62. Epilogo

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7 aprile 2013
Reykjavík
6:35

Bergljót accese la seconda sigaretta nel giro di pochi minuti. Aspirò avidamente in silenzio e trattenne la corposa boccata fino a quando il fumo non le irritò la gola. Lo sputò fuori che Johanna aveva allungato una mano nel buio, con calcolata nonchalance. Ber le passò la sigaretta senza fare storie, fasciandosi le mani con le maniche del maglioncino beige per combattere il freddo.

La notte non accennava a dissiparsi oltre l'orizzonte e, davanti alle due, la casa sulla Baia era ridotta a uno scheletro incandescente. Nonostante avessero parcheggiato l'Audi della bionda sulla spiaggia adiacente, il crocchiare delle braci era udibile sino a lì. Il vento proveniente dal mare miscelava per aria l'acre odore di bruciato e trascinava qui e là turbini di cenere. Entrambe ne avevano pieni i capelli.

Johanna espirò dal naso. Le parole che disse vennero accompagnate da bolle di fumo. "La nonna si è decisa. Ha fatto visita all'Albero, due giorni fa".

Bergljót non sembrò stupita. "E?"

"E nulla, Bergljót. Assolutamente niente".

Ber aggrottò le sopracciglia e si voltò in direzione della sua voce. Per un momento si concentrò sulla punta della sigaretta accesa, che divenne gialla quando la Prima si beò di un altro tiro.

"Cosa vuoi dire con assolutamente niente?"

"Che non ha trovato nessuno nell'Albero: è vuoto. Morte non c'era".

"Aspetta, aspetta" Bergljót soppresse un riso nervoso e gesticolò per aiutarsi a parlare. "Mi stai dicendo che Morte non era lì? E si può sapere dove diavolo è?"

Johanna aspirò una terza volta. "Non lo so. Neanche la nonna lo sa".

Bergljót, che era rimasta con le braccia sollevate, lasciò che le ricadessero sulle cosce. Poi, distrattamente, tastò il paraurti dell'auto su cui entrambe erano poggiate. Per un momento ebbe l'impressione di star per cadere a faccia in avanti, come se fosse stata colta da un improvviso e violento capogiro. Ma la verità era che si trattava di...

Paura.

"E... non si può fare qualcosa, per rintracciarla? Nel senso... potremmo acchitare un Decanto e chiedere consiglio a un Auditore. Oppure possiamo cercare mamà. Mamà saprà per certo cosa fare".

Una pattuglia della polizia sfrecciò sulla strada a fianco mentre un'autopompa dei vigili del fuoco correva nel senso opposto, verso il centro della capitale. Johanna gettò il mozzicone ancora acceso ai suoi piedi.

"No, Bergljót. Morte ci ha abbandonate".

"Morte non può abbandonarci, è contronatura".

"È contronatura ciò che facciamo noi, non se decide di piantarci in asso. Ti ricordo che i sacrifici fatti dalla nonna in veste di Paskúm sono cominciati vent'anni fa. E Morte non ha mai risposto alle orazioni. Questo fa presupporre che non si trovi più lì da chissà quanto tempo".

"Falla finita, cazzo".

"È la realtà dei fatti. La nonna non sa cosa fare e a quanto pare il seiðmaðr ha già cominciato a muoversi".

"Ma se avessimo agito prima..."

Johanna emise un grugnito di disapprovazione, accompagnato da una risata graffiata. "Oh, certo. Certo, come no – agire. Agire contro un tizio all'apparenza imprendibile, armato di un dono devastante e che ha pure dalla sua una sorta di dominio viscerale sullo stesso Litlaus. Ah, e aggiungi alla lista anche questo: tipo che era appiccicato alla tua compagna di stanza e tu non te ne sei mai accorta".

"Sta ancora lì in Francia e nessuno ha mai fatto niente".

"Tu, ora, cosa faresti? Se ce l'avessi davanti, la uccideresti?"

Senza sfilare il pacchetto dalla tasca del chiodo di pelle, Ber estrasse la terza sigaretta. Se si fossero trovate più indietro di due anni circa, lei avrebbe pensato che quella sputata da Johanna fosse una provocazione bella e buona, calcolata e voluta. Una cosuccia detta per farla incazzare di proposito. Ma erano cambiate così tante cose – Johanna era cambiata. Ber era cambiata.

"No. No, non ci riuscirei" commentò Ber sottovoce – e d'istinto ciccò senza aspirare. "Tu?"

"No" la risposta fu lapidaria. "Io non uccido le persone".

"E allora il tuo ragionamento non ha senso. Sapevo che c'era qualcosa che non andava in lei, ma..."

"Ma nulla. Stupida anche io che non ci sono arrivata prima".

"Non l'avresti comunque capito e agito. È tardi ormai per starci a rimuginare su".

Johanna si strinse le braccia al petto e alzò la testa. "Già... è tardi".

Bergljót prese a mozzicarsi il labbro inferiore pur di non fumare. "Mi hai buttata giù dal letto solo per questo? Per informarmi che Morte ce l'ha messo dietro in grande stile e che entrambe siamo state delle stupide?"

"No".

"Allora accorcia, che comincio ad avere freddo".

"Prima della notizia dell'incendio, la nonna ha ricevuto un pacco".

Ber serrò la mandibola. "Spara".

Johanna infilò una mano nella tasca del cappotto e tirò fuori il cellulare. La luce bianca proiettata dallo schermo acceso marcò i tratti stanchi del suo viso. Un paio di click e sfoggiò a Ber un reperto osceno direttamente dalla sua galleria.

La foto ritraeva un fermaglio a forma di piuma di pavone ricoperto da uno spesso strato di sangue secco. L'immagine era stata scattata di fianco alla scatola, ma risultò impossibile capire quale fosse la natura del suo contenuto, poiché tagliato di proposito dal resto della macabra composizione.

"È il fermaglio di Barbára" osservò Ber.

"Sì".

"E... dov'è lei?"

"La sua testa è nella scatola".

Ber ciccò a vuoto un paio di volte.

"Ha già cominciato, quindi".

"A quanto pare sì".

Bergljót tornò a fissare il punto in cui fino alla sera prima si era eretta la casa della Baia.

"Allora è proprio un uomo di parola, quel Bodvár".

Gaël riaprì gli occhi e il mattonato sporco su cui era coricato prese forma dopo aver sfarfallato le ciglia un paio di volte. D'istinto piantò le pupille in alto, verso un punto indefinito - una macchia scura apparentemente provvista di testa, braccia e gambe. Una mano lo scosse ancora, stavolta con più insistenza. 

Gaël si sforzò di mettere a fuoco chi lo stesse toccando. La fioca luce proiettata da un candelabro acceso tracciò i contorni di un profilo conosciuto, eppure ancora sfocato. 

Capì si trattasse di Gíta quando lei lo chiamò per nome per assicurarsi fosse cosciente. 

"Gaël? Sei proprio tu?"

Lui, un po' a fatica, si tirò a sedere che la testa sembrava fosse sul punto di scoppiare. Fece una smorfia e mille spilli ghiacciati gli si conficcarono nello zigomo destro - qualcuno, forse con un oggetto, doveva averlo colpito proprio lì, abbastanza forte da lasciarlo tramortito. 

Si tastò il punto incriminato e Gíta tornò in piedi. Era in pigiama e alle mani portava un paio di guanti neri, come neri erano adesso i suoi capelli. Il volto era segnato da spesse macchie di sangue rappreso. 

"Ti ho scosso per un po', ma non rispondevi. Per un momento ho pensato fossi morto". 

"E invece" mormorò lui, raccogliendo nel pugno una porzione di maglietta che aveva indosso. Era bagnata fradicia, come lo era Gíta. "Perché sei qui?"

"Tu sai dove ci troviamo?"

Gaël aggrottò la fronte e si guardò attorno, preso alla sprovvista da quella domanda. I muri di pietra e le cianfrusaglie accatastate in ogni dove gli suggerirono un'ipotesi plausibile - uno scantinato. Il problema restava scoprire la locazione esatta del posto e perché erano lì. 

Mentre ragionava in silenzio, un brivido gli salì lungo la spina dorsale. 

"Dov'è mia sorella?"

"Tua sorella?"

"Sì, Ísmey era... era con me..." farfugliò, tornando in piedi forse un po' troppo velocemente. Riuscì ad arrestare la perdita d'equilibrio grazie a Gíta, che lo sorresse un attimo per la spalla. "Ricordo che era con me. Eravamo in auto, stavamo tornando a... casa". 

Gíta si rabbuiò in volto e lo lasciò andare quando fu sicura potesse rimanere stabile sulle proprie gambe. "A casa? Frena, ragazzone: tu non sai niente dell'incendio?"

"Dell'... incendio?"

Gíta si grattò una guancia, quella che più era imbrattata di sangue. "Sì. Non ricordi nulla?"

Gaël negò con la testa. "Si può sapere cosa è successo?"

"Se lo sapessi, beh... tutto sarebbe più facile". 

"E quel sangue?"

Gíta smise di grattarsi e abbassò lo sguardo. "Non è il mio. Qualcuno è entrato in casa mia e mi ha aggredita. Mi sono svegliata qui e c'eri solo tu".  

Gaël prese a massaggiarsi una tempia in silenzio, poi adocchiò una porta sul fondo.

Gíta afferrò subito le sue intenzioni. "Non riesco ad aprirla, ci ho già provato. Ho anche tentato di forzare la serratura, ma..."

Durante lo sproloquio, Gaël si era avviato verso la probabile via di fuga e l'aveva scossa un poco. Appurato quanto fosse marcio il legno e la poca presa del chiavistello interno, aveva tirato il primo calcio senza pensarci due volte. 

Col terzo colpo, la serratura cedette e la porta si aprì su un'oscurità completa e apparentemente insondabile. 

Gíta, che era rimasta col dito alzato, esordì con un: "Beh, sì. Come ho fatto a non pensarci prima". 

Gaël recuperò tra le casse un attizzatoio. "Prendi il candelabro" le disse, passandosi l'arma improvvisata da una mano all'altra.

"Hai intenzione di uscire?"

"Hai intenzione di rimanere?"

 Lei deglutì. 

"Non sappiamo nemmeno dove diavolo siamo finiti". 

"Lo scopriremo" Gaël la fissò a lungo, poi annuì. "Prendi il candelabro, ti prego. Devo trovare mia sorella". 

Gíta indugiò un momento ancora. L'attimo seguente metteva un piede fuori dalla prigione improvvisata e allungava la mano con la fonte di luce per recidere il buio. 

Si lasciarono lo scantinato alle spalle che un latrato gliele accarezzava. 

... Continua in "Lamb - I peccati dell'oracolo"

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