*51. Le tue bugie sono anche le mie (pt.2)

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Doveroso excursus! Prima di lasciarvi alla lettura del capitolo, ci sono un paio di cosette che intendo chiarire. Innanzitutto perdonatemi se ci ho messo tanto tempo a pubblicare, ma la linea internet mi ha abbandonata e sono momentaneamente ospite in casa di altri. Spero che la situazione si risolva al più presto T_T

In secondo luogo, vi invito a non prendere sotto gamba l'asterisco accanto al titolo. Questo è stato un pezzo difficile da scrivere, cestinato più e più volte, proprio perché non riuscivo a trovare le parole giuste per assemblare l'intera situazione. Sappiate solamente che ho cercato di essere il più delicata possibile e che i temi trattati all'interno del capitolo non sono né una provocazione né una presa di coscienza. A parlare, ricordatelo sempre, sono i personaggi, non la me autrice; io mi limito semplicemente ad entrare nelle dinamiche e a mostrare ogni loro sfaccettatura, bella o brutta che sia. Ogni mia opinione, ideale e posizione politica/sociale e via discorrente non è presente in ciò che scrivo. Spero di essere stata chiara. 

Infine, ci tengo ad avvisarvi che il capitolo è formato da più flussi di coscienza. Vi ricordo che il parlato di Testa di Cervo è sempre scritto in grassetto. 

Bene, giuro che 'sto pippone è finito. Tanti bacini e fatemi sapere la vostra! 

Bodvár Løvenfeldt.

La caduta a cui si era abbandonata sembrò non avere fine. Ma gli occhi rimasero chiusi, sigillati affinché il grigiore del Litlaus non potesse più ferirli, mentre la coscienza andava e veniva in un moto intermittente che aveva del dissociante.

Bodvár Løvenfeldt.

Uno ad uno, come stelle sul punto di esplodere, i pensieri si spensero, e la mente fu pervasa da un buio così profondo da essere irreale: in una frazione di secondo –è questo il tempo che ci impiega una persona ad annullarsi completamente?– Lór smise di vestire l'anima di cui era rivestita la vera Lór. Svanì tutto, tutto quanto, spazzato via da un'antica consapevolezza che sapeva non essere la sua.

Come tessere di un domino rimaste in bilico fino a quel momento, vennero ordinatamente a mancare le gioie, i ricordi, gli orrori, i terrori, gli sbagli, i problemi. Risposero all'appello anche l'essenzialità di un gesto fatto al momento giusto, di una parola non detta quando ce n'era bisogno, di uno sguardo di troppo a chi non meritava di esser guardato. Ogni concetto che l'aveva composta nella sua interezza di essere umano si sgretolò alla stessa maniera della tomba profanata.

È così che muore un'anima?

Da ospite viva in una casa di morti a puro nulla in un battito di ciglia.

È questo che si prova ad essere a un passo dalla fine? Dalla vera fine?

Bodvár Løvenfeldt.

Da Lóreley Anaïssdóttir-Dubois a...

Bodvár Løvenfeldt.

Un attimo.

Da Lóreley Anaïssdóttir-Dubois a Bodvár Løvenfeldt è un...

Un attimo durato cento...

Centovent'anni.

No, più indietro.

Centoquaranta.

No, di più, di più, di più...

Centocinquanta-centocinquantacinque anni.

Centocinquantacinque anni.

Sì, centocinquantacinque.

...
...
...

Tick.
Tick.
Tick.

La vuotezza del baratro che l'aveva accolta venne riempita da tre ticchettii forti e distinti, come a simulare un segnale di ritorno. E Lóreley, all'effettivo e senza una ragione apparente, tornò.

Le memorie furono le prime a ripresentarsi a lei.

Si riconobbe in quelle immagini che, pezzo dopo pezzo, la ricomposero per intero. Una sequenzialità di frammenti che si allungava e distorceva in maniera nauseante, ma nitida abbastanza da mostrarle cosa era stata dall'altra parte. Rivide se stessa sotto il cielo cireneo della Baia e scrutò le sue mani goffe poggiate sul petto immobile di Gaël; rivestì la toga bianca e prestò più attenzione ai rimproveri di sua madre; riassaporò la rabbia e la sfogò nuovamente colpendo Benía in pieno viso, mettendo da parte ogni pentimento. Guardò Aríus allontanarsi e diventare un puntino piccolissimo nei corridoi affollati del Liceo, si premette il cuscino sulla testa pur di non ascoltare più le litigate sull'assegno di mantenimento. Si osservò mentre sostava composta davanti la piccola bara aperta, vestita di tutto punto e con gli occhi spenti, mentre in un mormorio domandava perché Ían ha la faccia coperta?

Lo sfrecciare dei ricordi aumentò a dismisura.

Rivisse le coperte rimboccate prima delle dieci, il post-it con l'appuntamento mancato dal dentista, la sciarpa gialla con il papavero ricamato sul lato destro, i budini al cioccolato della signora Edda, le stelle di carta ritagliate assieme della maestra Alanta, il rossetto sbavato sulle guance dopo aver ballato davanti allo specchio, i calzini lanciati senza mai centrare il cesto della biancheria sporca, l'ansia di Anaïs, le gallette di riso inzuppate nel latte, il vola vola di Marcel, la pipì a letto, l'odore di tabacco sui vestiti di Anaïs, l'apparecchio appena stretto che faceva sanguinare le gengive, il soffitto osservato dal fondo della vasca piena, la depressione di Anaïs, l'alesuppe di anguilla, le prese in giro per la gobba sul naso, i singhiozzi soffocati di Anaïs mentre si accarezzava-graffiava quell'enorme e orribile e gonfia pancia con lei dentro e

perché deve essere tutto quanto così complicato io non lo voglio questo peso non l'ho mai voluto Marcel
Marcel Marcel dove sei mi sento così sola e persa ho fallito e
mamma perché non lo accetti
andrà bene starò bene starà bene vedrai vorrei
chiamarla Lóreley come la nonna
come la nonna
non le farò mancare niente sarò la mamma
la mamma migliore del mondo non-non sarò come te
mai
potrà fare quello che più le piace mi andrà benissimo tutto
e smetterò di sentirmi in colpa per aver pensato di
di non volerla
mi dispiace
mi dispiace veramente ma veramente tanto
scusa amore mio
scusami Lór
sei così buffa quando mi nascondo e mi cerchi e mi chiami e
sai che non andrò mai via
sarò sempre qui

qui

qui

qui per te

guarda dietro il divano

sono qui e...

Tick.
Tick.
Tick.

Le gocce d'acqua si susseguivano una dopo l'altra e le colpivano un punto indefinito tra spalla e collo, eppure preferiva non scostarsi. Il pantalone della tuta blu era strappato e un vistoso taglio le percorreva l'intera coscia sinistra. Era riuscita ad arrestare la fuoriuscita del sangue con una medicazione un po' spartana, arronzata con una manica della divisa. Il piede, tuttavia, stava lentamente perdendo sensibilità.

Anaïs non riusciva a smettere di tremare. Alzava la testa e tremava. Si abbracciava e tremava. Respirava e tremava. Pensava e tremava. Colpa dell'adrenalina in circolo, si era detta per rassegnarsi, per calmarsi.

Non sapeva con certezza quanto tempo era trascorso dalla caduta nella fenditura al suo risveglio. Il piccolo cratere che si era aperto sotto i suoi piedi adesso appariva, per sua sfortuna, distante e minuscolo: sopra l'Hekla e sopra di lei, il cielo cominciava a tingersi di rosso.

Avrebbe dovuto muoversi, trovare una soluzione; rimettersi in piedi e gridare aiuto a squarciagola, fino a sentire le corde vocali dolere. Ma il tremore era insopportabile, ingestibile e onnipresente. Le faceva battere i denti e le contraeva i muscoli, provocandole fitte dolorosissime nei pressi del taglio aperto; la costringeva a mandare giù corpose boccate d'aria, nonostante sentisse di star per soffocare.

La luce della torcia sfarfallava di tanto in tanto, ma non si azzardava a sollevarla o spegnerla. La cosa importante, per ora, era restare vigile. Sempre.

Il solo pensiero di chiudere gli occhi la terrorizzava. Pensare di alzare la voce oppure muoversi con cautela per assumere una posizione più comoda, peggio.

Perché anche se non aveva più i bulbi oculari, quel cumulo di carne rinsecchita abbandonato nell'angolo opposto al suo sembrava scavarle dentro di minuto in minuto.

Era morto composto. Sedeva a gambe divaricate e la testa gli pendeva a destra, come se si fosse spento mentre fantasticava ad occhi aperti.

Ma non trasmetteva tranquillità. Tutto, di lui, parlava di una morte violenta, Anaïs lo sapeva. Oppure era stata la paranoia a suggerirglielo, date le circostanze. Fatto stava che pure sbattere le palpebre avrebbe potuto privarla momentaneamente dell'unico senso capace di percepire il pericolo in maniera istantanea.

Ma è morto, si ripeteva tra un ansimo e un altro, che male possono fare i morti?

L'ennesima gocciolina precipitò dall'alto e le colpì in pieno la ferita, facendola sobbalzare per il dolore. Anaïs si morse il labbro per trattenere un lamento.

In un gesto involontario, spostò le pupille sulla macchia di sangue rappreso che le sbocciava sotto la coscia. La luce bianca proiettata dalla torcia oscillò un momento, malleabile e instabile, e le rocce tutt'intorno parvero animarsi di colpo. Le ombre si allungarono, come tirate via con la forza, e, viscide, strisciarono nel centro del cunicolo.

Tick.

Anaïs alzò subito lo sguardo e lui le sfiorò il ventre coi polpastrelli, tanto erano vicini, in un gesto curioso e impalpabile. Adesso non sembrava più così morto.

Tick.

Sto impazzendo?

...
...

Tick.

...
...

Va' nella foresta di Hallormstaðarskógur, nei pressi di Egilsstaðir. La testa è sepolta ai piedi di una betulla. Lei ti indicherà qual è. Tu recidi il legame e tornerai a sentirmi.

Torneremo a essere uno.











Te lo prometto. 

✖ Nel prossimo capitolo, "Zitta e nuota":

Aveva ancora così tante domande... e il tempo non era mai dalla parte di entrambi. I secondi, seppur potesse giurare di non avvertire il loro scorrere quando era nel Litlaus, avevano una valenza incredibilmente fondamentale per lei. Il motivo era tanto semplice quanto scontato: i tempi di Lór li scandiva la terra, il giorno, la notte; quelli di Bo' erano di competenza opposta, com'era giusto che fosse. Conciliare, conciliarsi, al momento, era e sarebbe stata un'impresa... contro natura.

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