55. Rubare in casa d'altri

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Johanna estrasse dalla busta di carta un gomitolo di lana rosso e pizzicando il filo all'estremità sfilacciata, compì quattro giri attorno al tronco di una betulla.

A girotondo concluso accarezzò la corteccia deturpata da solchi profondi per imprimersi nei polpastrelli lo spessore di una manciata di essi. Dopodiché riprese a camminare senza fornire alcuna spiegazione, nonostante quella fosse la terza sosta inattesa nell'Hallormstaðarskógur.

Una cosa era però certa: più si allontanavano dalla strada -ultima segno di civiltà al di fuori della foresta-, più aumentavano i nodi attorno ai tronchi. Ciò riportò alla mente di Lór il primo Decanto a cui aveva preso parte: prima di introdursi nel Litlaus, Ber aveva annodato ai polsi di tutti i partecipanti il filo che, contro ogni logica esistente, era rimasto rosso anche nell'aldilà incolore. Probabile che pure lì, nella foresta di betulle, il filo stesse assumendo una sorta di funzione segnaletica per agevolarli durante il ritorno. Ma era effettivamente così?

Mentre Lóreley ci meditava su in silenzio, catturò con la coda dell'occhio un'ombra che poco rassomigliava a un albero. Rallentò la camminata sbilenca fino a fermarsi, alitando fuori un ragazzi piuttosto insicuro, e a udirla fu solamente Werner.

Un prurito anomalo si espanse sulla mano marchiata dalla spire intanto che lei la guardava da lontano, una quindicina di metri a separarle per davvero. La pelle del suo volto non era più sul punto di sciogliersi e vestiva gli abiti di una normalissima teenager degli anni duemila. Era bella, proprio come si aspettava fosse stata, con quei suoi capelli adesso puliti e l'anello che le pendeva sull'arco di Cupido, ma... era infelice.

Come si può essere felici, una volta morti?

Dísella prese a camminare nella direzione opposta alla loro e Lóreley comprese al volo le sue intenzioni. Seppur a fatica, sforzò i muscoli indolenziti delle gambe e tentò di mantenere il passo dello spettro, con la speranza di non perderlo di vista. Johanna vociò una domanda alla sue spalle, ma non ci diede peso, o meglio - il fischio che si era fatto largo nelle sue orecchie aveva annullato la percezione di tutto ciò che aveva attorno.

Seguire Dí fino alla sua tomba divenne il suo unico chiodo fisso.

"L'ho vista, è dillà" riuscì a sillabare in un breve momento di lucidità, mentre i piedi scivolavano sulla neve fresca e respirare a bocca aperta diventava, movimento dopo movimento, più doloroso di una boccata d'aria ingoiata dopo una lunga apnea. Si aiutò con le mani a spazzare via un cumulo di neve per passarci in mezzo, poi svoltò improvvisamente a sinistra, nei pressi di un'altra betulla incisa. I piedi percepirono troppo tardi un dislivello del terreno, ma i riflessi di Werner le impedirono di ruzzolare in avanti.

Il fischio accanto al timpano andò a scemare. Lór sfarfallò le ciglia frattanto che l'udito tornava ad abituarsi al silenzio apparente che riempiva la foresta.

Bergljót affiancò i due. Poi gli occhi rimbalzarono dal viso di Lór alla betulla più grande che avesse mai visto in Islanda. "È sepolta lì? È quella la betulla?" chiese, il mozzicone adesso spento incastrato nell'angolo destro della bocca.

Lór annuì una volta soltanto. Anche se Dí era ferma davanti all'albero nessuno dei presenti parve notarla. Tutti continuarono a scandagliare l'area circostante con occhiate lugubri, tranne lei. Tranne lei che preferì morsicarsi il labbro fino a farlo sanguinare per non aggiungere altro.

Parlare sarebbe stato superfluo. Il secondo punto della lista era vicinissimo: profanare, a detta di Gaël, sarebbe stato lo step più semplice, perché voleva significare che era finalmente salva. Ma era tutto fuorché vero. L'infelicità di Dísella le si era annidata dentro come un parassita, ora che erano così unite. E faceva schifo.

Werner allentò la presa attorno al suo avambraccio. "Indicaci il punto" mormorò poi.

Le gambe di Lór si mossero da sole, quasi fosse stata stregata da paroline magiche alla sin-sala-bim. Si avvicinò alla vera Dí che l'ansia le stritolava viscere, cuore e cervello, e smise di camminare solo quando fu certa di poterlo fare. Tremante tese un braccio e indicò la porzione di terreno calpestata dallo spettro. Poi si scostò per lasciare lo spazio di manovra necessario a Werner e Gaël.

Entrambi i ragazzi si coordinarono per cominciare a scavare senza più fermarsi.

Dí sparì dal campo visivo di Lóreley col primo colpo di vanga.

L'attesa si fece carica di sentimenti contrastanti, troppo scomodi da sfogare e infinitamente complessi da poterli spiegare a parole. Lór continuò a guardare il manto bianco ai suoi piedi, Ber fumò un altro drum mal rollato. Jo, invece, giocherellò col suo trapezio di vetro per fingere tranquillità. Il nervosismo che l'aveva sorpresa dall'entrata nell'Hallormstaðarskógur non era da sottovalutare.

La sua impazienza di uscire dalla foresta era palese e ogni sua occhiata scaraventata negli anfratti più oscuri della boscaglia portò Lóreley a immaginare scenari terrificanti. Vederla trasudare tutta quell'inquietudine, in un luogo di cui solo lei vantava visite precedenti, non lasciava presagire nulla di buono. Aveva stroncato la curiosità di Ber sul nascere, evitando in maniera plateale di sbilanciarsi troppo sull'argomento Sospesi, e adesso stringeva la scheggia come si stringono i tesori più cari al mondo.

La voce di Bergljót la liberò dai pensieri in cui si stava incartando. "Vuoi?"

Lór scosse la testa, presa alla sprovvista. Era la prima volta che Ber le offriva da fumare.

"No, ti ringrazio".

Ber fece spallucce e aspirò, avida, un'altra boccata di fumo. "Questo è un brutto vizio, lo so. Però ha il potere di calmarmi, anche se dovrebbe essere il contrario. Probabile che sia la dipendenza a parlare. Forse il mio cervello, come molti altri, ha associato la tranquillità alla sigaretta. Che schifo".

"Le gomme da masticare non attenuano il desiderio di fumare?"

"All'inizio sì, era efficace. Poi masticarle è diventata un'abitudine e la cannella ha cominciato a disgustarmi".

Lór arretrò di mezzo metro e Ber compì un piccolo balzo all'indietro, restando in bilico sulle punte degli anfibi. Gaël e Werner erano appena passati dallo spalare via la neve allo straziare la terra umida con le punte degli attrezzi. Chissà per quanto ancora avrebbero dovuto scavare...

"Io non so come fai a masticarle. Hanno un odore troppo forte".

"Il sapore mi ricorda la vinarterta che preparava la mamma" si confidò Ber in tutta tranquillità, e questo ebbe il potere di turbare Lóreley. Si parlava e si erano parlate poco sulla questione Mercedes: come un'ombra, la morte della suddetta rendeva oscuro una parte del vissuto dell'amica. Ma perché parlarne proprio durante la ricerca di una testa?

Lóreley si passò la lingua sui denti. "La vinarterta del Koffibarin è buona".

"Sì, ma non è come quella della mamma".

I due ai piedi della betulla lasciarono cadere le vanghe all'unisono e il discorso morì lì. Una bava di vento gelido accarezzò le fronde degli alberi e la terra innevata, accompagnando Gaël nella lenta discesa che lo portò ad abbandonarsi sulle ginocchia.

Il crepitio prodotto da una busta stropicciata convinse Bergljót a tornare ritta e Johanna a prestare attenzione a ciò che il ragazzo recuperò dal buco nel terreno.

"Una busta di plastica" lo sentirono mormorare mentre si voltava, esitante, strascicando le suole per mantenere stabile il proprio equilibrio. Il tono della sua voce non esprimeva nulla, assolutamente niente. "Hanno messo la sua testa in una busta di plastica. Come se fosse immondizia".

Il ragazzo della Baia aprì e serrò le dita attorno a quel macabro atto di disumanità. Neanche lui credeva di star toccando i rimasugli di una persona che un tempo era stata viva. Che era stata sua.

Diavolo, una testa umana sepolta ai piedi di una betulla, in una foresta dimora di oscure presenze.

Una colpa occultata in un saccone nero.

Dell'immondizia, per l'immondizia.

Nemmeno il privilegio di poterle garantire una tomba in cui riposare. Nemmeno l'accortezza di darle pace una volta morta.

No.

Santo Dio, no.

No, no, no.

Era troppo.

"Come se fosse immondizia, cazzo!"

"Gaël, ora calmati..."

"Calmarmi? Devo calmarmi, dici? Porca puttana, Werner, ti rendi conto di quel che ho in mano? La nonna di Johanna va in giro a decapitare adolescenti e io dovrei pure darmi una calmata?"

Johanna tremò come un uccellino sul punto di morte.

"Cazzo, Jo', guarda. Guarda che avete combinato..."

"Non ti avvicinare".

"Guarda! Dio mio, voi siete pazzi!"

"Ti ho detto di non avvicinarti!" gridò lei e nell'indietreggiare incespicò nei suoi stessi piedi, restando in bilico sulle gambe non più stabili. "Tu sai come sono andate le cose, no? Ho capito le mie colpe, te lo giuro, e smetterò di negarle se questo potrà farla stare meglio... ma rimani lontano. Ti prego. Basta, rimani lontano".

"Tu... voi..."

"Rimani lontano" ripeté Johanna, la voce ridotta in un bisbiglio aspirato.

Gaël tastò ancora la busta, quasi volesse assicurarsi dell'effettiva natura del suo contenuto. Balbettò qualcosa d'incomprensibile intanto che le lacrime gli scendevano copiose sul viso, annacquandoglielo. Il dolore aveva infine trovato la sua valvola di sfogo: il pianto a cui si abbandonò fu un pianto strano, distorto, un pianto mal interpretato, tipico di una persona che non piangeva da eoni.

Davanti alle coscienze sporche dei profanatori, si manifestò in tutta la sua più pura essenza la sofferenza di un essere umano che si era sempre rifiutato di cedere a un istinto così sincero.

Per attimi infiniti, la foresta divenne teatro di quella angosciosa disperazione, la neve il suo palco e i colpevoli degli spettatori inermi.

Perché i colpevoli erano loro, tutti loro presenti: la nuova generazione, l'èlite di una società occulta che arrancava per sopravvivere nella nuova era.

Era colpevole Johanna, poiché Prima. Era colpevole Ber, in quanto Seconda in carica. Era colpevole Werner a causa della sua passiva e consapevole sottomissione.

Ed era colpevole anche...

No.

Lóreley decise di mettere fine a quel supplizio. Scansò ogni convinzione, concezione e supposizione, trascinandosi pesantemente davanti a quel suo grande miracolo cosmico. Per un momento le parve di sentire il canto dei gabbiani riempire il cielo e i ciottoli della spiaggia sotto le scarpe.

Fu allora che, incoraggiata da quelle memorie, gli accolse le mani tra le sue e strinse, strinse fino a fonderle assieme.

"Abbiamo un accordo" gli sussurrò. "E gli accordi si fanno in due" aggiunse, cercando una fenditura nel muro liquido che gli straripava dagli occhi. Gli occhi dicono e fanno meglio delle parole stesse. "Lascia un po' del peso a me. Non sei solo. Ma tu, tu lasciala andare".

Gaël sigillò in gola un lamento. La presa attorno al cranio non accennava a dissiparsi.

"Mi manca".

"Sta soffrendo nel Litlaus, Gaël".

"Non meritava questo. Mi manca da morire".

"Lo so".

Lo so. No, lei non ne sapeva un bel cazzo di niente. Lei non poteva neanche immaginare cosa volesse dire vivere una situazione simile. Perdere ciò che si è amato, ritrovarlo e poi smarrirlo di nuovo.

Oppure sì. Sì che lo sapeva, sì!

Perciò anche Lór si unì a quel pianto illogico. E il corpo, per la prima volta dopo tanto tempo, seguì il ritmo dei suoi pensieri: sollevò un braccio e lo lasciò scorrere dietro il collo di Gaël, affinché potesse avere un appoggio mentre le loro fronti si sfioravano.

In quel momento apprezzò la sua empatia, disprezzando, invece, l'intero contesto. Gaël era troppo giovane e sincero per soffrire a causa della morte e meritava più di un abbraccio sbilenco, di una rassicurazione. Era vero, non lo conosceva ancora abbastanza, ma se il cosmo li aveva voluti insieme, a soppesare ognuno i dolori dell'altra, un motivo doveva pur esserci.

Il destino adorava dare una motivazione alle sue scelte e a Lóreley piaceva pensarla così. Appunto per questo amò quella vicinanza inaspettata, attendendo pazientemente la fine di tutto. Una fine che arrivò come il sole dopo una giornata piovosa: la presa di lui si allentò e Lóreley accolse quel fardello nell'incavo del gomito, proteggendolo tra braccio e sterno.

Lór tornò composta e si voltò verso Johanna, ma non la vide.

Il sussulto che le attraversò le membra sembrò crescere ed espandersi fino a raggiungere l'essere che la stava sovrastando.

Di riflesso, uno spicchio si disegnò sul volto emaciato del Sospeso, mutando, infine, in una bocca priva di labbra, lingua e denti.

Perché rubate in casa d'altri?

✖ Nel prossimo capitolo, "Scambio equo":

Lór sibilò quella parola sottovoce, sputandola a denti stretti tra la neve, come se ne avesse sempre saputo l'utilità e soppesato il significato. Bastò quella, sillabata a mo' di ordine, e la parte superiore dello spettro si compresse a tal punto da creare una microscopica interferenza in quel pezzo di realtà. Un attimo ancora e braccia, testa e torso dello spettro si ridussero in brandelli tanto leggeri da galleggiare per aria, come polvere che tenta di posarsi su una superficie. Braccia e gambe sformate, invece, si sciolsero come neve al sole. 

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