1. Incubi

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Borgo La Torre, Sicilia.

*________*________*_________*

Corro. 
I rami degli alberi mi graffiano la pelle, tirano i capelli, strappano parti del mio abito. 

Corro. 
L'aria appare sempre più rarefatta, il respiro rapido, ansimante, l'ossigeno in circolo nel sangue fa fatica ad arrivare al cervello. 

Scappo. 
Li sento urlare, intimano la mia resa, reclamano la mia morte. Non sono lontani, li avverto come spiriti inquieti, ma questi fanno più paura dei fantasmi: sono vivi. 

Scappo. 
Sento la loro corsa, i passi pesanti e numerosi. Sono vicini. 

La flebile luce della luna riesce a guidarmi in questo bosco oscuro, spesso inciampo per colpa delle radici degli alberi che sono sollevate dal terreno, ma fortunatamente riesco a mantenere un precario equilibrio. Qualcosa mi sfiora, non è la solita fronda... qualcuno prova ad afferrarmi.

Cado. 
Il viso si scontra con la terra fangosa. Urlo per il dolore procurato da un ramo che si è conficcato nella spalla destra; si è insidiato sotto la pelle, brucia viscido ogni centimetro dei miei muscoli. Non riesco a muovere il braccio, ma non posso arrendermi così, non voglio morire così. 

Paura. 
Mi afferra per il polpaccio, mi tira verso di sé mentre il terriccio mi graffia la pelle delle gambe e delle braccia. Sento la sua mano pesante e calda pressare con forza la gamba, l'altra mano mi afferra per la spalla dolorante e continuo ad urlare.

Panico.
Non sopravviverò. 

Terrore.
Puro, gela il sangue, fredda i muscoli ma fa pompare il cuore ad una velocità inumana, si perde la ragione. 

Dolore.
Strappa via il ramo conficcato nella spalla e già sono stanca di urlare... cosa mi attende ancora? La gola brucia, la voce è strozzata. Non voglio morire, non ora. 

Ancora dolore.
Questo però è subdolo, diverso, pericoloso e inquietante. È insito nell'animo; dal petto si dirama alla bocca dello stomaco, serra le viscere e si annida insidioso nei miei organi facendomi tremare. 

Accelera, decelera, va ad un ritmo convulso e disperato: il cuore. Il muscolo che dà la vita risente dell'aggressione, del timore di non riuscire a resistere. 

Mi afferra i capelli, urlo. Tira forte. Urlo ancora. 

Nessuno mi sente in mezzo al nulla. Mi gira ed eccolo, siamo faccia a faccia e ride. Sorriso diabolico.

«Siete pronta a morire, madamoiselle?»

Non rispondo, non posso farlo, continuo a urlare e scalciare. Non voglio morire. Il suo sorriso si sfoca, lo vedo deformato, e calde lacrime affiorano. 

Alza un pugnale. 

Il cervello risponde in automatico, chiudo gli occhi immaginando, come fosse una visione, ciò che avverrà. 

Dolore. 

Il motore che dà la vita si spegne. 

*________*________*_________*


Come ogni notte mi svegliai di soprassalto, con il cuore che sembrava aver ricevuto davvero una pugnalata, ma piuttosto che starsene fermo scalpitava, quasi volesse fuggire dal petto come in un film d'animazione. 

Ero sudata e in preda al panico. Mi succedeva sempre e ogni volta mi ripetevo che dovevo restare calma perché erano solo incubi, ma era sempre la stessa storia: angoscia, paura e terrore. 

Chiusi gli occhi: uno... due... tre respiri profondi per far decelerare il battito e solo allora riuscii ad accendere la luce e guardarmi intorno. La piccola sveglia rossa, adagiata sul comodino a fianco al letto, segnava le 03:07. Al solito, pensai.
Mi alzai dal letto avendo cura di svolgere uno dei tanti esercizi richiesti dallo psicologo: "China la testa in avanti e osserva i tuoi piedi nudi", anche se i lunghi capelli che mi ciondolavano davanti agli occhi mi impedivano di osservarli in pieno; il secondo passaggio consisteva nel muovere le dita e imprimere una forza sul pavimento, ripetendo  nella mia mente "ciò che tocchi è realtà." Dormire sembrava diventato un lavoro faticoso da svolgere.

Uscii dalla mia camera avendo cura di far il minor rumore possibile, percorsi il piccolo corridoio ed entrai in cucina. Sentivo la bocca così arida che in confronto il deserto del Sahara sarebbe stato un luogo più umido. In quei giorni il caldo era tornato a far strage, anche se in questo periodo si presume dovrebbero cadere le foglie.  Presi un bel bicchiere d'acqua fresca e bevvi tutto d'un fiato e così tanto veloce che alcune gocce d'acqua scivolarono dagli angoli delle labbra bagnandomi la t-shirt extra large degli Imagine Dragons.  

Mi mancava la mia Bolzano, quell'aria fresca che si respirava d'estate e a ottobre il freddo era già dietro l'angolo. Con questo caldo mi sentivo sempre stanca o forse la mia stanchezza era dovuta al fatto che passavo metà della notte sveglia a pensare ai miei incubi e ad ascoltare musica. Da quel terribile incidente niente sembrava ormai uguale, neanche la notte. Ricordai, con un sorriso malinconico stampato sulle labbra, quando per via degli incubi non riuscivo a dormire e chiamavo Tanya. Lei mi stava ad ascoltare... sempre.

Una lacrima al ricordo segnò il mio viso. Mi mancava. Mi mancava come l'aria che non entrava nei polmoni durante i miei attacchi di panico. Il mondo aveva perso il suo colore, le piccole azioni quotidiane erano solo un mero intrattenimento al mio contorno di solitudine. Cos'era la mia vita senza l'altra metà di me?

Respira. Uno... due... tre.

Allontanare il suo ricordo era la scelta più giusta, dovevo andare avanti con la mia vita. Vidi lo zaino adagiato sulla sedia, lo presi e ne uscì il diario, iniziai a sfogliarlo per diramare i pensieri altrove. Ero sempre stata brava a scuola, la prima della classe in tutte le materie a eccezione di educazione fisica. Quella proprio la detestavo: correre, saltare, sudare... no, non faceva certo per me. Ma da diversi mesi non riuscivo più a concentrarmi. 

Un rumore mi fece sobbalzare «Giulia? Sei sveglia a quest'ora? Va tutto bene, tesoro?» 

Era mia nonna, con il suo caschetto biondo platino non dimostrava proprio la sua età: settantadue anni erano tanti, ma lei sembrava averne sempre sessanta. Era stata gentile e disponibile, si era adattata subito a tutte le mie esigenze. Se avevo bisogno lei c'era, peccato che io non volevo parlare della mia situazione, di certo mi avrebbe presa per pazza e di psicologi e assistenti sociali non ne volevo più sapere.

«Sì nonna, tranquilla, è il caldo. Non riesco proprio a sopportarlo, ma si può a ottobre avere 17 gradi la notte?» Lei mi sorrise. 

«Ti abituerai tesoro, è solo un'ondata di caldo africano, che vuoi farci siamo in Sicilia, ma non preoccuparti ormai siamo agli sgoccioli. E poi sei tu che senti tutto questo caldo, io con il mio pigiama stiamo benissimo.»

La osservai e indossava un pigiama a pantaloni lunghi e maglietta a maniche corte, la presi un po' in giro. 

«Voi siciliani siete troppo abituati al caldo che venti gradi vi sembrano dieci... e poi è la vecchiaia, nonna.» La punzecchiai. 

«Grazie tesoro, anche tu sarai vecchia un giorno e allora dirai, aveva ragione mia nonna! E poi non andrei in giro ad additare i siciliani perché in fondo lo sei anche tu.» Mi sorrise lasciandomi intendere che stava al gioco, ma l'inizio della sua frase mi turbò, quanti anni avrei potuto vivere così? Senza Tanya? Quanto tempo ancora sarei rimasta sana di mente facendo quegli incubi? 

Mia nonna si accorse del mio cambiamento e, intuendo il mio turbamento, abbandonò il discorso stroncandolo con un semplice: ti abituerai; mi sorrise compassionevole. 

Ricambiai il suo sorriso con uno più malinconico «ma è da tre mesi che sono qui e ancora non ci riesco, come faccio ad abituarmi?»

Abituarmi a cosa esattamente? Al caldo? Agli incubi? O alla morte di mia sorella? Come potevo abituarmi a tutto quello che mi accadeva? Come potevo abituarmi alla sua assenza? Lei era morta e io ero viva; sì, era vero, questo non potevo cambiarlo, ma non riuscivo a capacitarmene. 

Avrei dato oro e venduto la mia anima se solo fosse servito a prendere il posto di Tanya. 

Respira. Uno... due... tre.

Con le mani portai i miei lunghi capelli indietro per toglierli dalle spalle ed espirai un'ultima volta. Di sottecchi osservai mia nonna e nei suoi occhi verdi si leggeva tanta preoccupazione. 

«Ti va una tazza di latte? Magari ti aiuta a rilassarti, che ne dici? Potremmo parlare di qualsiasi cosa o se ti va possiamo aspettare l'alba insieme, anche in silenzio.»

Aveva capito perfettamente che non ero serena, ma era più facile fingere di stare bene piuttosto che affrontare l'argomento. Non era il momento

«Nonna, tranquilla, sto bene.» Mi costò così tanto dire quella frase, deglutii e continuai il mio discorso «Ero qui solo per un bicchiere d'acqua, ma ora me ne risalgo in camera mia. Ecco: qui c'è il bicchiere e qui l'acqua. Lo riempio e me ne vado subito... buonanotte.»

Scappai prima che potesse farmi qualche domanda o peggio chiedermi dei miei incubi, perché sapevo perfettamente che mi sentiva lamentare durante la notte, ma ringraziando il cielo non era mai entrata. Mi alzò la mano «E cerca di fare sogni d'oro.»

Già, come no, pensai. La mia notte era costellata da incubi di acciaio, altro che sogni d'oro. 

Mi buttai sul letto con la mente che cercava di trovare risposte. Ripensando ad ogni singolo incubo l'unica cosa che questi avevano in comune era la morte: ogni volta io morivo. 
La prima volta che lo raccontai al mio psicologo mi disse che facevo questi sogni perché mi sentivo in colpa per la morte di mia sorella, ma quello che lui non sapeva era che i miei sogni, o per meglio dire incubi, erano iniziati mesi prima dell'incidente. Spesso pensavo che fossero un avvertimento. All'inizio capitava qualche incubo ogni tanto, uno ogni settimana e mezza circa, ma con il passare del tempo gli incubi erano sempre più presenti, sempre più reali, sempre più spaventosi. Dopo la morte di Tanya erano diventati giornalieri ormai.

La stanchezza riuscii a farmi chiudere gli occhi e così lentamente il sonno ebbe la meglio. Mi addormentai con la speranza che gli incubi mi lasciassero in pace, almeno per un paio di ore.

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