59. Caccia alla volpe

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Saliva un brivido lungo la spina dorsale. Poi un altro, e un terzo capace di lasciarla senza fiato intanto che l'esame di coscienza –così apparentemente lungo quanto la storia di una vita, ma breve come un battito di ciglia– si annullava dentro e attorno a lei. Lóreley ebbe l'impressione di cascare dal cielo, la carne di nuovo calda e pesante attorno alle ossa e le guance in fiamme. L'attimo seguente l'istinto s'impadronì nuovamente del suo corpo e le mani, inaspettatamente veloci, si ancorarono ai bordi del lavandino per assicurarle una più concreta stabilità.

Riaprì gli occhi che una goccia d'acqua, una delle poche rimaste a indugiarle sul viso, si andava a schiantare sulla ceramica sotto il suo naso.

Il lieto fine non c'era mai.

Un respiro più forte degli altri, sbuffato dalla bocca, le seccò le labbra. Il suo attuale riflesso nello specchio aveva forme e colori umani.

Loro sono miei amici.

Aveva addosso forme e colori che parlavano solo e soltanto di lei. Ma Bodvár c'era.

Bodvár c'era sempre.

"Non mi farebbero mai del male" sussurrò senza smettere di guardarsi. "Non lo farebbero... mai. Neanche se sapessero che sono io ad avere il dono".

Non puoi saperlo.

"E tu? Tu lo sai?"

Lo spettro non rispose, accrescendo l'inquietudine in lei. Lór contrasse le dita attorno ai bordi del lavello, arrivando a graffiare la ceramica pur di non darla vinta alle lacrime.

"Parlami, Bodvár".

La Seconda non ha mai smesso di indagare sulla tua dote e stare a così stretto contatto con la Cerchia non è l'opzione migliore. Hanno delle priorità: una di queste sei tu a possederla.

"Farò in modo che..."

Lo scopriranno.

Lóreley deglutì e, nel farlo, le parve di mandare giù una palla di chiodi.

Mi dispiace.

"E, adesso..." Lór si umettò le labbra. "Adesso che faccio?"

Uno scricchiolio a destra, proprio accanto alla porta. Lór si voltò per indagare, e una grossa lacrima le cascò giù per la guancia.

Anaïs la guardava come si guardano i bimbi che sbagliano e non sanno come chiedere scusa – con sincera, stupida, maledetta apprensione, come se avesse percepito l'effettivo frantumarsi di qualcosa all'interno di Lóreley. Quello che le stava riservando era uno sguardo misto a un modo di fare che la più piccola non aveva mai sopportato, che non voleva più subire sulla propria pelle. Perché Anaïs l'aveva sempre messa al primo posto, in ogni cosa, sacrificandosi e chinandosi e rompendosi sempre in mille pezzettini pur di spronarla a essere migliore di lei, migliore di qualsiasi altra fottuta Østergaard mai esistita prima.

Ma l'aveva fatto nel modo più sbagliato possibile e quell'occhiata consapevole ne era la prova inconfutabile.

Lóreley non era migliore di nessuno. Non lo sarebbe mai stata.

Lóreley voleva semplicemente essere come gli altri. Né prima né seconda né vǫlva; soltanto uno scarabocchio nero in una valanga di scarabocchi neri fatti su un foglio bianco.

Io sono così, scusa mamma, questo avrebbe voluto dirle, strillarle in faccia con tutta l'aria che era capace di conservare nei polmoni. Io sono così e... e non l'ho deciso io. Io sono così, ma non è colpa tua. Non è colpa di nessuno, a quanto pare.

Quanto avrebbe voluto gridarle che... oh, mamma! Se tu non fossi mai caduta nella fenditura, io...

Io... non sarei...
Io... non...

"Voglio andare a stare da papà".

Gli occhi di Anaïs si fecero grandi e lucidi. Ora era Lóreley a guardarla con sentita preoccupazione.

"Lo so".

Certo che lo sai. L'hai sempre saputo che sarei scappata.
Ma perché sto scappando via?
Perché ho così paura, adesso?

"Poi tornerò" aggiunse in un sussurro.

Perché devo per forza tornare?

Le labbra di Anaïs si arricciarono, lasciando uscire allo scoperto un sorriso timido – innaturale e artificioso per una come lei, ma le lacrime di mamma che le bagnarono il viso subito dopo rivelarono cosa in realtà stesse provando. Annullò le distanze con Lór barcollando sui tacchi a spillo e le sfiorò una guancia. Poi le dita corsero a raccoglierle una ciocca umida che le pendeva vicino al naso – ennesima imperfezione che Anaïs sentiva di dover a tutti i costi aggiustare.

Perché non mi dici restare?

Mentre gliela incastrava dietro l'orecchio, la donna le mormorò: "Quando sono andata via Danielle mi ha costretta a tornare contro la mia volontà e sono rimasta anche quando non volevo più restare. Torna solo quando vorrai tornare... non essere come me" le suggerì alla stessa maniera di una risposta mormorata nel bel mezzo di un esame a sorpresa. "Non essere mai come me".

Magari fossi come te, mamma.

Quella vicinanza durò poco. Anaïs tornò presto sulle sue, indietreggiando fiaccamente fino alla porta. In un primo momento sembrò sul punto di dirle qualcos'altro, ma preferì tacere.

La luce del primo mattino, di un freddo grigio, salì ancora un poco, divorando a piccoli morsi le ultime fette di buio. Qualche giorno ancora e l'inverno sarebbe definitivamente arrivato.

Quello sarebbe stato l'inverno più freddo e strano per Lóreley che, adesso interdetta, guardò sparire sua madre oltre l'uscio in penombra. Il coraggio di richiamarla a sé le era d'un tratto venuto a mancare.

Si premette due dita lì dove era appena stata accarezzata.

Se in Islanda calavano le tenebre, allora lei avrebbe cercato il sole altrove.

Ma per quanto ancora avrebbe potuto inseguire la luce...

... Ora che aveva appena scoperto di non meritarla?

L'aria gelida di novembre si riversava all'interno delle antiche mura della Fær Øer – un cartello affisso accanto all'entrata allertava gli studenti dell'improvviso malfunzionamento del sistema di riscaldamento.

Passandoci accanto, Anaïs si era lasciata sfuggire un grugnito per scaricare il fastidio. Poi, composta come solo un Østergaard poteva essere, aveva accelerato il suo marciare facendosi spazio tra la marmaglia di universitari in fermento. Lór era rimasta alle sue spalle per tutto il tragitto, distante il giusto da non essere inghiottita dall'ombra della donna.

Ora, entrambe sedevano nell'ufficio della rettrice. Il forte odore di mentolo misto all'incenso, lo stesso che l'aveva disgustata durante il primo tu-per-tu con la Benóný, ebbe invece il potere di disorientarla. Mentre le due discutevano dell'improvviso ritiro di Lóreley e di penali da pagare al più presto per la mancata frequentazione del corso, Testa di Cervo invase la realtà circostante per sussurrarle a qualche centimetro dall'orecchio. Tutto, attorno a lei, sembrò andare in muto, come se qualcuno avesse schiacciato il pulsante di un telecomando per zittire una noiosa telenovelas.

Sta' calma.

Lór cambiò improvvisamente posizione, accavallando le gambe e raddrizzando la schiena. Senza smettere di parlare, Anaïs le lanciò una breve occhiata.

Era proprio necessario che venissi anche io qui con mia madre?
Sì.
Ho paura.
Lo sento.

La rettrice allungò una pila di fogli verso Anaïs e il pulsante immaginario venne cliccato un'altra volta. "Ne sono consapevole, signora Østergaard. Ma sarò sincera con lei: prevenire è meglio che curare. Su questo, la saggezza popolare non sbaglia mai. La prego, quindi: porti questi documenti in segreteria" e sventolò appena i moduli da compilare. "Nel frattempo procederò con le pratiche di Lóreley" aggiunse, posando gli occhi sottili e glaciali sulla suddetta. "Qualche firma e potrete andare".

L'avvenente matriarca degli Østergaard afferrò borsa e cappotto e uscì all'istante. Lór rimase immobile sulla poltroncina in legno scuro, foderata da cuscini di velluto rosso. Un cerchio invisibile le cingeva la testa, da tempia a tempia.

La rettrice continuò a dare retta solo ai documenti sparpagliati sulla scrivania. Di tanto in tanto digitava svogliatamente sul portatile al suo fianco, scarabocchiava qualcosa di incomprensibile all'interno di un fascicolo con la copertina blu. Ma allo scoccare del terzo minuto di silenzio non voluto, la più anziana, senza distogliere lo sguardo dalle proprie scartoffie, esordì con un: "Com'è la Francia?"

Lór sbatté le palpebre un paio di volte, come se fosse appena stata accecata da un flash improvviso. "Com'è?"

"Sì. Com'è?" Benóný si concentrò su di lei e, nell'osservarla, si sistemò gli occhiali sulla punta del naso. Sorrideva.

"Bella" e, a corto di parole e pensieri, Lór si schiarì la voce. "Molto... bella".

Lór.
Sono calmissima, maledizione. Calmissima. O almeno mi sto sforzando di sembrarlo.
Hai cominciato a tremare.
Oh, beh, grazie per la rettifica non gradita. Ma è difficile non pensare a...

La rettrice lasciò cascare di nuovo gli occhi sul fascicolo aperto. Appose l'ennesimo e sbrigativo scarabocchio, proseguendo la sua chiacchiera di circostanza. "Mi sarebbe tanto piaciuto visitarla. Purtroppo non ho mai avuto il tempo di andare. Il lavoro è lavoro" si confessò. Infine e senza aggiungere altro, segnalò con una x rossa l'angolo in basso a destra.

Lóreley si sporse un poco per firmare. Ad opera ultimata, la rettrice si alzò in piedi e lei, rigida dal busto in giù, la imitò.

Elegantemente, Benóný si aggiustò il collier di perle che le cingeva la pelle non più soda del collo e circumnavigò la scrivania. Si fermò solo quando fu vicina abbastanza da poter allungare una mano e concludere così quella disgustosa messinscena... con il saluto più formale e falso e ipocrita possibile.

Lóreley si ritrovò a digrignare i denti a bocca chiusa. Riflesse negli occhi azzurri, le dita ingioiellate e tese verso di lei. Il palmo piccolo, come quello di una bambina, ma infinitamente sudicio.

Sporco.

Macchiato di sangue altrui.

.

Lascia fare a me.

Benóný continuò a sorridere con disinvoltura, nonostante i secondi di immobilità stessero alimentando una situazione irreale, carica di una tensione anomala. Quindi agitò appena la mano per invitarla a toccare, sentire e palpare gli orribili crimini che celava dietro una pacatezza finta e calcolatrice.

Stavolta la voce di Testa di Cervo pervase ogni fibra del suo essere.

Lascia che sia io.

Lóreley socchiuse la bocca e le palpebre vennero giù da sole, improvvisamente pesanti come blocchi di cemento.

Click.

Come un bottone che viene schiacciato per cambiare canale.

L'attimo dopo ricambiava la stretta di mano con sicurezza.

"Allora, beh, goditi la Francia. Spero di poterlo fare anche io, un giorno. Che so, magari da pensionata potrei farci un pensierino su".

Quando quella Lóreley si degnò –non più per suo volere– a riaprire gli occhi, sul volto di Benóný restò solo l'ombra del sorriso che glielo aveva illuminato.

Il gelo nell'ufficio si era intensificato di colpo, come se si fossero d'improvviso trovate all'esterno dell'edificio.

"L'ultima cosa di cui lei godrà sarà il soggiorno che ha patteggiato nell'Hallormstaðarskógur" parlò atona la ragazza, piegandosi leggermente in avanti e portando il braccio sinistro dietro la schiena. Rafforzò la presa attorno al palmo della rettrice e, in un gesto datato e inconsueto, posò un bacio sulle nocche ruvide. "Salve, Benóný Hólmsdóttir. La nostra caccia alla volpe è durata più di quanto immaginassi, ma alla fine sono stato io a trovare lei. Che curioso risvolto, non crede?"

Benóný non riusciva a distogliere lo sguardo dalle iridi scure che adesso la ricambiavano con innaturale freddezza.

"Tu. Sei tu".

Lór sorrise fino a scoprire i denti e un rivolo di sangue le insudiciò le labbra. "Shht, mia signora, shhht. Avete perso, tutte quante. Allestire quel becero e patetico teatrino di Paskúm è stata una mossa decisamente avventata ed egocentrica. I favori dell'Albero non appartengono a nessuna di voi, né tantomeno a lei: sono io ad avere il coltello dalla parte del manico. Perciò le premo la lama al petto e le chiedo qui e adesso: vogliamo ancora continuare questa caccia alla volpe, Benóný Hólmsdóttir?"

Lo sguardo dell'anziana s'indurì.

"Non ho mai detto di voler smettere".

Bodvár, che era adesso Lóreley, oscillò la mano, come a siglare un tacito accordo.

"E così sia, mia signora. Bodvár Løvenfeldt è sempre stato un uomo di parola. Sono sempre stato un uomo di parola. Ma lei: provi a torcere un capello a questa ragazza e le farò recapitare per posta tutte le teste delle oratrici" e aggiunse, lapidario: "Una ad una. Avrà da scartare pacchi fino a Natale".

Fine seconda parte

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