48. Il mio posto è lì

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Non c'era alcun dubbio a riguardo: se Johanna Asaelsdóttir decideva di organizzare un'esclusiva festicciola di giovedì pomeriggio, Johanna Asaelsdóttir organizzava un'esclusiva festicciola di giovedì pomeriggio. Stop. Che andassero pure a farsi benedire l'allerta meteo preannunciata qualche giorno prima, il freddo glaciale, il buio scontatissimo e il fatto che fossero da poco scoccate le sei; a lei non fregava proprio – ai tre disillusi rimasti a rimuginare nella 4x4... sì.

Lór non aveva più provato l'ebrezza di essere l'imbucata di turno dopo la disastrosa piega che la festa di Benía –quella del cazzotto sul naso negli spogliatoi femminili– aveva preso quando Bastían Eikarsson, quindicenne in piena crisi ormonale e braccio destro di Aríus, ben pensò di tracannare una bottiglia di gin trafugata dalle scorte del padre alcolista, ubriacarsi e correre nudo per tutto il giardino cantando in un inglese discutibile God save the Queen. Ciliegina sulla torta, un'arrampicata improvvisata sul tettuccio che dava sul porticato e un bel salto nel... vuoto.

Correva l'anno duemilasette, Lóreley non aveva mai visto degli attributi maschili così da vicino e si era goduta la disfatta di quello scemo mentre sorseggiava del succo alla pesca. Il resto della storia comprendeva una prognosi lunga un mese, una gamba rotta e un incisivo mancante. Però si era divertita un mondo.

Meno divertente sarebbe stato imbucarsi lì. In tuta. Con Bergljót, l'essere dotato del dito medio più veloce dell'intero Nord Europa, e Gaël, ribattezzato Die Hard dal suo subconscio.

Durante la traversata che l'avvicinava inesorabilmente a un'orribile morte certa, Lóreley rivolse un ultimo pensiero a Marcel e alla Francia. Chissà come l'avrebbe presa nel sapere che sua figlia era accidentalmente morta schiacciata da un'Audi in retromarcia. Sua madre avrebbe sproloquiato al suo funerale che se era successa una disgrazia simile, lo aveva meritato a priori.

Come darle torto. 

I tre entrarono dalla porta-finestra che dava sul retro della cucina. Suonare e presentarsi dalla porta principale era da sciocchi, oltre che noioso e scontato – parole di Gaël: avrebbe avuto tutt'altro gusto guardare Johanna che raggelava sul posto, le unghie sempre curate ficcate nei palmi e le guance rossissime dalla rabbia. Lóreley aveva avuto da dissentire, com'era giusto che facesse una persona dotata di sani principi, ma Bergljót aveva riso di pancia e non se l'era più sentita. Muta come un pesce aveva pensato a una cosa solamente: un'altra notte come la scorsa non voglio più averla, che suonava più come un ho solo un altro cambio di lenzuola a disposizione.

L'aria all'interno della villa era pesante e fischiava in gola ad ogni respiro, si faceva fatica a parlare e a pensare. Nonostante fosse un open-space per tutto il pian terreno, era così gremita di persone che camminare senza inciampare nei piedi degli altri fu impossibile. Lór non riconobbe nessuno, tolto qualche partecipante assiduo del club V  incrociato in mensa.

Il brusio di voci era tanto alto da rendere indistinguibile la musica messa per fare atmosfera – o casino, dipendeva dai punti di vista. Ber non si sprecò a dare gomitate a destra e a manca per farsi spazio; Gaël, nel millesimo di secondo in cui lei gli aveva tolto gli occhi di dosso per non finire addosso a un povero disgraziato che le aveva tagliato la strada, raccattò una birra abbandonata su un comò in stile chabby.

Anche la parte dell'imbucato gli calzava a pennello. In fondo, cosa aveva da perdere?

Johanna era accomodata su un divanetto di pelle, un outfit addosso senza infamia e senza lode; sedeva alla sua destra Werner, i capelli di nuovo laccati e una camicia color panna che cozzava un po' col suo pallore. Nonostante stesse sorridendo, non aveva una bella cera.

Una vampata di disagio infuocò Lór dalla testa ai piedi. Per sua sfortuna non si trattava né di invidia né di gelosia. Però fu strano, ma strano forte. Nel fissarli si sentì un po' fuori dal mondo e una vocina dentro le ordinò di abbassare subito lo sguardo, di guardare altrove, di non disturbarli.

Erano così belli assieme, così completi. Perfetti all'esterno, ma con l'anima scheggiata da milioni di imperfezioni. Deformità mostruose che s'incastonavano meticolosamente quando erano vicini. Dove cominciava il corpo dell'uno finiva quello dell'altra; gli sguardi di entrambi che si allontanavano e si riacchiappavano all'unisono qualche attimo dopo, come se parlassero attraverso di essi, in una lingua che Lóreley non aveva mai avuto modo imparare.

Se c'era stato qualcosa tra loro al di fuori della passiva sottomissione di Werner, adesso era finalmente visibile e non era mai morto del tutto. Era lì, limpido e alla portata di tutti. Ma sempre quei tutti non ci facevano caso, oppure non volevano farci caso.

Nessuno, al di fuori di Lór, li guardava. Se ne tenevano lontani, come fosse un tabù esclusivo della Fær Øer. Un po' come, a quattordici anni, riveli la tua prima cotta con la stessa accortezza che si riserva ai segreti che vorresti portati nella tomba. 

Li rendi invisibili per quieto vivere, ma ci sono.  

Quasi le dispiacque quando Johanna, in un gesto involontario, puntò la sua attenzione proprio su di loro. Le sue pupille si rimpicciolirono all'istante, la bocca pittata di rosso si ruppe in una smorfia memorabile e...

Gaël la salutò alzando la birra come a brindare a un'antica gloria passata.

Ma si poteva essere più stronzi di così?

I tempi di reazione furono minimi. La padrona di casa si alzò intanto che Ber la tirava per un braccio per trascinarla verso le scale a chiocciola. Trovarono rifugio nella prima porta sul primo piano e Lór non poté fare a meno di accasciarsi sulla jacuzzi modello uma che era della stessa grandezza del bagno di casa sua. L'intero bagno.

Jo' entrò in scena qualche attimo dopo, esordendo con un: "Questa si chiama violazione di proprietà privata, Bergljót. Potrei denunciarvi".

"Avanti, la porta sul retro era aperta. Poche storie. Smettila di fare la snob, è tutto il pomeriggio che provo a rintracciarti".

"Sto festeggiando, non vedi?"

"Festeggi cosa?"

"Dev'esserci un motivo per festeggiare?"

"Sono le sei del pomeriggio. Chi organizza una festa alle sei del pomeriggio?" Gaël s'intromise subito dopo aver buttato giù un sorso di birra. Johanna non rispose, non subito almeno; rimase tesa sul posto, Werner che invece si chiudeva silenziosamente la porta alle spalle.

Quest'ultimo sembrava il meno sbagliato di tutti, lì dentro. Ecco quindi il manifestarsi di un altro stallo alla messicana in piena regola: le uniche a non farne parte erano in apparenza proprio Lóreley e Ber.

"Io. Io organizzo una festa alle sei del pomeriggio, Eliasson. E sempre io decido che voglio il tuo stramaledetto culo fuori da casa mia" scandì Johanna, come se stesse parlando con un alieno. "Adesso".

"Poco cortese da parte tua".

"Sono tutto fuorché cortese".

"Tipo... bionda tinta?"

La biondissima avanzò minacciosamente verso di lui, ma Werner fu più veloce. S'infilò tra i due con nonchalance calcolata, rischiando pure di scivolare in avanti e finire di faccia nella jacuzzi. Gaël tirò su col naso non appena se lo trovò davanti, ma non si allontanò. Fu un momento: lo scapolo del Samkaup si sforzò a tenere gli occhi alti e Gaël sollevò istintivamente un sopracciglio, in risposta a quel placcaggio che gli aveva salvato la vita.

C'era riflessa della vergogna negli occhi di Werner, un timido imbarazzo di quelli che, se ci ripensi a distanza di giorni, ti viene da ridere e cominci a canticchiare sottovoce per non sentirti a disagio. Perché con Gaël era così, sempre: dove c'era lui, c'erano state e continuavano ad esserci situazioni indubbie, imbarazzanti, dolorose. E questo era successo anche con Werner.  

"Gaël".

"Werner".

"Bergljót" fece poi. "Lóreley" aggiunse più per cortesia che per altro.

"Ti sembra una seduta per alcolisti anonimi? Falla finita, per l'amor di Dio". 

Detto questo, Johanna trasse un respiro profondo e si ravvivò i capelli con una mano per ridarsi un contegno. Si frappose a sua volta tra Bergljót e la stessa Lór, optando per una tattica più che gradita: ignorare momentaneamente Gaël.

"Hai dieci secondi per parlare, Bergljót".

"Solo dieci?"

"Nove".  

Ber si portò le mani ai fianchi. "Portiamo all'attenzione di vossignoria succulente notizie".

"Otto, sette, sei..."

"Abbiamo il nome. Possiamo procedere".

Gli occhi di Johanna si assottigliarono. Interruppe il countdown, ma la risposta fu secca e lapidaria. "Non stasera".

"E invece lo faremo stasera".

"Senti, mangia-paella..."

"La notte scorsa si è pisciata addosso. È grave".

Johanna alzò l'indice e aprì la bocca, tuttavia non parlò. Werner si lasciò scappare un breve colpo di tosse per scaricare l'imbarazzo. Gaël, invece, si voltò per indagare più a fondo.

"Non mi avevi detto di esserti pisciata addosso. Credo. Forse l'ho rimosso". 

"Non-" Lór si stropicciò gli occhi con gli indici. "Non era necessario che tu lo sapessi". 

"Okay, è... grave. Molto grave. E..."

Lóreley interruppe Johanna con un sospiro rassegnato. "Possiamo chiudere qui il discorso?" aggiunse poi. 

Johanna prese a passeggiare in lungo e in largo, il tamburellare dei tacchi che si amplificava sul pavimento piastrellato di marmo. Si fermò davanti a una toeletta e guardò il suo riflesso nello specchio. Non si ammirava: stava dubitando. Esitava. E questo faceva paura. 

Bergljót, che aveva le mani ficcate nelle tasche del chiodo, le sventolò per richiamarla. "Se ha già così tanta presa sul suo corpo, vuol dire che siamo vicinissimi al punto di non ritorno. Lór lo è. Non possiamo aspettare ancora a lungo". 

"Lo so". 

"E tu puoi farlo. Ne sei capace".

"Lo so, Bergljót, non c'è bisogno che sia tu a dirmelo" mormorò Johanna, come se fosse la cosa più scontata del mondo - ed effettivamente lo era. "Avremo bisogno di... due specchi". 

"Tre" s'intromise Gaël.

"Due. Io celebro, Werner e Bergljót assistono". 

"In due è troppo rischioso". 

"Sai come si estirpa un'anima parassitaria?"

"No, ma posso imparare".

Johanna tornò sui suoi passi con snervante lentezza. Stavolta Werner rimase al suo posto, lo sguardo perso e le nocche diventate bianche per il troppo stringere. Una parte di lui stava soffrendo. Fu difficile capire quale, viste le circostanze.  

Quando il volto di Gaël distò solamente una manciata di centimetri dal suo, la biondissima parlò piano, lasciando tempo e spazio alle parole d'imprimersi nella memoria del ragazzo. 

E in quella di tutti.

"Che mi venga detto che sono una snob del cazzo. Che mi venga detto che sono viziata. Che mi venga detto che sono bionda tinta -si chiama ritocco, tesoro-, irascibile e intrattabile. Ma io so qual è il mio posto: è in cima. Essere lì comporta molte responsabilità, Gaël. Tu guarda alle tue e impara" Johanna allungò il collo e lo guardò senza battere ciglio, quasi volesse stregarlo. "Impara qual è il tuo".

"Non è di certo alle tue dipendenze".

"No, non lo è. È sotto, ancora più sotto. Sei nella merda, per intenderci".   

"Meglio lì che vicino a tua nonna".

"Preferisco quella vecchia pazza alle mani sporche di sangue della tua famiglia". 

Mentre Gaël incassava il colpo, Werner allungava, esitante, una mano. Le dita si aggrapparono alla spalla di Johanna. Quel contatto ebbe il potere di sciogliere la tensione che si era impadronita della sua carne, di farla tornare umana.

Ciò a cui Lór aveva appena assistito superava di molto ogni congettura fatta fino a quel momento: aveva ironizzato sulla Cerchia, l'aveva vissuta attraverso gli occhi ingenui di Ber e, in maniera esilarante e grottesca, aveva imparato a conoscerla un pezzo alla volta. Ma la Cerchia era altro. 

Era potere e dominio, innanzitutto. Era ferrea gerarchia. Era storia ed era tradizione, la stessa narrata nella vetrata alla Fær Øer. Era segreti.

Ma soprattutto, la Cerchia era terrore. 

✖ Nel prossimo capitolo, "Qualcuno ha detto ménage à trois?":

Gioco di ruolo. Il rito per estirpare l'anima indesiderata ruotava attorno a quel singolo concetto. Facendo leva sulla suggestione e richiamando nello stesso momento sia l'anima vivente che la non-vivente, si aveva il tempo necessario a interrogare la seconda, la parassita, e tenersi così lontani dal Litlaus. Gli specchi fungevano da jolly: erano appigli per l'individuo posseduto, ma anche artefatti rivelatori.
Ciò che non poteva essere visto, veniva infine mostrato.

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