⁴³. 𝘉𝘢𝘳𝘢𝘵𝘳𝘰

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Se hai letto sino a qui, probabilmente sarà inutile fare alcun "trigger warning": sai già che questa storia, in generale, fa abbastanza male. Tuttavia, questo capitolo sarà un po' più doloroso degli altri. Giusto per informazione.



Si accorse che il timer di mezz'ora era scaduto solo quando i brividi di freddo iniziarono a mordergli le braccia, provocandogli un'appuntita pelle d'oca. Le gocce d'acqua fecero la loro ultima corsa sul suo viso, disegnandogli grosse lacrime traslucide sino al mento.

Dopo essere stato depositato a casa dal taxi del dottor Viktor, Florian si era fiondato sotto la doccia. La sua mente era riuscita a mantenersi abbastanza salda da compiere le azioni necessarie, permettendogli per un pelo di non lavarsi con i vestiti addosso.

Si era strofinato in maniera automatica, senza alcun tipo di cognizione. Il sapone gli aveva irritato gli occhi appannandogli la vista, resa già nebbiosa dalla mancanza degli occhiali. Tuttavia, non aveva provato neanche un briciolo di dolore. La sua testa aveva registrato solo un suono continuo ma inesistente, simile al fischio successivo allo scoppio di una bomba. Aveva poggiato la testa sulle mattonelle della doccia, sentendole solide e fredde contro la propria fronte. Nonostante i brividi gli avessero fatto accapponare la pelle, dentro di lui aleggiava solo un profondo vuoto, sbagliato come un panorama privo di elementi.

Il biancore della camera di Eddie era esattamente come l'aveva lasciato. Il silenzio era quasi assordante, e le mura lo strinsero in una morsa come avevano fatto qualche ora prima. Nessuna prova che lui sia mai esistito. Florian mosse un passo all'interno della stanza, vestito solo dell'accappatoio e dei pantaloncini da basket che aveva trovato in cima alla pila di indumenti riversa sul suo letto. Perché aveva tirato fuori tutta quella roba dall'armadio? Non lo ricordava più.

Si sedette per terra, e anche il freddo del pavimento non sortì nessun effetto benefico su di lui. Le sue mani stringevano alcuni oggetti, e li posò accanto a lui, lasciando che le loro sagome si riflettessero sulle mattonelle brillanti. Le luci tenui del tramonto trasparivano leggermente nella stanza, senza essere filtrate da alcun tipo di tendaggio. Florian osservò il rosa del cielo, ma le sue iridi grigie non registrarono colori. Con un solo gesto lasciò cadere l'accappatoio, scoprendosi il busto. Il tessuto scivolò sulla sua pelle ambrata, accasciandosi per terra come un vecchio cencio.

Le sue braccia erano coperte di segni. Lunghi, corti, verticali, orizzontali. Alcune cicatrici erano bianche e quasi trasparenti, altre erano rosate, altre ancora apparivano spesse, come fossero state ripiene di vermi messi a riposare sotto la sua pelle. Il tempo in cui le sue braccia erano state completamente limpide, prive di quei segni frastagliati, gli appariva ormai sin troppo lontano.

Un ricordo lo colse come una stilettata, incuneandosi nella spirale del suo vuoto. Sua sorella Nadine a sette anni, vestita con il tutù rosa da danza classica. Quella volta lui si era piazzato a leggere un libro sul balcone, legando i capelli nel suo consueto codino riccio. Louise, sua madre, stava potando le piante sul davanzale, esprimendo ogni tanto il proprio disappunto verso il clima ingrato che le aveva fatto seccare i fiori. Florian aveva riso sotto i baffi ascoltando le imprecazioni della donna, proferite in un perfetto francese. Louise si era premurata di insegnare la propria lingua ai suoi figli, affiancandola all'inglese Standard insegnatogli invece dal marito George.

In quel pomeriggio colorato in seppia, Nadine aveva distratto Florian dal suo libro, parandogliene un altro di fronte alla faccia. Lui aveva potuto constatare come si trattasse di un manuale di scienze delle elementari, pieno zeppo di figure vivide e di scritte colorate fatte dalla bambina.

"Lo sai che i nei sulle tue braccia sembrano delle costellazioni?", gli aveva detto sua sorella. Dopodiché si era messa a tracciare brevi segni a penna sulle braccia limpide di Florian, facendogli il solletico. "Orione", aveva detto soddisfatta. "Cane Maggiore."

Louise li aveva guardati sorridendo, e aveva scompigliato i capelli della bambina, ricci e selvaggi come quelli del fratello. "Mes enfantes sauvages", aveva detto. I miei bambini selvaggi. Florian aveva protestato leggermente, ricordandole come lui avesse già diciotto anni. "Non mi importa, Floriàn", gli aveva risposto sua madre, nel suo Standard stentato. "Sarai sempre il mio bambino."

Ian abbandonò in fretta quel ricordo, riconcentrando gli occhi sulle sue braccia ormai non più limpide. Percorse le proprie cicatrici con i polpastrelli, a una a una, ruotando le braccia e le spalle. Toccò anche le ustioni sul viso e sul collo, i suoi unici segni involontari. Aveva pensato che saggiare la propria pelle lo avrebbe reso più presente a sé stesso, ma sembrava che quella magia non si stesse compiendo. Continuò portando gli indici sulle tempie, lì dove aveva cercato, quella stessa mattina in ospedale, le prove della presenza del gel preliminare a una RA.

Per terra accanto a lui, tra le altre cose, vi erano anche i fogli compilati dal dottor Viktor, che avrebbe potuto portare in clinica per farsi somministrare una Riforma Avanzata dal basso voltaggio. Posò gli occhi sulle carte, senza prenderle in mano. Sentì la voce di Dianne echeggiare da dentro un ricordo: "anche se nel nostro cervello c'è qualcosa di rotto, rimane comunque nostro."

Anche lui la pensava così. Il Regime gli aveva sempre tolto, e mai donato. Le rivolte gli avevano sottratto Nadine a Amélie, la Chiesa gli aveva tolto la possibilità di avere una famiglia, i Sorveglianti gli avevano portato via la libertà. Quella volta aveva detto a Dianne che non avrebbe permesso alla Chiesa del Giudizio di togliergli qualcos'altro con una RA, malgrado più volte, nella sua vita, ne avesse sentito lo spasmodico bisogno. "Non mi piace quello che sono", le aveva detto, poco prima di baciarla. "A me sì", aveva risposto lei. Le parole di Dianne lo avevano convinto a rimanere "rotto". Per la prima volta nella sua vita si era sentito apprezzato, forse amato, per ciò che era davvero: una persona danneggiata.

La promessa fatta a lei si era aggiunta a quella fatta a Nicholas sul non ferirsi più, provando invece a essere felice. "Accetta di poter meritare la felicità", gli aveva detto lo psichiatra. E così Florian aveva promesso, a entrambi. Sapeva che promettere qualcosa a sé stesso non sarebbe stato altrettanto efficace.

Ma adesso loro non sono qui con te. Sei da solo.

La voce della cosa che strisciava era tornata a infastidirlo, lì mentre giaceva sul pavimento. Tuttavia, l'accolse senza protestare, come fosse stata una vecchia amica sincera, preposta unicamente a dire la verità. Aveva capito da tempo che la verità non è mai giusta o sbagliata: è, e basta. Il mondo va in rovina. Le persone muoiono. Tu sei da solo. La verità è la verità. E non puoi rigettarla solo perché non ti piace.

Le sue mani presero uno degli oggetti posati accanto a lui. Fece scattare la lama, e il suo dolore acquisì la forma di quel suono. Lo scatto si riverberò sulle pareti bianche, disperdendosi in quel candore.

La cosa che strisciava ricominciò a parlargli, più vicina a ogni secondo che passava. E, per la prima volta da tanto tempo, Florian non seppe più distinguere la propria voce dalla sua.

Come hai potuto anche solo pensare di poter essere felice?

Sei rotto. Sei un errore. Non potevi che essertele create da solo, quelle illusioni.

In fondo lo sai, lo hai sempre saputo. Che una persona come te non merita la felicità.

Florian disegnò una linea.

Il rosso iniziò a sgorgarne prima a piccole sfere, che sudarono fuori dalla ferita, poi a fiotti più intensi, protesi come dita verso il basso.

Credi che basti?

Una seconda linea si affiancò alla prima. Poi fu la volta di una diagonale, di una curva, di un'altra diagonale. I suoi movimenti si susseguivano come quelli di un maestro d'orchestra, che dirigeva sul suo stesso corpo una sinfonia crudele e dissonante.

Le sue braccia si riempirono di segni che si andarono a sommare ai precedenti, a tratti ricalcandoli, a tratti nascondendoli. Accanto a lui c'era già tutto l'occorrente per disinfettare e tamponare: il rituale era scandito in maniera precisa. Era l'unico tipo di ordine e disciplina che avesse mai dato a sé stesso.

Lasciò che le lacrime rosse piangessero al suo posto, guardandole dispiegarsi sino a posarsi sull'accappatoio gettato per terra. Non passò molto che anche delle vere lacrime iniziarono a bagnargli il viso, incastonandosi tra i suoi ricci castani, ancora umidi dalla doccia.

Uno dei motivi per cui aveva iniziato era l'incapacità di riuscire a piangere in quei momenti di vuoto. Poco dopo l'Espiazione aveva vagato intorpidito per giorni, senza ben comprendere perché si sentisse "bloccato". Era bastato rivolgere un'arma contro sé stesso, per sbloccarsi. Alla prima ferita, era riuscito a sfogare giorni di lutto per Nadine, piangendo a dirotto. E, da quel momento di quasi vent'anni prima, non si era mai fermato.

All'inizio non aveva assolutamente idea di come fare. Nell'immediato non gli appariva mai molto doloroso, ma era la convalescenza il vero incubo. Le ferite bruciavano sempre: quando dormiva, quando camminava, quando respirava. Ma a lui andava bene: in quel modo si sarebbe sempre ricordato di essere miserabile. Vestirsi era un'angoscia, essendoci sempre il rischio che le ferite si riaprissero facendo frizione coi tessuti. A volte i cerotti non gli bastavano, e avviluppava le braccia in folte garze mediche, trascinandosi poi in giro con quel malloppo alla buona sotto i vestiti, consapevole che nessuno lo avrebbe mai notato.

Eddie non si era mai accorto di nulla, o almeno così gli piaceva pensare. Il ragazzo era intelligente, e di certo doveva aver notato che lui non indossava mai magliette a maniche corte, nonostante nei mesi estivi il caldo fosse insopportabile, e raggiungesse i cinquanta gradi già a giugno. Prima che arrivasse Eddie nella sua vita, Ian aveva sempre evitato di uscire, chiudendosi in casa nelle giornate più calde. Tuttavia, negli ultimi anni si era anche spinto al supermercato e alla pista di atletica, vestendosi in maniera inadeguata al clima, solo per fare compagnia al ragazzo. Per godere della sua luce, sin quando lui glielo avesse permesso.

Ma lui non esiste, ricordi? Sei solo uno schizzato.

Quel pensiero gli provocò una breve risata, a tratti folle, che scosse lievemente il suo busto. Nonostante si stesse dicendo quelle parole, non riuscì ancora a provare alcuna pena per sé stesso. Eppure, gli sembrava di aver calcato già abbastanza la mano. La pena avrebbe dovuto arrivare assieme alle lacrime, come di consueto, ma qualcosa sembrava bloccargli anche quel sentimento. Vuol dire che non hai fatto abbastanza.

Florian posò gli occhi sugli oggetti che giacevano ai suoi piedi. C'erano i documenti del dottor Viktor, delle garze, dei cerotti, un paio di lamette da barba e la confezione di sonniferi "Still Life". Come in un sogno, si vide prendere in mano il flacone, scuotendolo leggermente. Sul cilindro c'era disegnata una placida mezzaluna, che consumava la sua luce in un cielo zeppo di stelle.

Allentò il tappo, svuotando l'intero flacone nel proprio palmo. Calcolò fino a una quindicina di pillole, ma perse subito l'interesse nel contarle. Erano di colore azzurro, piccole e immobili come insetti privi di vita.

Chi mai potrebbe sentire la tua mancanza?

Lasciò la propria domanda senza risposta, nonostante la conoscesse benissimo. Sapeva perché aveva deciso, da anni, di non compiere il passo estremo. Era merito di Nadine: quel giorno, il 15 ottobre del 2072, Florian pensava di aver scambiato la propria vita con quella di sua sorella, non riuscendo a salvarla dalle fiamme dell'auto. E, in qualche modo, quell'evento lo aveva portato a considerare il proprio attaccamento alla vita come un qualcosa di "dovuto" a quella bambina di otto anni.

Ovviamente aveva comunque pensato innumerevoli volte di farla finita, ma la cosa non aveva mai avuto un seguito. Attendere la fine dell'umanità in quel mondo disintegrato, guidato da un Regime subdolo e falso, era già un'agonia abbastanza intensa. Da quando c'erano Eddie e Dianne, inoltre, non aveva più dovuto contare solo sul senso di colpa: se poteva averli al suo fianco, lasciarsi esistere non gli pesava poi più di tanto. Ma dal momento in cui si era risvegliato, quella stessa mattina, quel paio di ragioni per rimanere attaccato all'esistenza erano pericolosamente venute meno.

Guardò i sonniferi nel suo palmo, che ormai lo stavano tentando in maniera diabolica, chiamandolo con la loro voce languida. Dai, fallo, che ti importa. Qualche minuto e sarà tutto finito. Niente più dolore, niente più preoccupazioni. Niente di niente. Per un istante pensò al paradiso del culto del Reset, prospettato ai fedeli dalla Chiesa del Giudizio come roseo e perfetto. Eppure, quella visione fittizia in quel momento riuscì solo ad acuire il suo senso di vuoto.

Florian avvicinò la mano al proprio viso. La sentì tremare leggermente, e le pillole rotolarono disordinate sulla sua superficie. Il loro aroma era dolciastro, e si mescolò all'odore ferroso del sangue, che continuava a scorrere pigramente verso il basso. La voce continuò a esortarlo, carezzandogli la coscienza. Dai, fallo.

Accadde tutto in un attimo. Florian chiuse gli occhi, ma li riaprì immediatamente. Vide la propria mano, rimasta a mezz'aria, venire avvolta da qualcosa di evanescente, ma stranamente solido: un'altra mano, più piccola, dalla quale iniziò a dipanarsi una figura sin troppo conosciuta.

Ian ebbe l'istinto di scostarsi, ma non lo fece. Una parte di lui pensava che avrebbe dovuto essere sorpreso di vederla lì, ma sapeva bene che la presenza della bambina non era altro che l'ultima e più disperata forma del suo labile istinto di sopravvivenza.

Sua sorella lo guardò con degli occhi grigi uguali ai suoi, ma colmi della tristezza e della pena che lui non stava riuscendo a provare per sé stesso.

– Sei tornata da me –, si trovò a dirle.

Non parlarle, echeggiò la cosa nella sua mente. Non lasciare che ti salvi.

Nadine lo fissò immobile, chiudendo le proprie dita attorno al suo palmo pieno di pillole. Come ipnotizzato, Ian si ritrovò a fare la stessa cosa, seguendo il movimento di lei. Lasciò cadere la mano verso il basso, sentendo i sonniferi azzurri spargersi sul pavimento, mischiandosi al sangue. Percepì le proprie braccia come molli e deboli, prosciugate dalle ferite che ancora non aveva tamponato.

– Sì. Ma adesso devi farlo tu – gli disse Nadine, con la sua voce leggera.

– Che cosa? – le chiese, confuso.

I loro sguardi si rispecchiarono l'uno nell'altro, cinerei e identici.

– Tornare da te stesso.

In un istante la sua sorellina sparì, rapida com'era arrivata. L'ultima possibilità.

Florian osservò per qualche altro minuto il punto del pavimento in cui lei era apparsa, sentendola ancora consistente e reale sotto il proprio sguardo. Dopodiché iniziò a medicarsi, lentamente, senza dire una parola. Sbucciò una decina di cerotti, attaccandoseli rozzamente sulla pelle. Si avvolse le braccia in delle garze, come non gli capitava di fare da qualche mese. La pena per sé stesso alla fine era arrivata, così come la consapevolezza di dover rimanere in vita. Almeno per lei.

Guardò ancora attorno a sé, perdendosi nel bianco delle pareti. L'ultima cosa che fece fu prendere in mano i moduli per la Riforma Avanzata, piegandoli senza curarsi del sangue che li stava imbrattando.



______________

Ok, ok. Di solito non scrivo commenti lunghi, ma forse qui è necessario. Beh, questo capitolo si è quasi scritto da solo. Mi spiego: inizialmente Ian non avrebbe dovuto far altro che ferirsi, tuttavia la scena del tentato suicidio con i sonniferi è slittata via dalle mie mani in automatico. Me lo sono ritrovato a rimproverarmi, con una domanda tipo "secondo te, dopo tutto quello che è successo, come diamine dovrei sentirmi? Credi davvero che mi fermerei a delle 'semplici' ferite?". Forse non avevo ancora realizzato quanto fosse profondamente danneggiato. Qualche indizio su cosa l'avesse portato a farsi Attenzionare, oltre alla depressione, c'era. Ma credo che nulla prepari a un capitolo del genere, e me ne dispiace. Guardandolo dall'esterno, quasi vorrei non averlo scritto. Spero solo tu ce l'abbia fatta a sopravvivere, e che possa perdonarmi.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro