto numero due: erano bastati soltanto tre anni di permanenza nell'aldilà per smembrare Dí un pezzo alla volta, per svuotarla della sua umanità, ma ciò non era successo con Testa di Cervo, che era riuscito a conservare quanto meno una coscienza, un'individualità, nonostante le avesse rivelato di non provare più nulla.

Ultimo punto: il sopracitato faceva più paura di ogni altra cosa. Dísella non riusciva più a comunicare, ad esprimersi come farebbe un qualsiasi essere umano - e questo, di per sé, stava a significare una cosa soltanto... lo stesso smaltimento doveva esser già arrivato al suo limite per cause naturali. 

Lóreley si passò la lingua sugli incisivi prima di parlare. "Sento che è confusa, ma una cosa è certa: rivuole la sua testa. Se dovessimo ritrovarla..."

"La bruceremo".

L'altra avvertì una scarica fredda attraversarle prima la mano guantata, poi salirle lungo il braccio e dissolversi dietro le scapole. Non se l'era aspettata mica tanta schiettezza... non dopo lo sproloquio sull'onestà, i plumcake nel distributore e le due spallate al muro. 

"Ma così facendo, lei... lei scomparirà".

"E allora?"

"Non è un processo naturale – è come se stessimo accelerando le cose, capisci?"

"Questo è l'unico modo per spezzare il legame della spire prima che la possessione giunga al termine – e lo farà, te lo assicuro. Adesso vuoi finirci tu al suo posto?"

Gaël continuò a fissarla con occhi vitrei, totalmente disinteressati, come se fosse tornato a vedere oltre. Una manciata di minuti prima di era infuriato per un nonnulla, forse ferito dal ritorno inaspettato di quella persona che tanto sembrava aver voluto nella sua vita, ma adesso – adesso che erano agli sgoccioli dal capirci qualcosa, il suo atteggiamento era mutato. Sprigionava freddezza, opaca indifferenza. Pure lui aveva inghiottito il boccone amaro senza più fare storie, era palese: recitare la parte dell'idiota compassionevole non gli si addiceva affatto.

Per un emarginato della Cerchia, tornare a essere un pesce rosso doveva rientrare sotto la voce necessità. Uno stupido pesce rosso, pieno di sé e delle sue convinzioni. Convinzioni giustissime, quasi decenti e un pizzico morali. Ma di morale, nel trovare e bruciare una testa umana, non c'era proprio niente. 

Perciò Gaël era un pezzo di merda col rimorso perennemente sotto i piedi, lei pure.  

"No. Non voglio. Non voglio morire".

"Appunto, non ne vale la pena. Non vale la pena tirarla ancora per le lunghe. Tanto è già morta e i morti non possono tornare in vita. È contro natura, Dubois, e non dovrei essere io a farti la predica".

"Perché?"

"Perché io sarei dovuto morire. E c'ero quasi, in fin dei conti, ma sei arrivata tu e hai fatto un danno. O un miracolo, non so nemmeno come chiamarlo".

"La tua è stata fortuna".

"Un cieco che salta da una scogliera e miracolosamente ne esce illeso. Più che fortuna, io la chiamerei barzelletta".

"Non sei divertente".

"Infatti non intendo esserlo. È la verità".

"Allora potresti cominciare col dirmi proprio la verità" Lóreley aggrottò la fronte, il respiro improvvisamente corto e pesante. "Perché hai fatto un gesto simile?" aggiunse poi in un sussurro.

Gaël si batté l'evidenziatore sul palmo aperto. Con un movimento fluido si rimise in piedi e a passo mogio si diresse verso la finestra, calpestando una manciata di appunti sulla macroeconomia. Con due dita spostò le tendine intrise di nicotina e la luce di novembre gli accentuò quell'aria spettrale che gli si comprimeva attorno come una bolla.

Rimase immobile per qualche secondo, il giusto per sciogliersi un po', ora vittima dalle assurdità atroci che stava per dirle. Il sospiro che gli varcò le labbra fu la prova tangibile di una sofferenza tenuta nascosta troppo a lungo.

Non era facile spostare i piedi, raccogliere il rimorso e stringerselo al petto con tanta nonchalance. 

Non lo era per niente. 

"Stavo cercando un modo per entrare nel Litlaus. Aggiungici un momento di pura debolezza emotiva, le condizioni giuste, le risorse finite. Ma dovevo entrarci, in un modo o nell'altro, e non m'interessava neanche fare ritorno qui, francamente parlando. Ero stanco. Se la paura supera onestà, ti garantisco che l'esasperazione è più forte del terrore" Gaël si massaggiò la noce del collo e trovò conforto in una pausa brevissima. Una lama di vento si andò a schiantare contro il vetro, ma lui non si scostò. "Per questo sono andato con mia sorella a fare una passeggiata sull'altura. Le ho chiesto di lasciarmi solo. L'ha fatto. Quando è tornata, qualche minuto più tardi, io ero già saltato giù. Il resto lo sai già".

Lór cominciò a massaggiarsi la spire, a percepirla con carezze lente e circolari. Nella testa, che viaggiavano veloci e si accavallavano gli uni agli altri durante la folle corsa, i ricordi frammentati della Baia: la bocca pregna di salsedine, il naso freddo, le labbra spellate, il tremore che dalle sue mani si trasmetteva, a mo' di scarica elettrica, al petto fermo di Gaël.

La sua rivalsa contro la morte. La sua vittoria per una precedente sconfitta.

La paura di aver combinato un macello cosmico e la successiva accettazione.

Se così doveva andare, così è andata.

"Se così doveva andare, così è andata". 

"Ma non doveva".

"Se anche fosse contro natura quello che ho fatto, non me ne pento" rispose prontamente Lóreley. "Non me ne pento" ribadì, la voce ancora ridotta in un mormorio. "Perché è più che ovvio che lo sia, ma lo hai detto tu, no? Ci pensano le costanti e le variabili a riassettare tutto. Forse non era quello il tuo undici ottobre. Probabile che ce ne sarà un altro in futuro, chi può saperlo. Ma che importa? Ora sei vivo. Vivi e basta".

Una voce le riecheggiò dentro.

Tu. Puoi saperlo solo tu. 

"Le costanti e le variabili non aggiustano niente, è il resto ad adattarsi alle circostanze".

"Ed è un male?"

"Certo che è un male. A volte".

"A volte?"

"Sì. Ed è qui che le cose si fanno grottesche ed esilaranti: nel mio caso si è come generata un'occasione, una coincidenza. Quella coincidenza. Per tre anni ho tentato in tutti i modi di raggiungere il Litlaus senza praticare i Decanti, ho fallito, e otto giorni più tardi il Litlaus si è presentato da me. Grazie a te" Gaël si voltò lentamente, rigido come un blocco di ghiaccio. "Ecco cosa è successo il diciannove ottobre".

"Non credo di capire..."

"Gli occhi" la interruppe lui. "I miei occhi li aveva Dísella. Li aveva lei il giorno in cui è morta. E io l'ho visto. L'ho vista morire tramite i suoi, dico. Sono andato nel panico e ho convinto Werner e mio – ed è successo l'incidente in auto".

Gaël tornò alla scrivania. Afferrò un altro evidenziatore, stavolta di colore giallo. L'attimo dopo scribacchiava sul retro di una fotocopia. 

"Quando mi sono svegliato, quattro giorni dopo, ero in ospedale" continuò, senza smettere di scrivere. Adesso le dava le spalle, che sussultavano di tanto in tanto. "La vista non era tornata, Dísella bella che andata e... come potevo recuperare i miei occhi se la portatrice non era più qui? Non avevo alternative plausibili, semplicemente. Però ci ho provato e ci ho sperato fino all'ultimo. Poi la speranza se n'è andata ed è arrivata la rabbia. La rabbia si è dissolta e ha lasciato spazio all'impotenza. L'impotenza mi ha portato sull'altura della Baia e sono saltato giù. Dí era irraggiungibile e io un povero stronzo che a vent'anni anni aveva addosso l'esasperazione di un ottantenne. E mi sono rassegnato sempre di più. Tuttavia l'hai riportata qui e Dí deve avermi reso gli occhi, in qualche modo".

Quando si voltò, Gaël le mostrava uno schema basilare, niente che Lóreley non sapesse già: la premonizione il giorno della cerimonia, la chiacchierata in biblioteca, l'undici ottobre, il diciannove. Tutto disposto in circolo, tutto accuratamente ben pensato e distribuito nel tempo. 

Come una sceneggiatura. 

"Se la mia mancata morte ha autogenerato una seconda occasione, questa mi sembra comunque forzata. Se vogliamo metterla su un punto umano, potremmo dire che ho semplicemente avuto culo, che le coincidenze, pur essendo inverosimili, ci sono. Ma... non so. Sento che qualcosa mi sfugge. Se era scritto nelle stelle che quell'undici ottobre sarei dovuto morire, così sarebbe dovuto essere: la morte non rinuncia mai".

Lóreley ispezionò con attenzione ogni punto abbozzato, seppur non avesse un reale bisogno di farlo. Ma se Gaël percepiva un palco sotto i piedi e mani e caviglie tenute ferme da uno spago invisibile, lei, d'altro canto, poteva vantare in segreto un'anteprima disonestissima del copione di scena.  

Quanto sarebbe stato saggio parlargli di Testa di Cervo in un momento così delicato? Bocciato. Entrambi si fidavano a malapena l'uno dell'altra e l'unica via d'uscita era continuare a mentire fino a tempo debito. Mentire a Gaël, a Ber, a Johanna, a tutti quelli che stavano tentando di aiutarla e di capirla. Perché, in fin dei conti, era giusto così. Se Bo' era con lei, dentro di lei e lì per lei, doveva comprenderne il motivo. Personalmente. E, se necessario, metterlo agli atti e accogliere le conseguenze a braccia aperte.

Ma, prima di allora, niente sarebbe dovuto trapelare dalla sua bocca. 

Niente di niente. 

"Hai qualche idea?"

"No". 

"Neanche io. Per il momento sottintendiamo questa faccenda sotto la voce avere culo. Non che la cosa mi dispiaccia, visto che abbiamo un accordo da onorare al più presto" e scrollò le spalle nel dirlo. Gaël era un pendolo che oscillava tra il sto per rivelarti i miei più intimi segreti a sì, però diamoci una mossa che è tardi.

"Mh..."

"Stai ancora pensando agli step prendere atto-profanare-smaltire?"

"Anche".

"Quella sarà la parte più facile. Per te, almeno". 

Lo vide piegare il foglio in quattro e ficcarselo nella tasca della camicia. Giurò a se stessa di averlo visto tentennare. 

La voglia di chiedergli cosa avesse condiviso con Dísella la divorò in un boccone solamente, tuttavia preferì tenerlo per sé pur di non risultare petulante. C'erano cose che andavano taciute, seppellite per quieto vivere. Ma ciò non toglieva che forse, nella più remota delle ipotesi, avrebbe potuto percepirlo e assorbirlo dallo spettro, una di quelle notti... 

"Sai già come muoverti?"

"Ho avvertito chi di competenza. Bastava solo avere un nome e... finalmente ce l'ho". 

Lui si cinse il mento con la mano. "Ho quasi paura a chiederti chi, di grazia".  

"Fai bene ad averne" gli mormorò Lór in risposta. "Ma non ho avuto altra scelta". 

"Allora possiamo finalmente ufficializzare l'inizio della nostra strepitosa patnership" Gaël si voltò in direzione della porta rimasta chiusa fino a quel momento, il pomello che veniva girato verso destra con uno scatto. "Abbiamo una testa da trovare. Se Dí non può tornare, almeno potrà andare via. E morire finalmente serena".

L'aria fu attraversata da un cigolio quando l'entrata si spalancò. Ber rimase ferma sull'uscio, gli occhi che si posavano prima su Lór, roteavano sul terzo incomodo con calcolato disgusto e finivano sulla pila di appunti riversi sul pavimento.

E sotto le scarpe di Gaël.

"Questa" e trafisse Lóreley con un'occhiata truce. "Questa me la spieghi adesso".  

✖ Nel prossimo capitolo, "Barchette di carta":

Gaël disse il nomignolo di getto, senza neanche rendersi conto di essersi sporto con uno scatto nel rivelarlo. Lo sibilò duramente tra i denti, ma Lóreley percepì comunque la rabbia trattenuta a stento nella sua voce come se fosse sua. Perché c'era anche quella, perché niente avrebbe potuto riportarla indietro, perché tutto faceva pensare che la morte di Dísella, per lui, aveva significato la fine di un qualcosa e mai l'inizio di un'altra; questo almeno fino all'undici ottobre. Per tre anni, stando alle sue parole, era rimasto arenato a un limbo oscuro, tetro ma soprattutto morto, e la morte lo aveva infine convinto a seguirla sulla scogliera della Baia... e a saltare giù.

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