³⁶. 𝘐𝘯𝘤𝘶𝘣𝘰

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Il suono secco di uno sparo lacerò il silenzio, carico di tensione, che sembrava aleggiare in quella mattinata di primavera. La sua stagione preferita. Sottili petali di ciliegio volteggiavano nella brezza, calda ma non al punto di scottarlo, stranamente. Ciliegi? Non ricordava di averne mai visti dal vivo. Ma in quel momento non gli importò, e che il circondario fosse pieno di alberi dai fiori rosa gli sembrò normale e giusto.

Non c'erano state tempeste, né alluvioni (perché avrebbero dovuto essercene?) e il clima sembrava mite, perfetto, giusto, anche quello.

Lui e gli altri ragazzini stavano allineati sulla linea di partenza della pista da corsa, e al suono dello sparo scattarono in avanti, mossi da una spinta automatica praticata migliaia di volte. Sentì il suo corpo diventare un tutt'uno con l'aria attorno, confondendosi con essa per trascinarsi innanzi con più vigore.

Strinse forte i pugni, e abbassò la testa per sfruttare l'aerodinamica. Era da solo, nessuno che gli facesse compagnia né a destra, né a sinistra. Con la coda dell'occhio vide il vialetto alberato riempirgli lo sguardo coi suoi colori tenui, e i petali e le foglie accumularsi ai lati del campo. Erano stati sospinti in leggeri mulinelli, che avrebbe di sicuro saccheggiato più tardi, portandosi a casa una bella foglia da appuntare nella stanzetta.

Senza alcun preavviso, una sagoma comparve nella sua visuale periferica. La figura lo scavalcò con una facilità incredibile, proiettandosi oltre la linea del traguardo. Non aveva avuto neanche il tempo di realizzare che fossero così vicini alla fine.

Raggiunse l'altro ragazzino trascinando le proprie gambe oltre la striscia di carta ormai divelta, accasciandosi accanto a lui, col fiato corto e gli occhi fuori dalle orbite. I suoi pantaloncini azzurri si sporcarono di terra, e la pettorina che gli stava troppo larga si riempì d'aria tiepida, avvolgendolo. Portò una mano ad asciugarsi il retro del collo, trovandolo zuppo di sudore ma stranamente libero. I suoi capelli erano davvero così corti? Non lo ricordava.

- Te l'avevo detto che ti avrei battuto - disse una voce un po' stridula, da preadolescente, appena accanto a lui. Il ragazzino che aveva tagliato il traguardo aveva gli occhi a mandorla e i capelli neri, che gli sparavano in mille direzioni. Anche i suoi pantaloncini erano sporchi di terra, e sulla sua pettorina c'era cucita la parola "Rein", il suo nome. Una toppa con su disegnato un lupo gli decorava una manica.

- Ci ho provato - si sentì dirgli, sospirando. Aveva risposto con una voce di qualche tonalità più alta rispetto a quella che ricordava di avere. Da quand'è che parlava in quel modo?

- Avevi promesso che mi avresti fatto giocare con Ros - disse l'altro ragazzino, mettendo su un'espressione imbronciata, quasi aspettandosi che lui non mantenesse la promessa. Come se avesse mai potuto fare una cosa del genere.

- Ti ci avrei fatto giocare lo stesso - gli rispose, sorridendo. Passò un braccio attorno al collo dell'amico, sentendolo zuppo di sudore quanto il suo.

Raccolsero velocemente i complimenti del loro allenatore, che più tardi li avrebbe chiamati sul palco per la premiazione. Gli fece guardare le due medaglie luminose, una d'oro e una d'argento, che presto avrebbero avuto attorno al collo. I due ragazzini si guardarono felici, lo stesso luccichio che gli ornava le iridi.

Edin spostò lo sguardo verso gli spalti, gremiti di persone. Genitori, parenti, amici che sciamavano in ogni direzione. Avevano in mano bandierine di mille colori e palloncini dalle tinte sgargianti.

Strinse un po' i suoi occhi azzurri per cercare meglio, e quando vide la testa riccioluta si lanciò al suo inseguimento, anche più di quanto avesse corso prima, durante la gara.

Lo trovò con Ros in braccio, che scodinzolava allegro, tirando fuori la sua lingua umidiccia. Florian lo accarezzava sulla testa con movimenti circolari e rassicuranti, per evitare che gli fuggisse giù dal grembo, mettendosi a correre in giro nella folla. Non aveva il guinzaglio: Ian non lo avrebbe mai permesso. Qualche ciuffo di pelo castano volò via dal cucciolo, incollandosi irrimediabilmente alla maglietta a maniche corte del suo padrone.

Le braccia di Florian erano libere, e la sua pelle ambrata si beava del Sole di quella giornata. Edin ebbe un attimo di esitazione, guardandole, ma poi si disse che sì, aveva già visto prima quegli avambracci ossuti. Non c'era alcun motivo per cui avrebbe dovuto nasconderglieli. Cosa gli era saltato in mente?

Spostò lo sguardo sul viso limpido dell'uomo, e lo vide sorridergli. Limpido? Ma certo, c'era solo l'ombra della sua barba, qua e là. Si soffermò a scrutare la guancia destra di Florian, rimanendo stupito da sé stesso per l'eccessiva attenzione che vi stava riponendo, cercando delle cicatrici che non esistevano.

Scosse la testa per eliminare quei pensieri e accolse la pacca che gli stava dando Ian, scompigliandogli i capelli. Il suo tocco fu gentile, ed Edin si sentì investire da un tepore delicato. Si accorse di starlo guardando dal basso; non ricordava che le loro altezze si fossero invertite. Ma in fondo era normale: lui aveva appena dodici anni.

- Sei stato bravissimo, Edin - gli disse Florian. - E anche tu, Rein. Sei corso via come un lupo - disse al ragazzino a fianco a lui, che si esibiva in un sorriso a trentadue denti.

Edin si accorse di aver tolto il braccio d'attorno al collo dell'amico, e di stargli stringendo la mano. Per un attimo pensò di lasciarla, ma poi non lo fece. Era morbida e viva sotto le sue dita, e dal punto in cui l'aveva afferrata gli sembrava che si irradiasse un leggero formicolio.

Portò l'altra mano ad accarezzare Ros, allungandola per arrivare alle braccia che lo tenevano. Il cucciolo gli leccò le dita, e lui rise leggermente. La sua lingua ruvida gli lasciò una grossa striscia di saliva addosso, che non seppe dove asciugare.

- Ecco qua - disse Florian, alzando gli occhi al cielo. - Va' a sciacquartela alla fontana, su.

- Fontana? - si sentì dire. Non le avevano chiuse tutte? Ma certo che no. Non c'era alcun motivo per cui l'acqua non avrebbe dovuto scorrere continuamente, e per tutti. Abbondante, fresca, sempre pulita.

- Va bene, papà - rispose all'uomo. Papà. Il suono di quella parola tra le sue labbra gli sembrò strano, ma allo stesso tempo normale. Ma certo. Il suo papà si chiamava Florian. E sua zia si chiamava Nadine.

Edin si girò, cercandola con gli occhi. La trovò poco più avanti, intenta ad affannarsi tra gli spalti, tenendo in equilibrio una pila di panini, patatine e altre leccornie. Erano veri, non in un video. Ma perché avrebbero dovuto esserlo? Si sentì stupido anche solo per averlo considerato. Sembravano alimenti così vividi, freschi, e gli parve di non aver mai visto nulla di più invitante. Non c'era nessun beverone diluito, nessuna busta piena di polveri asettiche, nessuna compressa che prometteva di fungere da pasto completo.

La torre di cibarie continuò a oscillare leggermente, e zia Nadine si avvicinò claudicante, quasi esibendosi in un numero da circense.

- Bravissimi, pulcini! - disse ai due ragazzi, urlando euforica. Posò il suo ingombrante carico su un sedile colorato, e li abbracciò entrambi con forza. Edin sentì il profumo dei suoi capelli invadergli le narici, e vide i suoi occhi grigi scintillare al Sole.

- Vi ho portato un po' di schifezze! - continuò lei, raggiante. - Andiamo a sederci a uno di quei tavoli.

- Aspetta - la interruppe Florian, sorridendo. - Manca ancora qualcuno.

Si spostò dalle scale di cemento che stava occupando, permettendo a tutti di guardare. Una donna bellissima scese i gradini dietro di lui, arrivandogli silenziosamente accanto. I suoi capelli castani e vaporosi le incorniciavano perfettamente il viso, e i suoi occhi chiari mandavano bagliori incuriositi.

- Lei è Dianne - disse suo padre, mettendole una mano sulla schiena per incitarla a farsi avanti. Fece l'occhiolino a Edin. - La tua nuova mamma, se lo vorrai -, gli disse in un soffio.

Lui rimase immobile, a differenza di Rein che invece proruppe in un concitato "wow!". Si sentì irrazionalmente in imbarazzo, e strinse più forte la mano dell'amico.

- Avanti, che aspetti, presentati! - gli disse Florian, sorridendo del suo immobilismo.

Lui si sentì arrossire leggermente, e aprì la bocca per spiccicare qualcosa.

- Mi chiamo Eddie - disse. Eddie? - Piacere di conoscerti - aggiunse, con la sua voce leggera e infantile. Si girò verso Rein, vedendolo sorridere e traendo un po' di coraggio dal suo viso allegro.

- Lui è mio... - si interruppe. Fratello? Migliore amico? Qualcos'altro? Cosa era Rein per lui? Non lo ricordava affatto. Forse non l'aveva ancora neanche deciso.

Lasciò perdere, volgendo di nuovo gli occhi verso Dianne. Anche lei si presentò, e la sua voce era musicale, cristallina, morbida come i petali di ciliegio. Si abbassò verso di lui, prendendogli la mano. Vide suo padre guardarla come se fosse l'unica cosa al mondo, l'unica stella nel cielo.

- Il piacere è mio, Eddie - gli disse.

Solo allora lui si accorse della sua pancia arrotondata in una lieve protuberanza. Sgranò gli occhi, portando una delle sue manine a toccarla. Sentiva qualcosa pulsare e agitarsi al di sotto, una vita nuova, che si avvinghiava al calore di lei lasciandosi esistere.

Si scostò spaventato, facendo un passo indietro. Come aveva fatto Dianne a fare una cosa del genere? Non era assolutamente possibile. Tutti quanti erano sterili, questo lo ricordava. Eppure, scacciò via in un attimo anche quell'assurdo pensiero, sentendosi ridicolo per averlo assecondato.

Si riavvicinò con cautela, come di consueto lasciando che la curiosità prevalesse sul timore. Florian lo guardò accarezzare la pancia di Dianne, ancora sconvolto, e si abbassò leggermente verso di lui. Ros abbaiò piano, continuando a tenere la lingua penzoloni fuori dalla bocca.

- Non sapevo quando dirtelo, Edin. Spero potrai perdonarmi. Ti piacerebbe avere una sorellina?

Edin sentì i suoi occhi illuminarsi, e l'entusiasmo agitarsi nel suo petto come un colibrì senza riposo. Scordò ogni dubbio, pervaso da un'allegria innocente. Si mise a saltellare, facendo ridere Dianne e sua zia, che aveva la bocca piena di patatine e gli occhi lucidi.

Edin si girò verso Rein, leggendo lo stesso entusiasmo anche nei suoi occhi. Non riuscendo a trattenersi, lo abbracciò forte, e gli schioccò un grosso bacio sulla guancia. Non gli sembrò strano, neanche quando ruotò il viso per sbaglio, sfiorandogli le labbra.

Vide un lampo di sorpresa affacciarsi negli occhi scuri dell'amico, subito sommerso da uno sguardo felice. Sentì la mano di Rein stringerlo più forte, saldandosi alle proprie dita come se ne andasse della sua stessa vita. Edin guardò ogni centimetro del viso del ragazzino, trovando in esso qualcosa che non avrebbe mai scorto in nessun altro, che non avrebbe mai neanche cercato in nessun altro.

Mentre si beava contento del sorriso di Rein, si accorse che sulla sua fronte faceva capolino una macchia scura. La chiazza allungò pigramente le sue dita sul viso del ragazzino, sporcandoglielo. Il sorriso di lui, però, continuava a tirargli la faccia in un'espressione felice. Edin gli lasciò la mano per portargliela alla fronte, raccogliendo dubbioso una goccia di quel liquido rosso.

- Ti sei fatto male, Hermes? - gli chiese. Hermes?

- Adesso mi passa - rispose lui, continuando a sorridere tranquillo.

Edin usò anche l'altra mano per pulirgli la tempia, inzuppandosi completamente di sangue. Arrivò a sporcarsi fino agli avambracci, ma il fiotto non si fermava, nonostante lui ce la stesse mettendo tutta per tirar via ogni goccia di rosso. Come se, raccogliendole nelle proprie mani, avesse potuto eliminare quelle stille cremisi per sempre. Sì, avrebbe fatto in quel modo. Si sarebbe ucciso al suo posto.

"Ti calpesteresti a morte per gli altri", sentì rimbombare nella propria testa. Riconobbe la voce di Rein, ma era più adulta, più profonda. Sembrava rotta dal pianto.

Sentì di nuovo il suono di uno sparo, ma non era quello dell'inizio di una gara. Era quello della fine di un'altra corsa: la sua.

Eddie sentì gli occhi chiudersi contro la propria volontà, e un forte dolore alla testa allontanarlo da quella realtà, come strappando un cerotto.

Ancora cinque minuti, vi prego. Non portatemeli via.

Si udì chiamare il nome di Florian, di suo padre, per l'ultima volta. Poi piombò in un baratro scuro e vuoto, che coi suoi neri tentacoli inghiottì ogni traccia di quel sogno impossibile.

Quando si svegliò, vide solo bianco.


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