61. Sull'altura della Baia c'è una casa

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Sull'altura della Baia c'è una casa.

È una casa grande. Una casa da cartolina vintage, quasi. Le sue fondamenta scricchiolano come le ossa di un vecchio e i vetri delle finestre vibrano notte e giorno a causa del vento che proviene dal mare. Al suo interno, al centro dell'ingresso, c'è una larga scalinata; ai lati di essa, i due divanetti hanno un cuscino a testa, ma non accolgono mai nessun ospite. I gradini portano -invitano- a un bivio al primo piano: un corridoio che si apre sulla destra, un corridoio che si apre sulla sinistra.

Sulla parete centrale è appeso un quadro. O meglio: il quadro è stato lì sino al millenovecento quattro circa. Poi qualcuno l'ha tolto. A dire il vero, negli anni a seguire, quel qualcuno ha tolto e cambiato un po' di cose, stravolgendo l'antica intimità della casa: la tappezzeria dei divanetti, i cuscini, la carta da parati. Sono state sostituite le lampadine, aggiunto un nuovo generatore per l'impianto elettrico, sistemate delle piante accanto al portone d'ingresso, montato un appendiabiti, srotolato un tappeto con le frange davanti l'uscio.

Il corridoio di destra al primo piano, che ha cinque stanze per lato, è stato lasciato aperto, ma solo tre di esse vengono regolarmente usate. Su quello di sinistra, invece, è stata montata una grata a scorrimento. Nessuno vi entra mai.





Sull'altura della Baia c'è una casa e sta lì da un bel po' d'anni.

È ancora una casa grande, forse un po' troppo per una famiglia composta da tre mocciosi, un padre in galera e una mamma che nega di avere un problemuccio con l'alcool. Qualche raro ospite della tenuta ha persino detto che sembra una di quelle case che vedi stampate su un libro d'epoca.

Ma Gaël -il secondo dei tre mocciosi per l'appunto, col padre in galera e la mamma che alza un po' troppo il gomito col bere- pensa che quella casa faccia semplicemente schifo. Fa schifo perché puzza di muffa e salsedine tutto l'anno, la TV via cavo fa spesso i capricci e la manutenzione della caldaia va fatta una settimana sì e l'altra pure.

Perciò Gaël cerca di passare il tempo in casa come meglio può. Si arrampica sugli scaffali e fa cadere a terra le datate enciclopedie, poi trascorre tutto il pomeriggio a sfogliarle tra uno starnuto e l'altro. S'infila i rollerblade ai piedi e immagina di gareggiare in compagnia, percorrendo in circolo sempre lo stesso percorso -androne, corridoio, cucina, corridoio, sala da pranzo, corridoio, salotto, corridoio e poi di nuovo androne- fino ad avere il fiatone. Quando il meteo porta burrasca e il cielo è nero, osserva il temporale infuriare dalla stanza di vetro che sta nel lato opposto della casa, quello che da sul mare.

Ma la cosa che più gli piace fare, anche se la mamma s'incazza ogni volta che ce lo trova davanti, è cercare di vedere cosa conserva il corridoio di sinistra, quello bloccato.

L'ha osservato a lungo. Prima da lontano con sospetto, poi da vicino con genuina curiosità. Una volta ha scosso l'intreccio di ferro che ne vieta l'accesso e l'ha sentito mollo sotto le dita. Allora l'ha tirato di lato, ma un lucchetto ha minacciosamente tintinnato sopra la sua testa.

Gaël ha storto il muso e, ficcate le mani nelle tasche, è tornato alla stanza di vetro a guardare il mare. 

Per un po' non ci ha pensato. Ma la curiosità dei bambini è infame e si riaccende ogni volta che ce n'è l'occasione. Difatti passano un paio di mesi, le giornate si accorciano e la malattia finisce per inghiottire il nonno una volta e per sempre. Il vecchio muore nel '97, di notte, e portano via la sua salma che è mattina. Nel pomeriggio, la mamma sta piegando i suoi abiti per infilarli in maniera meticolosamente ordinata negli scatoloni. Lars l'aiuta a sollevare e spostare i più pesanti, Ísmey è seduta sul letto adesso vuoto mentre Gaël gioca a farle bubusettete

Le cianfrusaglie inscatolate vengono portate sulla bocca del corridoio sigillato. La mamma apre il lucchetto, si attorciglia la catena al polso e tira via la grata, che molliccia si ripiega su se stessa. Assieme a Lars spinge nella più completa oscurità i rimasugli del nonno e, sotto lo sguardo vigile di Gaël, richiude il tutto e conserva la chiave nella tasca posteriore dei jeans.

Il giorno dopo, Gaël è il primo a sbracciare a tavola per immolarsi alla noiosa seccatura del bucato settimanale. Di bene in meglio: ci becca uno sticker a forma di stella sul tabellone di marcia -ne mancano ancora quarantasei per meritarsi un altro gioco per il Game Boy Pocket- e la chiave della grata, dimenticata nella tasca dei pantaloni.

È il pomeriggio del ventisette novembre millenovecento novantasette. La mamma va in città con Ísmey, Lars si rifugia in salotto con Fanndís e Gógó a fare cose da liceali – fumare, giocare a dama alcolica, strimpellare con la chitarra.

Gaël finge un po' di moine davanti alla porta fino a quando Fanndís non urla un smaterializzati, microbo!, e decide che il momento propizio è arrivato: infila le infradito e, vittorioso, si avvia verso il suo nuovo parco giochi. Un attimo ed è dentro il corridoio proibito, ma torna presto sui suoi passi per recuperare una torcia per farsi luce – all'effettivo, le lampadine dell'andito non sono mai state sostituite. Quello che trova, a un primo acchito, non è niente di speciale: al suo interno sono stati ammassati mobili datati, scatole, coperte impolverate, ninnoli vecchi di almeno sei decenni e quadri di cattivo gusto. Come per il corridoio abitato, anche questo possiede lo stesso numero di stanze, ma con l'aggiunta di un'undicesima sul fondo, più alta e larga rispetto alle altre.

Gaël trattiene a stento uno starnuto e decide di iniziare la sua curiosa avventura proprio da lì. Si arrampica senza esitazioni su quella che sembra essere una specchiera -ma adesso priva di specchio-, scavalca una panca di legno e infine spinge un carrello porta-vivande senza ruote per farsi spazio. Litiga con una delle maniglie ossidate e al terzo tentativo riesce ad abbassarla per entrare. Apre l'anta designata e resta lì sull'uscio, il fascio di luce proiettato dalla torcia che tremola un poco.

La stanza è ampia ma vuota. Le due librerie a muro, che percorrono per intero le due pareti laterali, non contengono più nulla, se non polvere stratificata e ragnatele raggrumate. Sul fondo opposto ci sono una poltrona, un tappeto e una scrivania. Su quest'ultima c'è poggiato in bella vista un quadro, l'ennesimo.

Gaël avanza e, d'istinto, si guarda le spalle senza chiudere l'entrata. Si ferma solo quando riesce a distinguere i due volti raffigurati sulla tela invecchiata. Illumina il primo, quello di una donna vestita di bianco, coi capelli castani e gli occhi infossati. Il secondo viso, posto più in alto, è quello di un uomo.

È pallido e ha gli occhi scuri, scurissimi come due pezzi di carbone. Sembra teso, a differenza della consorte al suo fianco.

Dev'essere qualcuno di famiglia, pensa Gaël. E probabilmente lo è: l'uomo assomiglia molto a suo fratello Lars. Il taglio di occhi è pressoché identico, il colore dell'iride pure. Gli zigomi e le labbra, poi, un altro paio di maniche ancora.

Gaël si rabbuia, colto da un improvviso attacco di tristezza.

Lars è fortunato ad assomigliare alla mamma; lui e Ísmey, purtroppo per loro, no. Entrambi hanno lo stesso colore di occhi di Elias – il padre che, da un anno e mezzo a quella parte, vedono solo nel fine settimana, seduto dietro una spessa lastra di plexiglass.

Ed è per questo che a scuola un po' lo evitano, un po' lo prendono in giro. L'unico che considera suo amico -e che ha sempre l'ultima console uscita sul mercato- è Werner, quello del Samkaup.

Werner è gracile, più basso degli altri – l'apparecchio per i denti gli fa sbiascicare le parole ed è asmatico, perciò non fa mai educazione fisica. Sono diventati amici parlando delle combo più fighe da fare su Street Fighter e perché Gaël gli ripone la parte finale delle sue merendine, anche se Werner non potrebbe mangiarle perché intollerante a una caterva di cose.

Ma sono amici. Sono amici perché Werner non lo giudica. Non lo giudica solo perché figlio di Elias, quello che ha fregato una barca di soldi alle saliere per fare la bella vita in Danimarca, no; Werner a queste cose non ci bada. Non ci bada perché anche lui, a modo suo, è solo. Perché le cattiverie che gli altri bambini gli gridano o sussurrano sono frutto di una malizia innestata dai loro genitori. Gli stessi che a loro volta, in qualità di ex-dipendenti delle saliere, si sono visti privati di un lavoro con la chiusura provvisoria dell'attività.

Ed è per questo che la mamma corregge addirittura il caffè col primo goccio d'alcol che ha sottomano, Lars combina disastri su disastri e lui e Ísmey sono prigionieri di una casa troppo grande e ammuffita, di una famiglia che non lo è mai stata veramente e di una nomina passata, presente e futura che sicuramente li stuferà a tal punto da renderli... Arrabbiati. Irascibili. Soli.

Come lo sono diventati Elias, Bríanna e Lars.

Gaël rinsavisce dai suoi pensieri e pensa sia ora di andare. Stavolta, però, taglia in diagonale e quasi inciampa su una piega del tappeto. Quando torna ritto fa per stenderla col tallone, ma la gomma dell'infradito prende la forma ricurva di un oggetto nascosto sotto il tessuto.

Poggia la torcia su uno scaffale e un po' a fatica riesce a sollevare e spostare un angolo di tappeto. Quello che scopre gli fa strabuzzare gli occhi dalla sorpresa: ritagliato nel parquet c'è un quadrato leggermente più sporgente del pavimento stesso. Nel centro vi è incastonata una maniglia per porte a battente.

Si tratta di una botola.

Gaël intreccia le dita piccole al cerchio di metallo e prova a sollevarlo. Arrivato a metà, lascia cadere il coperchio sul lato contrapposto e una nuvola di polvere gli fa lacrimare gli occhi.

Riafferra la torcia e la punta verso il basso. Dei gradini si snodano a chiocciola verso oscure profondità.

L'adrenalina è tornata, la curiosità di bambino non l'ha mai effettivamente abbandonato.

Inizia così la sua lenta discesa verso l'inferno, sorvegliato dai proprietari della casa e delle saliere che vivono tuttora impressi sulla vecchia tela.

Quando giunge a poco più della metà della spirale di gradini, l'aria comincia a mancargli, e la botola sulla sua testa si richiude in un tonfo sordo, come se non fosse mai stata aperta. 





Sull'altura della Baia c'è una casa.

È il duemila e Gaël non è più tornato nel corridoio con l'undicesima stanza sul fondo. Di quel giorno gli sono rimasti una cicatrice da quattro punti sul mento e lo spettro di una curiosità che l'ha quasi ucciso. Ha borbottato una mezza bugia sull'accaduto, ma anche una parte di verità: è vero, sì, è scivolato perché ha questa brutta abitudine di portare le infradito coi calzini. Può capitare. Ma è bugiardo, però, perché non ha detto che l'hanno spintonato fino a farlo inciampare di proposito, e chiuso la botola per attutirne le grida.

Questa volta a tornarci sono Elias e Bríanna, e lo fanno consapevolmente. Ripercorrono assieme il tragitto compiuto dal secondogenito, scoprono la botola, a fatica ci entrano e giungono sul fondo che tremano entrambi.

Ciò che ritrovano vale più di mille parole, imprecazioni, terrori, sbagli.

Mentalmente e per i fatti propri, cominciano una conta col solo ausilio degli occhi. Potrebbero essere una cinquantina, se non un centinaio. No, di più. Due centinaia, forse. È difficile a dirsi: tentare un conteggio più scrupoloso dei crani ordinatamente incastonati tra le fredde pietre dello scantinato richiederebbe del tempo e, soprattutto, lucidità.

Né Elias né Bríanna hanno il giusto tempo e abbastanza lucidità a loro disposizione. Devono compiere una scelta, e devono compierla adesso. Una scelta che grava sulle spalle di Bríanna come ha gravato sulle spalle di suo padre prima di lei, e su quelle di sua nonna paterna Sanna in un tempo più lontano.

Elias, che è da poco uscito dal carcere, le sfiora un braccio. Lei sobbalza a quel tocco e smette di contare.

"Brí" la chiama con un filo di voce. "Torna in te".

Lei scuote la testa. Nota che alcuni teschi sono più piccoli di altri – bambini, forse? E pensare che il suo Gaël ha visto tutto questo...

"Non ce la faccio".

"Brí, no".

"Non ce la faccio. Mi dispiace, non ce la faccio".

Lui l'afferra per le spalle per costringerla a un contatto visivo. Il suo volto è una maschera di sudore e angoscia.

"Portia si è già presentata con un altro corpo e ha conosciuto i ragazzi. Non possiamo tirarci indietro, non più".

"Guarda, ti prego. Papà non mi aveva mai parlato di... questo. Ti supplico. È una follia".

"Ma saremo al sicuro" asserisce Elias. "Non possiamo continuare così. Non ci fanno vivere. La Cerchia non ci fa vivere. Se stiamo dalla loro e facciamo quello che Portia vuole, sarà tutto più semplice".

"Tu pensi veramente che Bodvár voglia riportare il dono all'Albero?" e la voce di Bríanna si spezza – è ormai sul punto di darla vinta al terrore.

Elias aggrotta la fronte. Ci pensa su un momento prima di risponderle, anche se non ce n'è bisogno. "No, non lo riporterà all'Albero".

"E allora..."

"E allora stiamo alle condizioni. Lascia che si distruggano a vicenda, noi teniamoci in disparte" Elias rafforza la presa attorno alle spalle per infonderle conforto e forza d'animo. "Facciamolo per i ragazzi. Solo per loro".

Gli occhi di Bríanna si fanno piccoli e lucidi. Elias l'abbraccia per attutire il pianto in cui lei sprofonda un attimo più tardi.

"Non è colpa tua" la consola. "Non è colpa tua se ce l'hai nel sangue". 

"E se ce l'hanno anche loro?"

Bríanna cerca di soffocare un singulto, ma è troppo forte. Il lamento che le scappa dalla bocca fa raggelare Elias.  

"Vivranno bene, i ragazzi. Sta' tranquilla. Vivranno".  

Elias e Bríanna tornano in superficie e Gaël li osserva sigillare il corridoio con la grata. Nessuno vi entrerà per i successivi... dodici anni. E le teste deturpate rimarranno lì per altrettanto tempo. 





Sull'altura della Baia c'è una casa ed è tuttora abitata dalla famiglia Eliasson - o da quel che ne rimane.

È il duemila dodici e Gaël non riesce a dormire. Da un anno sono cambiate molte cose, cose di cui lui ancora ignora l'esistenza e la veridicità.

La Cerchia si è fatta più aggressiva da quando il seiðmaðr si è rivelato. Elias e Bríanna sono stati interrogati più e più volte sulla questione, ma hanno sempre smentito qualsiasi coinvolgimento diretto nella faccenda. 

Gaël sa che i suoi mentono alla Cerchia e mentono a lui. Non sa, però, a che tipo di gioco stiano giocando: le visite di Portia si sono fatte più sporadiche, ma comunque incisive. Quando la donna viene a trovarli con un'altra pelle addossoBríanna lo avverte di non tornare a casa per nessun motivo al mondo. Allora Gaël vagabonda per la capitale assieme a sua sorella. Perdono tempo al Prikid, vanno a lanciare i ciottoli in spiaggia, fanno un salto in ospedale per andare a trovare Lars. 

Purtroppo Lars non può salutarli a dovere. Certo che no: è in coma da quattro anni, più precisamente dalla sera dell'incidente che ha strappato a Gaël la vista, Dísella e... lui stesso. 

Ma Ísmey e Gaël continuano a fingere che Lars sia vigile e che abbia bisogno di compagnia, una volta tanto. 

Anche ora che non riesce a dormire a causa dell'ansia, Gaël vorrebbe fare visita a Lars per scaricare la tensione. Ma lui non potrebbe rispondere alle sue domande - anche i suoi genitori rifiutano di farlo. 

C'è qualcuno, però, che con molta probabilità può. 

Allora si fa coraggio e come da manuale mette le infradito e si inoltra nelle viscere della casa sulla Baia. Ripiega la grata, scavalca i mobili d'intralcio, s'infila nell'undicesima porta dopo anni passati a tentare di scordare la brutta disavventura. 

Ma è invece giunto il momento di ricordare. Allora guarda il quadro, scosta il tappeto, apre la botola, scadendo quelle azioni come se fossero una sorta di rituale necessario. La discesa inizia che vorrebbe scoppiare a piangere. Ed effettivamente cede quando è davanti la parete ornata di teste

Per tutti quegli anni, lui e la sua famiglia hanno vissuto calpestando i resti di quelli che un tempo erano stati essere umani. Non si sono mai azzardati a chiedersi il come e il perché. Dove li hanno trovati li hanno lasciati, modificando e cambiando lo strato superficiale della casa senza però intaccare quell'oscura intimità custodita gelosamente nelle fondamenta. 

Gaël piange e fa la prima domanda. Sa che lo stanno ascoltando. 

"È stato il seiðmaðr a farvi questo?"

Un attimo e lo scantinato si popola quel tanto da costringere Gaël a retrocedere sulle scale di pietra. Una voce dal basso, quella di una donna, risponde a nome di tutti gli apparsi. 

"Sì". 

Gaël deglutisce e chiede ancora: "Perché?"

"Perché il seiðmaðr vuole vivere" civetta un bambino. "Allora ha preso noi". 

Gaël si asciuga lo zigomo col dorso della mano e si perde nella contemplazione del muschio che rende scivolosi i gradini. 

D'un tratto e senza apparente motivo, ripensa a Lóreley e alla conversazione più stupida che abbiano mai avuto. 

"Perché hai il setto nasale deviato?"
"Da bambina sono caduta dalle scale, niente di tanto emozionante".
"Anche a me è successa una cosa simile: combo scale bagnate e infradito. Sono scivolato sul terzultimo gradino e mi sono spaccato il mento. Quattro punti. Da quel momento ho come sviluppato una fobia".
"E perché stavi correndo?"
"Ma che domanda è? I bambini corrono sempre, sulle scale e non".
"Parla per te: se lo avessi fatto io mia madre mi avrebbe riempita di schiaffi".
"Fatto sta che sei caduta ugualmente".
"Sono caduta perché ho sceso le scale a luci spente".
"... Al buio, quindi?"
"Sì... al buio".
"Chi mai scenderebbe delle scale al buio, mi domando..."
"Io sì, okay? Perché..."
"Allora?"
"Allora niente. I bambini combinano un sacco di stronzate".
"Come darti torto".

Gaël non fa altre domande. Da averne mille a sentirsi sazio con solo due bocconi di risposte. 

Torna in superficie e sigilla l'undicesima porta. 

Il corridoio non verrà più riaperto fino al...

Sei aprile duemila tredici. 

7 aprile 2013
Reykjavík
5:45

Il cellulare riprese a squillare. 

Ber allungò una mano ad occhi chiusi, tastando il bordo del comodino prima di centrare l'aggeggio infernale. Riuscì a portarselo all'orecchio col terzo tentativo. 

"Pronto?" biascicò. 

Dall'altro capo del telefono, Johanna trattenne uno sbuffo. "Ce l'hai fatta a rispondere". 

"Ma si può sapere che ore sono?"

"Un quarto d'ora alle sei". 

Ber si stropicciò le palpebre ancora appiccicate tra loro. "Che vuoi?"

"Vestiti. Passo a prenderti tra venti minuti". 

"Passi-tra-venti-minuti-cosa?"

"Fa come ti dico, microcefalo. Siamo nei guai". 

Bergljót affondò la faccia nel cuscino, affranta. La sua voce arrivò ovattata allo speaker. 

"Siamo sempre nei guai". 

"Questa volta un po' di più". 

"Taglia corto, bambola". 

Johanna inghiottì un sospiro di troppo. 

"La casa degli Eliasson è andata a fuoco, stanotte. Si parla d'incendio doloso. Qualcuno deve averlo appiccato dall'interno" le disse senza scomporsi. "Sono riusciti a spegnerlo qualche ora fa. Tra le macerie sono stati rinvenuti solo due corpi... o quel che ne resta". 

Bergljót si issò lentamente tra le coperte e, con una manata fulminea, accese l'abat-jour. 

"Due corpi?"

"Sì. Elias e Bríanna sono morti nell'incendio. La polizia sta cercando Gaël, Ísmey e... Lars".

Ber riattaccò. 

Porca puttana. 

Ebbene sì, corvetti.
Siamo quasi giunti al capolinea. Il prossimo aggiornamento altro non sarà che il travagliato epilogo di Litlaus. 
Mentre scrivo queste parole mi tremano le mani. Di felicità, ma anche di incertezza e paura. In questi ultimi tre capitoli è successo di tutto e sono pronta a comprendere il vostro scetticismo. Ma ci tengo anche a rassicurarvi dicendo che, davanti a questo libro, ce ne sono altri due. La strada da percorrere è ancora lunga e... Litlaus era ed è solo l'inizio della storia più pazza e sentimentale che io abbia mai scritto. Davvero.
Proprio in questo penultimo capitolo ho scelto di dare largo spazio a Gaël e, seppur brevemente, alle vicende della sua famiglia. Il pov finale, poi, cambia di nuovo e... sì. 
Johanna e Ber sembrano aver abbassato le armi per siglare una piccola alleanza provvisoria. Devo dire che questo nuovo duo non mi dispiace affatto :3
Avete riconosciuto la nominatissima Portia? No? Vi do un indizio: capitolo 27, seconda parte. Dateci una sfogliatina e poi potrete prendermi a sassate. Perché me le merito. 
Ricordate: Litlaus è solo l'inizio e Lamb è già in stesura da un po'. 
C'è ancora tanto da scoprire sulle intenzioni e il vero passato di Testa di Cervo!
Ma prima di lasciarvi vi poggio qui una bella domanda...
Secondo voi, che fine ha fatto Lóreley? 

Ci ribecchiamo nell'epilogo!

 

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