❥ 𝕷uca

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Fumi tranquilla, con le caviglie incrociate e la schiena appoggiata al muro, proprio accanto all'entrata del piccolo negozio di tatuaggi. Sei finita a fare quello che ti riusciva meglio, quello in cui riuscivi meglio di chiunque altro.

Non te l'ho mai detto, ma avrei voluto farmi marchiare la pelle da te, un giorno.

Sognavo di chiedertelo così, di punto in bianco, solo per vedere quell'espressione che ti illuminava il viso ogni volta che ti coglievo alla sprovvista: ti brillavano gli occhi per un minuscolo istante, prima che tutto tornasse velato da quel cipiglio di finta apatia che non ti aveva mai abbandonata da che ne avevo memoria. La conoscevo bene quell'espressione, un po' austera e pesante, diffidente verso il mondo; funzionava come uno specchio a senso unico: faceva vedere agli altri quello che volevano, celando però ciò che c'era dietro.

La conosco a memoria, quell'espressione, perché è la stessa che porto io da quando te ne sei andata.

Ma sai, Pulce, era un mondo sporco, quello in cui annaspavo, e il paradosso è che più era sporco, più volevano che la mia pelle fosse pulita. Non potevo farmi un tatuaggio o la loro illusione di avere tra le mani un ragazzino acqua e sapone sarebbe sfumata via e non ci sarebbe stata pillolina blu che avrebbe retto.

E io dovevo ancora alimentarle, quelle fantasie.

Soldi. Mi servivano soldi per tenere in vita quel pezzo di merda di mio padre, lo sai, ché quando perdi tutto come me ti aggrappi perfino alla fame di vendetta pur di sentire di possedere qualcosa.

Che idiota. L'ho capito solo quando ho visto la sua tomba che in realtà aveva fregato lui me per l'ennesima volta. Mi è sembrato quasi di sentirlo ridere quel pazzo fottuto, quel giorno, e dirmi: "hai visto, sono riuscito a farti male anche senza usare le mani".

Perché è così che è andata. È per colpa sua che il momento di chiederti di tatuarmi il tuo nome sul petto, all'altezza del cuore, non è mai arrivato.

O forse questa è l'ennesima favola che mi racconto pur di non ammettere neanche a me stesso che è stata solo colpa mia.

Non sei cambiata molto, dopotutto. Anche se da questa distanza, nascosto dall'ombra di un palazzo, non riesco a vederti bene in volto, purtroppo.

Sono già due giorni che mi apposto qui come uno stalker senza trovare il coraggio di parlarti. L'afa estiva di questo paesino è opprimente, mi appiccica i vestiti addosso.

Cervia.

Ti dona, sai? Te l'ho già detto una volta, che mi ricordavi il mare. Non mi sorprende affatto che tu abbia deciso di vivere in un posto così, alla fine.

Sarà la prima cosa che ti dirò, probabilmente.

Non appena troverò il coraggio di farmi vedere.

Non è facile, dopo sette merdosi anni mi vergogno di ciò che sono diventato. Una puttana, proprio come dicevi tu quando ti arrabbiavi. Una puttana maschio per giunta, qualcosa che, ai tempi della scuola, sembrava un ossimoro.

Finché non è stato il corpo stesso a ribellarsi a quell'infinita brama di adolescenza. È cresciuto, trasformandosi in qualcosa che non poteva più essere usato da quei loro cervelli malati.

Scartato anche dalla feccia umana.
Ti rendi conto, Pù, di cosa sono adesso?

Una rovinata sporcizia che mi tiene insieme. Un disordine epilettico. Un prodotto di scarto, un succo gastrico espulso col vomito.

Neanche le marchette con quelli ricchi ero più buono a fare, e sono finito sul marciapiede. Perché a quel punto, anche se mio padre bruciava già all'inferno, c'era un altro mostro da alimentare, quello a cui mi sono aggrappato con le unghie e con i denti per riuscire a sopportare tutto quello schifo.

Ma semmai oggi troverò il coraggio di parlarti, non sarà di certo per raccontarti la mia squallida storiella da bassifondi, Pulce. Non ti dirò di quante macchine passano, di quante rallentano, di quante abbassano il finestrino accostando. Così come nel poker, a volte hai mani decenti e altre volte schifose, e devi fare buon viso a cattivo gioco. Gente che vuole pisciarti addosso, o solo guardare, o che gode a vederti sanguinare. Poi ci sono le serate jackpot, quando ti capita il tipo con una camera di motel a ore con la doccia e, magari, lenzuola vagamente pulite. E allora è Natale cazzo, è fottutamente Natale.

Uno che te lo succhia per mezza dose, e che per scopate di gruppo ti fa lo sconto comitiva. Un clown triste, con una sveglia al collo che ticchetta inesorabilmente. Ecco cosa sono adesso, Pulce.

Tu invece, cazzo.

Tu mi lasci ancora senza fiato, mi ero dimenticato di quanto fossi bella. Più bella di quanto tu riuscirai mai a vederti. Venticinque anni e sei incantevole come quando eri adolescente.

O forse sei ancora meglio.
Adesso sei una donna, dove prima c'erano solo spigoli, angoli e ossa sporgenti adesso ci sono curve più morbide, le forme una volta ben delineate sono state addolcite dalla crescita.

E poi, sei madre.

Già. Me lo avevano detto all'epoca, ironizzando sul fatto che avevi sputato su "piacevolissime feste" per poi farti ingravidare dal primo sconosciuto che passava. E l'ho visto, il bambino, quello che l'altro giorno ti sei portata appresso, ho visto come hai provato a far andare giù la sua presenza al tuo capo. Sembra un tipo burbero il tizio per cui lavori, con tutto quell'inchiostro addosso e la fissa per i bicipiti, ma alla fine te lo ha lasciato tenere. Forse anche lui non riesce a resistere a quella tua risata quando è vera e non indotta da qualche droga sintetica o a quei tuoi occhioni imploranti.

Quei tuoi occhi di un azzurro lattiginoso e svelto, troppo trasparenti e incauti per questo mondo di merda, capaci di strappare una a una ogni mia difesa.

Sento arrivare le tue parole da lontano. Come il suono del treno che sventrava la galleria quando passavamo interi pomeriggi a far niente, a ciondolare vicino alla ferrovia giù al Chernobyl. Lo guardavamo passare e sognavamo di prenderlo, un giorno, quel treno.

Non abbiamo mai avuto il coraggio di farlo, però. Te lo ricordi?

E te li ricordi gli orsetti gommosi che mangiavamo davanti al mio portone, con la sola luce dei citofoni a illuminare i tuoi capelli scompigliati? Odiavo quei concentrati di zuccheri e coloranti, ogni volta che tornavo a casa avevo le mani appiccicose e un peso in più nel cuore.

Era un peso che mi faceva sentire leggero, però.

Io mi ricordo tutto, Pulce. Mi ricordo la forma delle tue dita e il colore del tuo vestito nel giorno del tuo diciassettesimo compleanno, l'ultimo che abbiamo festeggiato insieme. Avevi una spilletta da balia attaccata alla giacca che ti stringevi addosso.

Era il tre di luglio, eppure te avevi freddo.

Eravamo andati all'Irish e sembrava che volessi renderti invisibile in mezzo a tutte quelle persone. Avevi ignorato tutte le suppliche di chi, per quell'occasione, ti invitava a scioglierti e a ballare insieme a loro sulle note del jukebox sgangherato di quel posto di merda.

Ballasti solo con me, quella sera. Strafatti, nel parcheggio del supermercato lì dietro, alle tre di notte, mentre un barbone ci guardava e rideva.

Ci avrà creduti degli innamorati ubriachi.

E forse, forse innamorati lo eravamo davvero.

Io mi ricordo tutto, Pulce.

Ecco, te ne vai via di nuovo.
Le cinque, stesso orario di sempre.

Tu e la tua postura fiera, tu e quegli shorts striminziti che mettono in bella mostra tutti i disegni che ti ornano le gambe snelle. Ce n'è uno enorme che ti ricopre la coscia quasi per intero, che sparisce sotto l'orlo sfilacciato dei jeans e mi fa venire voglia di strapparteli di dosso solo per vedere come va a finire.

Anche oggi, io prendo un ultimo respiro e attraverso la strada. Anche oggi pronto a fermarti, a chiamarti alle spalle per farti voltare.

E, anche oggi, non ci riesco.

Resto qui, come un fesso, a pochi metri da te che ti allontani.

Anche oggi, rimango fermo con addosso solo il vento che ti ha accarezzato la pelle.

Sono qui, cazzo, avrei potuto parlarti di nuovo, dare un senso al mio vagare in questo paesino sconosciuto di cui mi sento profanatore, ma non l'ho fatto.

Non ce la faccio.

Resto fermo, a un passo dal traguardo, senza riuscire a fare l'ultimo sforzo, senza riuscire ad affrontarti.

Capace solo di vedere l'amore della mia vita scappare via. Di nuovo.

Ti osservo camminare tra la gente, soddisfatta di essere ancora quella piccoletta invisibile che nessuno riesce a imbrigliare. Si capisce da come sorridi, sai, quante cose hai imparato dal dolore.

«Ti serve un tatuaggio? Sei nel posto giusto.»

Il disastro è ancora sul fondo della gola, amaro e ugualmente insipido, un sapore che dovrebbe somigliare al panico, e che quasi esonda nel patetico, quando mi volto. Il tizio per cui lavori se ne sta appoggiato mollemente con una spalla all'ingresso del suo negozio e mi osserva con un annaffiatoio in mano.

«Capisco che ci vuole coraggio e tutto, ma sembri uno che una buona motivazione ce l'ha. Poi magari è solo la mia deformazione professionale e in realtà volevi entrare nella lavanderia a gettoni qui accanto che, per l'amor di Dio, non giudico mica, ma magari non giustifica tutta questa titubanza. Non so. Nel caso, scusami se ti ho disturbato, torno ad annaffiare i vasconi.»

Resto immobile a fissarlo, in un momento di estenuante stasi, incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Non è a suo agio, nessuno di noi due lo è, e dal modo in cui solleva le sopracciglia nell'attimo prima di voltarmi le spalle e rovesciare meticolosamente l'acqua sui fiori, probabilmente mi crede scemo. O pazzo. O entrambe le cose.

«Sì.»

Il ragazzo, si gira di nuovo verso di me lentamente, confuso e con la fronte aggrottata.

«Sì, cosa di preciso?»

«Il tatuaggio. Lo voglio fare.»

Il tizio, che si presenta subito come Gek, è un gran chiacchierone. Tutto il contrario di me, ma non sembra scomporsi troppo alle mie risposte monosillabiche. In dieci minuti già mi ha snocciolato metà enciclopedia del tatuaggio, dalle origini a come si inserisce nella cultura di oggi.

«Allora. Hai già un'idea o vuoi dare un'occhiata a qualche album per un po' di ispirazione?»

«Un fiore.»

«Un fiore.» ripete, gli occhi leggermente sgranati per la sorpresa, osservandomi di nuovo per bene. «Non è la solita farfalla, ma devo ammettere che mi hai spiazzato. Dunque...» si picchietta l'indice sul mento, pensieroso. «Qui c'è tutta una serie di schizzi che ho fatto di rose, fiori di loto e margher...»

«Una Dalia. Vorrei farmi una Dalia proprio qui.» allungo il braccio, mostrando l'incavo del gomito. Per la prima volta, il tatuatore sembra rimasto a corto di parole.

Probabilmente è proprio la prima volta nella sua vita in generale.

Prende un foglio e una penna a punta fine e inizia a fare lo schizzo. «Parlami un po' di questa Dalia, ho bisogno di qualche elemento in più per farla venire perfetta, per impregnarla di significato, non so se mi spiego.»

«È un fiore. Tutto qui.»

«I tatuaggi floreali sono quelli dai significati più ricchi di simbologia. La Dalia, ad esempio, può rappresentare il cambiamento. O il tradimento a volte. Sei stato tradito dalla morosa, per caso? Ci sta, eh, come mettere un punto alla storia e ricominciare.»

«È un tatuaggio o la radiografia del mio cervello?»

«Non prendertela, per me il tatuaggio deve parlare al posto tuo, per quello chiedo. Allora, che so, in alcune culture la Dalia simboleggia gratitudine. Magari c'è qualcosa o qualcuno a cui vuoi dire "grazie" con questo tatuaggio. Anche semplicemente a te stesso, al destino, alla vita.»

Quasi scoppio a ridere. Grazie alla vita. Proprio io che arrivo a un passo dall'overdose un giorno sì e un giorno no, che la sento aggrapparsi e agitarsi, volere, desiderare, ordinare e pregare, finché in qualche modo il mio corpo la spinge via, ogni volta, scrollandosela sempre di dosso come un peso morto.

Grazie alla vita, proprio io che vorrei tanto sapere com'è, morire per un attimo. Uno solo. Avvertire il silenzio, la pace, l'abbandono totale al caso.

«Quasi mi fai cambiare idea, così.» lo sbuffo che mi esce dalle labbra è solo un aborto di risata.

Gek alza gli occhi su di me, stupito. «Però non desisti. Questa Dalia tu la vuoi proprio. Perché?»

«Perché è una Dalia. Non basta?»

«Sai, mi viene in mente la Dalia Nera. Rappresenta un impegno per un'idea. O per una persona.» fa finta di non essersene accorto, ma l'ho visto chiaramente quell'alone di soddisfazione sollevargli impercettibilmente un angolo della bocca nel notare come ho deglutito.

Gek si umetta le labbra e torna a concentrarsi sul disegno che sta prendendo sempre più forma sul foglio in un intrico di petali che dal centro si allargano sempre di più, diventando, via via che si allontanano, meno ordinati, più spigolosi, che dissonano traiettorie descrivibili solo con formule matematiche tendenti al caos.

«È la grazia sotto pressione, la Dalia, la forza nelle avversità. La dedizione per qualcuno indipendentemente dalla circostanza. Ecco. Ho finito. Ora te lo sistemo sul braccio con la copiativa e se ti piace, possiamo anche iniziare.»

Dopo un po' mi fa accomodare sul lettino. Strano, eh? Ho sempre pensato che sarebbe stata la tua mano a guidare l'ago con l'inchiostro sulla mia pelle per la prima volta. E, invece, eccomi qui con l'iperlogorroico che ti paga lo stipendio, a guardarmi intorno in cerca di un qualsiasi segno del tuo passaggio.

Sono patetico, lo so. Ma già solo immaginare che fino a poco fa c'eri tu qui dentro mi spinge a respirare, a incamerare quanta più aria possibile alla ricerca di un qualche strascico del tuo profumo.

Di cosa profumi ora, Pulce? Di sale? Di sole? O ancora di disinfettante, erba e sogni infranti?

Non mi importa, in fin dei conti. Per me profumerai sempre e comunque di casa.

Perché eri tu, la mia casa, anche se non te l'ho detto mai.

«Sai, possiamo piazzarci sopra qualsiasi cosa, ma certi segni, per quanto ti sforzi di nasconderli, rimarranno sempre.» la voce di Gek spezza il ronzio della macchinetta, quel breve ma confortevole silenzio che si era creato. Parla, lui, parla anche senza distogliere lo sguardo da quello che sta facendo. «Ne so qualcosa, fidati.»

È il modo sommesso in cui lo dice che mi fa capire a cosa si sta riferendo: ai segni delle punture, a quei piccoli fori infettati che si sono cicatrizzati a stento solo perché ho iniziato a farmi da sotto l'unghia dell'alluce, dove i marchi della schiavitù dall'eroina potevano essere meno visibili.

In quel disagio così poco istituzionalizzato, nell'essere inadeguati a gestire quella forma così contorta di imbarazzo che ci accomuna, se non altro almeno io e Gek ci riconosciamo come simili.

È la parte della mia vita che vorrei dimenticare di più, ma so che arriverà presto un'altra crisi a ricordarmela. Non si sfugge da quella, non si sfugge dal dolore, dall'astinenza.

«Credimi, uscirne è molto più difficile di qualsiasi cazzata possono raccontarti in comunità. Non indoro pillole, io faccio tatuaggi per vivere. Ma si può, sul serio. Se ne sono scampato io, figuriamoci un tipo loquace come te.» alza lo sguardo e nel vedere le mie labbra serrate in una linea rigida aggiunge: «E quando dico loquace sono sarcastico, nel caso il tono della mia voce più acuto di tre tonalità non sia sufficiente a chiarire la cosa. Ma non scherzavo sul resto.» ridacchia, un po' da idiota a voler ben vedere, ma forse è solo il modo di fare che hanno qui a Ficcanasolania. «Anzi, guarda, c'è questa mia collaboratrice che lavora da me part time proprio perché ha aperto un punto di ascolto. Fanno riunioni, incontri, si parla un sacco. Lo fa persino gratis, nell'unica scuola superiore di Cervia, l'Alberghiero. Okay, magari detta così può sembrare che non sia il posto adatto a te, ma, ehi, io l'indirizzo te lo lascio lo stesso.»

«La tua collaboratrice?»

«Già. Ti ho visto che la guardavi prima. Ma non lasciarti ingannare dall'apparenza: è piccoletta, ma ha la lingua tagliente e la lista nera facile. Fa più paura di molti bestioni che conosco, quando si incazza.» quel sorriso appena accennato, precipitato a caso, indesiderato e smodatamente confortevole.

Non dovrebbe essere un sollievo, eppure fa stare bene sentire parlare di te, di come sei diventata.

Quando il tatuaggio è finito, Gek mi invita a specchiarmi prima di mettere la pellicola.

Un solo minuto.

Sarò un coglione emotivo un solo minuto. Lo giuro.
Poi mi alzerò e la vita continuerà ad essere la solita quotidiana merda fumante di cui preoccuparsi.

Un minuto.
Uno solo.

Ma per tutto quel tempo, non faccio altro che accarezzarti, Pulce. Soltanto col pensiero, perché con l'essere un coglione integrale potrei vincere l'oro olimpico, ma mentre rimarco con lo sguardo ogni singola linea di questo disegno, ogni mio singolo pensiero è per te.

Quante volte ti ho messo di lato perché "magari se non ho di meglio", quante volte ho guardato le patinate fighette del centro pensando che fossero più adatte a come volevo essere. E ti odiavo perché, per quanto lo volessi nascondere, io sapevo quanto tu eri diversa. Usavi sempre quel tono di una che non aveva voglia di starmi a sentire e ridevi se provavo a incazzarmi, facendo rimbalzare i tuoi aggettivi coloriti per tutti i bagni della scuola.

Mi piacerebbe fartelo sapere, adesso, quanto mi facevi stare di merda, anche se all'epoca mi nascondevo. Mi nascondevo anche dietro al modo in cui ti grattavo via i vestiti di dosso, come se non mi importasse: due palmi appena lungo le cosce, altri due sopra l'ombelico, la distanza che imponevo al sesso.

Ma tu non eri solo una questione di scopare, tu da me sapevi tirare fuori qualcosa che io non volevo dare a nessuno: i sentimenti.

Chissà per quali cose senti mancare il fiato, adesso, ché a me manca sempre e solo il tuo.

«Quanto ti devo?» chiedo a Gek appena ci ritroviamo all'ingresso, accanto al piccolo bancone su cui è posizionata la cassa.

«Andiamo! Il primo è gratis per gli amici

Lo guardo come se fosse scemo.

«E gli amici di Pulce, sono anche amici miei. Ma promettimi che ci pensi al punto d'ascolto, okay?»

Pulce.
Ti fai ancora chiamare così, Dalia.

Come si intuisce, Gek è un tatuatore, più o meno coetaneo di Luca e Pulce, iperlogorroico ed ex tossico dipendente riabilitato grazie alla comunità. Ma soprattutto Gek è un personaggio preso in prestito dal fantastico universo di Gataz13
Vi consiglio di andare a leggere la sua storia, se vi ha incuriosito: si intitola "Brenda e Gek" e la trovate sul profilo del mio socio preferito (preferito perché è l'unico 🖤).

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