52. Zitta e nuota

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Torneremo a essere uno.

Uno. Una cosa che è quella e basta.

Uno che è indivisibile, inscindibile come principio originario, primordiale, che si è generato prima di qualsiasi altra, e che l'ha fatto autonomamente.

Essere due, amare per due, soffrire in due, poi retrocedere. Accettarsi, fondersi, evolversi, seppur all'inverso. Vivere dell'uno e vivere dell'altra. Insieme, senza escludersi. Tornare ad essere uno, senza però annullarsi.

Lór contò fino a uno e spalancò gli occhi. Era ancora supina e i capelli si aprivano dietro la testa come la corolla di un fiore. Il silenzio era intessuto nell'oscurità che le si agitava, quieta, intorno.

Si concentrò su di una ciocca che invase il suo campo visivo e si stupì di quanto fosse bionda - i colori c'erano, seppur apparivano slavati come acquerelli. Poi si guardò le braccia, aperte e abbandonate lungo i fianchi, e provò a muovere le gambe, anch'esse sospese in quel vuoto che dava l'impressione di non esserlo veramente.

Come volevasi dimostrare, il pensiero non arrivò a tramutarsi in azione. Non era ancora tornata a essere padrona di se stessa come avrebbe voluto.

Non poteva comunicare a parole, ma nel limbo in cui stava galleggiando viaggiò un pensiero che, veloce, si dissolse come un eco che raggiunge il fondo di un pozzo.

Ti avevo chiesto di dirmi cosa siamo, non cosa siamo stati.

Trascorse un momento di assoluto silenzio e Lór lo rispettò pur di non risultare petulante. La voce di Testa di Cervo le rimbombò subito dopo accanto all'orecchio, quello destro.

Un passo alla volta.
Perché?
Perché cosa?
Perché proprio io? Perché proprio la mamma?
Non sono domande da fare.

E perché no?, pensò con insistenza Lóreley e gli occhi rotolarono verso l'alto.

Le sembrò di esser tornata bambina, quando il suo mondo iniziava e finiva nella banale routine di Selfoss, la Francia era soltanto una macchia colorata sulla cartina geografica e la sua concezione di bene e di male era decisa dai no e i borbottati da Anaïs. Ma ai tempi, tutto era più facile: aveva dalla sua l'ingenuità, l'essere di diritto un innocente. Sbagliare le era concesso. Lamentarsi, pure. La voglia di sapere era un'altalena in continuo movimento che, tuttavia, poteva fermare quando le pareva.

Ma non era più così. Non poteva esserlo. L'altalena non si sarebbe più fermata; lei non avrebbe più steso le gambe e piantato i talloni a terra per scendere. Qualcosa di più grande avrebbe continuato a spingerla all'infinito, sempre più veloce, fino a farle venire la nausea. Perché, dopo anni d'incompletezza, si era lasciata alle spalle l'innocenza, l'infanzia, la concessione di poter sbagliare senza limiti.

Per tornare ad essere uno bisognava sapere e soprattutto ascoltare i compromessi. Non i suoi, ovviamente.

Il primo trattava proprio l'accettazione. L'accettare di star vivendo una vita che le apparteneva soltanto a metà, seppur Testa di Cervo si ostinasse ad affermare il contrario.

Ci sono cose di me che imparerai solo vivendo. Ci sono cose di te che imparerai alla stessa maniera – rispose Bo'. Le pupille di lei rimasero ancorate al puntino di luce che adesso forava il nero. Avrebbe voluto sfiorarlo con l'indice e restare a guardare cosa sarebbe successo se si fosse azzardata a farlo.

Questo dovrebbe farmi desistere dalla promessa che ti ho fatto?
Sono sempre stato un uomo di parola. Non morirai. Non ci ucciderai.
Ma adesso non lo sei più.
Un uomo, dici?

Lóreley spalancò la bocca e l'inconscio la spinse a emulare un sospiro esasperato. La pesantezza di un corpo materiale, fatto di carne, muscoli e ossa stava lentamente tornando e, con esso, quella marmaglia di gesti involontari che la lei vivente avrebbe fatto dall'altra parte. Tuttavia, ogni suo movimento compiuto appariva rallentato, come se il nero in cui stava sospesa fosse in realtà un'infinita distesa liquida.

Vorresti dire che non è così?
Adesso sono tutto.
No. Adesso sei me.
Non ancora.
E quanto tempo ci vorrà?
Il giusto – annunciò Bo', dopo aver taciuto per un po'.
E come sarà essere uno?
Non lo so.
Strano, tu sai sempre tutto.
Ci sono cose che preferisco ignorare per quieto vivere.
Per quieto vivere...
... Per non impazzire. Dovresti cominciare a farlo anche tu.
Ora come ora credo di esserlo già. Pazza, dico.
Può darsi.
E me lo dici così?
Io non ho insinuato nulla. Sei permalosa.
Ho preso da Anaïs.
No. Tua madre è solo stronza.

Lór, sopraffatta dall'istinto, aggrottò la fronte per esprimere irritazione – ma, viste sotto una luce diversa e palese, sarebbe stato un tantino ipocrita andare contro quelle parole. 

Hai veramente dato della stronza a mia madre? Dopo quello che le hai fatto?
Io non ho fatto proprio nulla.
Ti ripeto che le tue bugie sono anche le mie.
Appunto.

Lóreley preferì non rispondere e riuscì a portarsi un braccio al petto, altezza cuore, non appena il foro di luce parve dilatarsi, arrestandosi solo quando ebbe raggiunto una circonferenza notevole, grande abbastanza da illuminarla per intero. Il bisogno di allungare una mano e tastarne la consistenza divenne irrefrenabile.

Eppure il coraggio di farlo venne soppresso da un bisogno interiore più urgente. Aveva ancora così tante domande... e il tempo non era mai dalla parte di entrambi. I secondi, seppur potesse giurare di non avvertire il loro scorrere quando era nel Litlaus, avevano una valenza incredibilmente fondamentale per lei. Il motivo era tanto semplice quanto scontato: i tempi di Lór li scandiva la terra, il giorno, la notte; quelli di Bo' erano di competenza opposta, com'era giusto che fosse. Conciliare, conciliarsi, al momento, era e sarebbe stata un'impresa... contro natura.

Senti...
So cosa stai per chiedermi e la mia risposta è no. Non sono stato io ad aver influenzato le decisioni di tua madre. Io ho solo guardato avanti e ho visto te. Niente di più, niente di meno.

Niente di più, niente di meno. Certo. Perché per lui era tutto così... così...

Comprensibile? Chiaro? Evidente?

Capibile?

Il fatto che tu dia tutto per scontato mi fa sentire stupida.
Non ce n'è motivo.
Ah, no?
Dai tempo al tempo.
E se non fosse abbastanza?
Lo sarà. L'ho visto.
L'hai visto tu, mica io...
Fidati.
Sono una persona molto impaziente e con la puzza sempre sotto il naso, sappi anche questo.
Lo so. Ma ti converrà ascoltare quello che sto per dirti: trattieni il respiro.

Le labbra di Lóreley si ruppero in una smorfia frustrata e, inconsciamente, imitò un secondo sospiro per scaricare il nervosismo. Una manciata di bollicine si librarono in alto un istante più tardi, finendo per unirsi al bagliore che impediva alle tenebre di inghiottirla.

Ti ho appena detto di non respirare.
Ma...?, e lei tirò su col naso.
Adesso nuota.

I cinque sensi, rimasti dormienti fino a quel momento, si sovrapposero tra loro, creandole un irto guazzabuglio di percezioni, tanto violento da pungerla e stordirla. Lóreley sgranò gli occhi intanto che il bruciore scatenato dal cloro le irritava la gola e le comprimeva i polmoni in una morsa letale.

Ci aveva visto bene, benissimo: era ancora lì, sul fondo della piscina. E stava per morire annegata. Il tempo, il loro tempo era scaduto.

Come al solito.

'Fanculo, Bo'! 'Fanculo, 'fanculo, 'fanculo!

Fendette l'acqua con le dita e con i piedi nel vano tentativo di risalire in superficie, ma il panico ebbe la meglio. O forse, ed era più che probabile, la permanenza inaspettata nel Litlaus l'aveva debilitata fisicamente.

D'un tratto aveva dimenticato come nuotare – o meglio: era il suo corpo ad averlo dimenticato, non lei.

Fu stupido pensarlo, era impossibile; lei aveva vissuto nell'acqua, con l'acqua, per l'acqua, arrivando a desiderarla come si desidera un letto per dormire. Ma ora si era inaspettatamente tramutata in una trappola. Tornare a coordinarsi dopo aver passato così tanto tempo senza aver bisogno di muoversi in termini materiali, poi, peggio che andar di notte, e la scarica d'adrenalina che la investì in pieno le ricordò quanto complicato fosse reagire agli impulsi dettati della paura.

Scalciò e il piede sinistro scivolò sul fondale della piscina. La spinta fu debole, troppo, e l'acqua già ingoiata cominciò a pesarle nello sterno.

Guardò in alto, agitando le braccia, d'un tratto pesanti come blocchi di pietra. Spalancò le labbra e un vortice di bolle, l'ultimo, s'innalzò e le oscurò la visuale.

Stava per affogare nel modo più idiota e impensabile. Ma qualcuno, per sua fortuna, non fu della stessa idea.

Il pelo dell'acqua, rimasto piatto fino a quel momento, si ruppe in centinaia di onde scoordinate, annunciando l'entrata di un secondo individuo.

Lóreley tentò un ultimo balzo, facendo leva sulle punte dei piedi. L'attimo seguente, la sua testa era fuori. Si lasciò trascinare da Gaël che tossiva a più non posso. Con gli occhi ancora chiusi per lo spavento, tastò il bordo e vi si aggrappò in un gesto disperato, gioendo internamente nell'avvertire la sua solidità e la freddezza sprigionata dalle piastrelle.

Ber e Werner la tirarono su e Lór si lasciò cadere su un fianco, ignorando i vetri degli specchi rotti che le pizzicavano la pelle, nonostante i vestiti fradici a farle da scudo. I fiotti d'acqua che le sgorgavano dalla bocca ad ogni colpo di tosse sembrarono non finire mai.

"Ehy, va tutto bene" Bergljót la sollevò per le spalle, aiutandola a tornare seduta. La sua voce era bassa e distante. "Va tutto bene, okay? Tranquilla".

Lóreley sfarfallò le ciglia in modo convulso, le braccia contratte contro il ventre e le gambe piegate in maniera scomposta.

Parlò a vanvera, seppur avesse cominciato a singhiozzare come una mocciosa.

"Tutto bene un cavolo. Penso di aver b-bevuto tutta l'acqua della p-piscina".

Ber l'abbracciò, non prima di essersi assicurata che gli occhi fossero tornati azzurri. "Esagerata".

Gaël uscì dall'acqua e rimase fermo sul bordo piscina. Lui e Lór si fissarono un attimo.

"Adesso siamo pari, Dubois" e strizzò un lembo della camicia a scacchi, spostando infine lo sguardo altrove.

Beh, poteva dirlo forte. Fortissimo.

"S-se lo dici tu" rettificò lei, reprimendo un altro colpo di tosse. Si liberò dall'abbraccio di Ber per respirare meglio. "Mi ha portata nel Litlaus" disse e puntò gli occhi su Johanna e Werner, tuttora vicini. Il trucco di lei, di sicuro waterproof, aveva retto benissimo la nuotata fuori programma. "Non so come... come c'è riuscita, ma le ho parlato. So dov'è la testa".

Johanna gonfiò il petto e tornò in piedi, rifiutando l'aiuto di Werner con un gesto carico di stizza. "Dov'è?" balbettò, e una punta di timore le incrinò la voce.

"N-nella foresta di Hallormstaðarskógur" annunciò Lór, cercando di tenere a bada il pianto. "Lo smaltimento è già arrivato al suo limite".

Lo sguardo di Gaël si fece torvo. "Ne sei sicura?"

"Certo che lo sono, m-me l'ha detto lei!"

"Come ho fatto a non pensarci prima..." mormorò d'improvviso Johanna, come se fosse stata colta da una geniale un'illuminazione.

"Già. Beh, alla fine ci sei arrivata. Meglio tardi che mai".

Ber gli si rivolse con tono serio. "Gaël, dacci un taglio".

Il ragazzo contrasse la mascella, come se gli avessero pestato un piede di proposito. Non era certamente nella posizione di avanzare richieste o fare battute di cattivo gusto. Finire col culo bagnato nel mezzo di una tormenta non sarebbe stato il massimo.

"Cortesemente, Prima fra tutte, potrei almeno usufruire della sua asciugatrice?" rincarò lui. Non era nel suo stile riporre momentaneamente le armi, nossignore.

Johanna sollevò un sopracciglio. Werner si passò una mano sulla faccia per nascondere la smorfia afflitta che gliela aveva attraversata.

"Sarei quasi tentata di fare un esperimento, a dirla tutta".

"Sarebbe a dire?"

La padrona di casa guardò fuori, osservando attentamente la velocità di caduta della neve, quasi ne fosse rimasta rapita. D'un tratto si lisciò i capelli non più in ordine e, forse ferita nell'orgoglio, sollevò il mento prima di parlare.

"Vorrei sbattere sia te e che Dubois sul pianerottolo, rigorosamente nudi come dei cazzo di vermi, e vedere chi dei due schiatta per primo".

"Si può sapere che cosa c'entro io, adesso?" ribatté Lór.

"Tu" e Johanna le dispiegò l'indice contro, indicandola con un po' troppa foga. "Tu c'entri sempre, sappilo".

E si trascinò nel salotto che borbottava fra sé e sé.

✖ Nel prossimo capitolo, "La triste non-vita di un seiðmaðr":

"Tuttavia poteva accadere che il nuovo prescelto potesse essere un maschio. Alla scoperta del sesso, nessuno di loro ne usciva vivo. Molti venivano ammazzati dalla Cerchia stessa poche ore dopo il parto. Venivano volgarmente chiamati seiðmaðr" le spiegò. "I seiðmaðr, per quanto rari fossero, rappresentavano una minaccia per le antiche tradizioni e la gerarchia vigente. Nella mia famiglia ce n'è stato uno: il mio trisavolo. È l'unico seiðmaðr ad aver vissuto abbastanza... trent'anni circa, mi hanno detto. E morendo, ha portato con sé il segreto del dono della vǫlva, senza restituirlo all'Albero. Non so altro, in famiglia evitiamo di toccare l'argomento. Però abitiamo nella sua casa alla Baia".

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