49. Qualcuno ha detto ménage à trois?

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Gaël non si mosse. Solo i pugni, sigillati come lo erano stati quelli di Werner fino a qualche attimo prima, furono attraversati da due brevi spasmi.

Neanche Lóreley si era salvata dallo sproloquio dell'essere sulla cima, Johanna glielo aveva riservato il giorno della sua entrata in università, quando si erano dichiarate guerra senza un motivo apparente. Prima di venire a conoscenza dell'esistenza della Cerchia lo aveva interpretato come un modo sciocco di ergersi e d'imporsi, dati gli spiccati atteggiamenti da drama-queen della sopracitata. Ma la realtà dei fatti era ben diversa; tutto, adesso, era diverso.

Un altro tremore fece oscillare i pugni chiusi di Gaël, eppure parlò con lo stesso tono di voce usato da Johanna: basso, al pari di un mormorio, ma ben scandito.

"La mia famiglia non ha fatto niente. Lasciateci in pace".

Le guance di Johanna tornarono rosse, e la calma che le aveva trasmesso Werner si annullò di colpo. "Niente, dici? Come puoi-..."

"Come posso cosa? Cosa posso e non posso fare? Come posso vivere braccato così? Incolpate mia madre, incolpate mio padre di cose che non sono mai accadute. Cose che non hanno mai fatto, pensato o detto. Vogliamo solo vivere in pace, ora che Lars è in quello stato. Chiediamo tanto? Siete voi il nostro problema. Siete voi che non ci fate vivere sereni. Noi non abbiamo nessuna colpa" ribatté Gaël.

"Avete più colpe di tutti noi messi assieme e non dovrei essere io a dirlo".

"Se proprio vuoi metterla su questo punto, allora le vostre mani sono ancora più sporche delle nostre, visto che ti piace tanto gareggiare. Sbaglio?"

Johanna respirò forte dal naso, intuendo a cosa si stesse riferendo. "Paskúm è..."

"Una stronzata, ecco cos'è. Un gioco che tua nonna perderà a priori".

"Noi siamo a tanto così dal riottenere ciò che ci è stato sottratto".

"Allora dillo a Dísella!" gridò d'improvviso Gaël, indicando Lóreley con una foga tale da far schizzare il cuore in gola a tutti quanti. "Dillo a Dísella, avanti, visto che è legata a lei. Ora. Guarda Lóreley negli occhi e parla, cazzo. Dille che ti dispiace, dille che era la tua migliore amica e che anche se non hai alzato un dito mentre la massacravano le vuoi ancora bene" continuò, riprendendo fiato solo per non rischiare di collassare a terra dalla rabbia. "Se sei così importante come dici, allora scendi a patti con te stessa e affronta le conseguenze. Quasi riesco ad immaginarti, a immaginare com'è che sei veramente, porca puttana. Stupida, indifesa e sconvolta, nascosta dietro le spalle di tua nonna che ti ordina di guardare. Dísella che grida, che ti chiama, ma tu non fai niente. Non ti opponi. Perché ti hanno inculcato nella testa di essere la Prima, di avere sempre e comunque ragione, ma in realtà sei solo una pomposa viziata del cazzo che gioca a fare Dio".

Cadde il silenzio. Oltre il muro, lo stereo al piano di sotto riproduceva a tutto volume una canzone remixata, una risata ubriaca saliva dal fondo del corridoio e la festa continuava il suo tranquillo svolgimento.

Lóreley si scambiò una fugace occhiata con Ber. Primo: Gaël non era stato metaforico quando le aveva detto di aver visto Dísella morire. Nient'affatto. Secondo - Johanna, stando alle parole del ragazzo, aveva assistito al macabro sacrificio senza muovere un dito, forse su richiesta di sua nonna. Terzo...

Chi era Lars? E perché c'era così tanta angustia nei confronti della famiglia di Elias? Perché la Cerchia rendeva loro la vita un vero inferno? Che colpe avevano?

Johanna alzò il mento, uno scintillio anomalo negli occhi che male si abbinava al suo orgoglio, e Werner capì subito le sue intenzioni. Ritirò la mano, lasciandola comunque a mezz'aria, e lei uscì sbattendosi la porta alle spalle senza controbattere le accuse di Gaël.

Werner si mordicchiò il labbro inferiore prima di parlare. "Sai bene anche tu che non è stata lei a volerlo".

"Questo non la giustifica" rispose freddamente Gaël. "Questo non vi giustifica".

"Non ti sto chiedendo di capirla".

"Non lo farei a priori".

"Gaël, sul serio..."

"Dille di acchitare tre specchi e di farla finita. Sono qui solo per sapere dove si trova la testa. Dopo potrete tornare a fare i piccioncini senza che nessuno vi disturbi".

Werner chiuse momentaneamente gli occhi. Quel continuo rimarcare in modo velato quanto Johanna e lo stesso Werner fossero così ipocriti assieme colpì Lóreley con la stessa violenza di uno schiaffo in pieno viso. Lei stessa aveva curiosato nella loro complicità, li aveva osservati da lontano e ne era rimasta rapita. Ma non conosceva i retroscena, il motivo che spingeva Werner a dubitare per l'allontanamento di Gaël e soffrire passivamente per l'estrema, quasi ossessiva, vicinanza di Johanna.

Il non-quasi scapolo del Samkaup aveva un ardente bisogno di vivere la normalità, come tutti quanti del resto. Per un primo periodo l'aveva rivista -e creata- in Lór: era un'estranea, veniva da fuori, non apparteneva alla Cerchia. La candidata ideale e un appiglio concreto per non pensare a tutto lo schifo che gli vorticava attorno.

Tutto, però, si era spento da un giorno all'altro e neanche Lóreley aveva capito il perché. Lui aveva preferito tornare al suo punto di partenza - o, forse, non lo aveva mai abbandonato per raggiungere un altro traguardo. E questo era disumano e terrificante.

Werner non stava mentendo a se stesso, l'affetto che nutriva per Johanna era reale, sì, ma... non normale. Non era sano. Si trattava di puro istinto di sopravvivenza, un fattore che lo accomunava inevitabilmente a Gaël, seppur applicato in maniera e in contesti totalmente differenti.

Essere così emotivamente vicino a Johanna, che era la Prima -sotto tutti i fronti-, cosa gli garantiva? Protezione? Potere? Oppure era un semplice rapporto sentimentale che non riusciva a trovare pace?

"Aspettate nella stanza accanto. Credo che la festa finirà a breve".

La stanza adiacente era un covo per nerd senza precedenti. Due letti e due armadi speculari, una scrivania che avrebbe fatto invidia al geek più geek del circondario e l'intera parete di destra era completamente tappezzata da poster di videogiochi vecchia-scuola.

Appallottolato in un piumone su una sedia girevole c'era Cýrus, il gigante-gemello con l'anellino a circondargli la narice.

Non appena si rese conto dei tre fermi sull'uscio, allungò il collo e tirò su col naso. Doveva essere influenzato.

"Gaël?" boccheggiò. Poi ispezionò le due alle sue spalle con curiosità. "Okay, non farò domande. Metto le cuffie, tranquilli. Fate come se non ci fossi. Il letto di Dan è quello di sinistra, mi raccomando" e spostò nuovamente l'attenzione sulla console accesa.

Ci mancava solo il ménage à trois.

Un paio d'ore più tardi Werner bussò alla porta. Avrebbero celebrato l'interrogatorio su un fantastico bordo piscina - al coperto, ovviamente, con un delizioso panorama innevato a far da sfondo a una tragedia preannunciata.

Johanna era lì ad attenderli. Non aveva più i tacchi ai piedi e il grazioso vestito di tulle che aveva indossato durante la festa era stato sostituito da un completo sportivo.

Sulla parete alla sua sinistra era stati poggiati tre specchi, uno dei quali coordinato al cassettone in stile chabby all'entrata, rettangolare e di un freddo beige.

Mentre posizionava tutti i partecipanti in modo meticolosamente preciso, come era descritto nel suo personale taccuino-occulto, le scappò un speriamo che rimangano intatti.

Ora, Lór giaceva inerme nella mezzaluna creata, stavolta priva di candele e terra fertilizzata.

Deglutì. Odiava il suo attuale riflesso e neanche lei seppe spiegarsi il perché. Era come se le mancasse qualcosa, qualcosa che per anni l'aveva resa completa e che era venuta improvvisamente a mancare.

"Cosa devo...?"

Johanna la zittì subito con un gesto deciso della mano. "Devi solo guardarti".

"E perché gli specchi?"

Ber, nel rispondere, fu più veloce della biondissima. "Gli specchi sono necessari. Non smettere mai di guardarti, anche se Johanna ti parlerà come se tu fossi..." e lasciò la frase sospesa a metà, riprendendo solo quando fu sicura che la tranquillità di Gaël fosse più vera che mai. "Anche se Johanna ti chiamerà Dísella, tu continua a ripeterti di essere Lóreley Dubois. Fallo, mi raccomando... è importante".

Nessuno parlò più per una manciata di minuti. Fuori, la nevicata si era fatta più feroce e il buio era talmente denso da sembrare inchiostro. Le luci dei lampioni apparivano fioche e distanti, come stelle sul punto di spegnersi.

I partecipanti restarono immobili e fedeli ai ruoli dati, incatenati a un attesa che divenne man mano sempre più sgradevole; le mani di Gaël, Werner e Ber che si allentavano e stringevano all'unisono sulle cornici degli specchi, come a tenersi pronti. Johanna, dal canto suo, si fossilizzò sul bordo piscina, il taccuino aperto su degli appunti scritti frettolosamente. Si stava preparando, o forse cercava di non focalizzarsi troppo sull'identità dello spettro.

Quello che stava per fare era un confronto atroce.

"Togli il guanto" disse, e finalmente si voltò. Lóreley fece quanto richiesto. Lo tese verso di lei, ma Johanna non lo afferrò. Allora lo buttò a terra, scrutando la spire che le circondava il palmo aperto.

Come predetto, la possessione aveva continuato ad espandersi. Il rampicante nero composto da dita aveva superato il polso di qualche centimetro.

"Guardati".

Lóreley si fissò nello specchio sorretto da Werner. La superficie riflettente le rispedì indietro la sua esatta copia. Gobba sul naso, spalle buttate in avanti, capelli legati in una coda floscia e disordinata.

Era ancora lei.

Per il momento.

"Tu chi sei?"

"Lóreley Dubois".

"Tu chi sei?"

Lór aggrottò la fronte, la mano destra tuttora sollevata. "Lóreley Dubois" disse con più convinzione. Gli occhi rotolarono sullo specchio di Gaël e lì rimasero. Sobbalzò mentre s'indagava e il ragazzo percepì la sua inquietudine.

Forse fu a causa della suggestione, ma le parve di aver percepito un'interferenza attraversare la propria immagine. Ber, nel frattempo, cominciò a tamburellare le dita sulla cornice nera per tenersi calma - visto che non poteva neanche fumare.

Johanna si portò il taccuino chiuso al grembo, un movimento troppo pacato per una come lei. Boccheggiò a vuoto qualche sillaba, ora visibilmente timorosa. D'un tratto si era fatta piccola e titubante.

"Tu... chi sei?"

Lór socchiuse gli occhi quando una vampata di calore salì dal basso e le incendiò il petto, poi sopraggiunse il freddo a scacciarlo via. Continuò ad osservarsi nello specchio sorretto da Gaël nonostante il desiderio di distogliere lo sguardo fosse divenuto un'inquietante necessità.

Infine e lentamente, la percezione di tutto ciò che la circondava si avviò verso un inesorabile deterioramento: Lór giurò di non avvertire più la pesantezza del respiro e la stabilità del pavimento, o almeno non in modo naturale. Però rimase in piedi, nonostante il terremoto irreale che si intervallava sotto le suole delle sue scarpe, e l'altalenarsi di scariche ghiacciate e ondate di caldo le ricordò l'inizio di un attacco di panico.

Gioco di ruolo. Il rito per estirpare l'anima indesiderata ruotava attorno a quel singolo concetto. Facendo leva sulla suggestione e richiamando nello stesso momento sia l'anima vivente che la non-vivente, si aveva il tempo necessario a interrogare la seconda, la parassita, e tenersi così lontani dal Litlaus. Gli specchi fungevano da jolly: erano appigli per l'individuo posseduto, ma anche artefatti rivelatori.

Ciò che non poteva essere visto, veniva infine mostrato.

Rispondi.

"Lóreley Dubois..."

Lóreley Dubois.

Io sono...

Lóreley Dubois.

"Io sono... Dí?"

Lóreley Dubois.

Nessuno si azzardò a proferire parola.

Le iridi di Lór erano adesso verdi.

Johanna annuì una volta solamente. "Per adesso. Solo per adesso".

"Adesso..."

Solo per adesso.

"Devo sapere una cosa, Dí" continuò Jo'. "Devo sapere dov'è la tua testa".

Una fitta alla tempia costrinse Lóreley a scuotere la sua, di testa.

Era tutto così strano, ciò che stava provando non aveva niente a che vedere col Decanto d'entrata nell'aldilà. Lór sapeva di esserci ancora, sapeva di esistere in quel segmento di tempo terreno, ma era come non esserlo veramente. Se si fosse data un pizzico, probabile che il dolore non sarebbe arrivato a destinazione.

Era questo ciò che si provava ad essere morti in un mondo pieno di vita? C'era solo confusione, quindi? Delirio? Dispersione? Impotenza?

"Dí, devi dirmelo".

Io sono...

Lóreley strizzò le palpebre e si grattò il collo una volta solamente.

"Io non... io non lo so..."

Non devo grattarmi. Io sono Lóreley Dubois e non devo grattarmi.

"Certo che lo sai".

"Non lo so..."

Io sono...

"Dí, ti prego".

In un gesto non voluto, Lóreley finì per accucciarsi sulle ginocchia. Tornò a grattarsi il collo nello stesso punto, nei pressi della gola scoperta, facendo pressione nel vano tentativo di annullare il prurito anomalo che l'aveva assalita. Pochi attimi dopo, la pelle cominciò ad arrossarsi.

Ber fu sul punto di parlare, ma Johanna la interruppe. "Dí, non ignorarmi. Dov'è la testa?"

"Io non lo..."

"Ricorda. Ti prego, ricorda!"

"Io... ero..."

I tre specchi vibrarono all'unisono mentre Lóreley continuava a sfregiarsi, sebbene la lunghezza delle unghie le stesse impedendo di farsi del male per davvero. Nel frattempo, Werner aveva iniziato a boccheggiare.

"Jo', basta così..."

"Zitto!" gridò la Prima d'improvviso. Il senso di colpa si era infine tramutato in rabbia. "Dí, parla!"

Altre tre vibrazioni, simili a bussate, costrinsero Werner e Ber a rinvigorire la presa sulle cornici pur di non cascare in avanti. Gaël era invece sprofondato in una sorta di trance: nello specchio in stile chabby, quello opposto al suo, era adesso riflessa la figura di Dísella.

E la sua gola era aperta in due.

"Jo', io..."

"Dimmi dov'è la tua testa, maledizione!"

Lóreley smise di grattarsi e gli ultimi lamenti le morirono in bocca, soffocati per suo stesso volere.

Tutto era cenere, dentro e fuori. Raddrizzò la schiena e tornò ritta con la forza di volontà ridotta in poltiglia. Ogni percezione corporea si era annullata, sostituita dal risentimento misto a rabbia. Tanta, troppa rabbia.

Tutto era morto. Tutto era incolore. Aveva avuto ogni cosa da quella vita, e adesso non aveva più niente. Il niente era l'unica consolazione che poteva stringere tra le dita.

Ma il nulla non aveva valore in un mondo pieno. La morte non aveva valore in una realtà di vivi.

Io non ho più valore.
Qui non ho più niente.

E invece lei era lì. Viva, vivissima. Coi suoi capelli sempre in ordine, il suo stupidissimo culo sodo e quel suo odiosissimo vizio di strillare ordini come se tutto le fosse dovuto.

Johanna era lì e lei no.

Johanna non aveva battuto ciglio quando le avevano tolto il diritto alla vita, alla quiete, al respirare. Johanna l'aveva guardata morire senza muovere un dito, quella notte.

Johanna era stata complice della sua fine.

Mentre lo specchio di Ber finiva in frantumi, Lóreley scattò in avanti in maniera innaturale. Si avvinghiò a Johanna e la spinse con tutta la forza che quel misero corpo poteva esercitare.

Scivolarono entrambe in acqua che Lór aveva ancora gli occhi verdi.

Perdoname madre por mi vida loca (e per il titolo del capitolo che è veramente stupido. Scusate, davvero, ma è stato più forte di me).
E niente, tutto ovviamente è finito male. Malissimo. Ma, si sa, le gioie non sono di casa!
E niente x2. Ho rotto Gaël. Sono veramente una persona cattiva... molto cattiva :>
Il prossimo capitolo sarà tipo una bomba piena di feels, perciò vi voglio carich* e attent*!
Bacini e baciotti, corvetti!

✖ Nel prossimo capitolo, "La Tomba":

Dísella scordava e ricordava in modo discontinuo. Questo era l'effetto che il Litlaus esercitava sui suoi abitanti temporanei: li prosciugava. Strappava loro le memorie, il parlato, la lucidità, la forza di volontà. E questi sparivano così, dopo esser stati svuotati della propria individualità. Contagiati dalla malattia della morte e consumati fino a divenire ombre grigie, fantasmi di quelle che un tempo erano state persone. Esseri viventi. Umani. Il Litlaus altro non era che un'enorme discarica per i morti.

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