Respiro

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Respira. Il suono del suo respiro si espande per la stanza, il suo cuore batte ancora nella carcassa che pende dal soffitto. «Impossibile. Impossibile» mi dico mentre i suoi occhi vitrei mi guardano dal pozzo profondo in cui è sprofondata, in cui io l'ho fatta sprofondare.

Non era ciò che credevo quando ho stretto la corda attorno al suo collo e le ho tolto ogni respiro, non credevo che sarei precipitato in quel mondo insieme a lei, nell'abisso della morte in cui i suoni, i rumori della vita, scompaiono.

«Io credevo...» "di liberarmene", continuo a ripetermi.

Invece è ancora lì che mi osserva, che mi spia dietro quegli occhi neri e privi di ogni umanità; gli stessi occhi che per anni mi hanno guardato con disprezzo, che hanno deriso e rifiutato il mio amore.

Sono rannicchiato dalla parte opposta della stanza, sento il muro freddo contro le spalle e un vento gelido che spira verso di me. Eppure la finestra è chiusa, la porta sigillata. Il vento è una mia invenzione? Possibile? Possibile?

Batto la testa contro il muro finché quel vento non scompare, finché ogni dolore non scompare. Ma è inutile, tutto lo è, io lo sono. Proprio come diceva lei. Non sono stato neppure in grado di toglierle la vita.

Temo che i vicini abbiano sentito le sue urla mentre la soffocavo, le sue suppliche disperate mischiate al singhiozzare delle lacrime. Lo so! Me lo sento! Hanno allertato le autorità, tra poco saranno qui e mi arresteranno. Allora a cosa è valso il mio sforzo di finirla, di liberarmi per sempre dell'oppressione della sua presenza?

Eppure sono stato attento; mi sentivo così forte con quella corda tra le mani, in grado di decidere della vita e della morte di una persona. Per un attimo avevo persino pensato di fermarmi, che se l'avessi risparmiata sarebbe stata riconoscente della mia magnanimità. Ma ero andato troppo oltre, non potevo più risolvere nulla.

Ed ora le conseguenze delle mie azioni mi tormentano.

Se nascondo la testa tra le mani forse riesco ad eliminare la sua terribile presenza, il suo sorriso storto e crudele che mi rammenta quanto poco sia utile la mia esistenza.

Le mie dita nascondono la luce, il buio sembra accogliermi con più clemenza rispetto alla tanta decantata Luce. Mi sento bene qui, nascosto oltre il muro invalicabile di oscurità che le mie mani hanno creato tra il mondo dei vivi e me.

La sento respirare e la mia angoscia cresce. Possibile?

Credevo che fosse morta, ne ero certo. Mi sta ingannando, sta solo fingendo di essere spirata, sta aspettando che la tiri giù e che mi allontani un attimo e allora ne approfitterà per scappare. Vuole farmi arrestare e godere della mia disfatta. Me lo sento.

Devo controllare, non posso rischiare che finga.

Lascio che le mani mi scivolino lungo il viso liscio e mi asciugo le lacrime che non credevo di aver pianto. Congiungo le mani contro il petto che si alza e abbassa con un ritmo serrato e prego, come mi ha insegnato mia Madre. Prego il mio dio, il mio salvatore.

«Fa che sia morta» sussurro prima di aprire gli occhi su quel mondo che volevo dimenticare.

E lei è lì, ferma. Così come l'avevo lasciata l'ultima volta. La mia vittima. Il suo corpo pende dalle assi del soffitto e continua ad oscillare lievemente come un pendolo che ha bisogno di essere ricaricato.

Sembra morta. Mi alzo adagio e la scruto in viso. Il suo bellissimo viso ha raggiunto la perfezione con la morte. La tocco appena e non sento vita nel suo petto. Tuttavia dalla sua bocca provengono i suoni inconfondibili di un respiro.

Respira. Ne sono convinto! La mia vittima sta respirando, i suoi occhi mi stanno guardando.

«Lo sapevo...» la mia voce è divenuta solo un piagnisteo incontrollato. Non avevo mai creduto di poter generare suoni così miseri.

Vorrei chiederle scusa e riparare al mio errore, però ho paura che non mi perdoni, che mi denunci non appena l'avrò liberata. E lo farà. Perché non mi ha mai amato veramente, non ha mai provato compassione per me e si è costantemente rifiutata di entrare a far parte della mia vita.

Devo riacquistare la calma; se la lascio legata alla trave, non potrà mai scappare e prima o poi imparerà ad amarmi, a volermi, a desiderarmi. Ora è mia, è intrappolata da quella corda, dal filo rosso del destino. Devo solo convincerla e lei capirà.

Mi sento molto meglio ora, sono sicuro che insieme potremo vivere tranquilli. Farò il possibile per regalarle l'esistenza che merita e che suo marito non ha saputo donarle.

Sorrido e quasi esplodo di gioia al pensiero che ora sarà solo mia. Dove altro potrebbe andare un essere non morto?

«No, no» ma che dico? Scuoto la testa e mi rendo conto dell'irreparabile. Lei è morta, non mi vede, non mi sente, non respira!

Torno a sedermi, più vinto di prima. Batto la testa contro il muro finché l'idea folle che lei sia viva scompare e quasi ci riesco, quasi mi sembra di afferrare il senso di tutto ciò.

Cosa mi sta capitando? Mi sembra di impazzire.

Sento un suono e mi paralizzo. Non riesco neppure ad alzare gli occhi su di lei.

Ha parlato! Ne sono convinto! Ha emesso un verso così roco che sembrava provenire dagli abissi più profondi dell'Inferno. Avevo ragione, non mi ero sbagliato! Lei è qui, è tornata per torturarmi. Non accetterà mai di essere la mia compagna. La devo uccidere ancora, me ne devo liberare per sempre.

Sento il rumore di una macchina che si avvicina e i battiti del mio cuore rallentano. È la polizia, sono finito. Andrò in prigione, finirò la mia vita dietro le sbarre, dimenticato da tutti.

Non posso, non voglio.

Una persona sta salendo le scale che precedono la porta d'ingresso, vedo il suo riflesso oltre il vetro smerigliato. Batte le nocche contro la porta e ognuno di quei suoni è un rintocco di campana, la campana che mi condannerà. Riconosco la stazza massiccia di un uomo, indossa l'inconfondibile cappello della polizia. Ha le mani poggiate sui fianchi e la testa leggermente calata, come se stesse tentando di captare i miei suoni.

Se fingo di non essere in casa andrà via, se non muovo neppure un muscolo e smetto di respirare, non saprà mai che sono qui.

Ma lei farà lo stesso?

Alzo lo sguardo e per un attimo i nostri occhi si incrociano. «Non urlare» le chiedo con un sussurro implorante, ma il suo sorriso mi dice tutt'altro. Urlerà.

«Ma sei morta, abbi pietà di me...»

Il suo corpo viene scosso con più insistenza dal vento e la corda inizia ad oscillare in maniera più insistente. La stanza viene invasa dal lento cigolare della corda e dal fruscio della sua veste leggera.

«Fermati!» Non riesco a controllare la voce che ormai è divenuta stridula quanto quella di mia madre. I rumori tipici del mio quartiere scompaiono e ora solo quello stridio riempie i silenzi.

Socchiudo gli occhi, pronto a rifugiarmi nuovamente nella dimensione oscura che tanto mi ama, ma appena la luce si offusca, vedo dei prolungamenti neri e fibrosi, come tentacoli putrescenti e viscidi, che fuoriescono dal suo corpo. La sua anima nera e becera si sta rivelando, il male che sempre l'ha caratterizzata ha preso possesso del suo corpo e mi sta condannando.

Dunque è viva nella morte, non mi ero sbagliato. Non sono pazzo!

Una scarpa le si sfila dal piede e rimbalza sul pavimento.

Vedo la testa del poliziotto alzarsi di scatto, immagino i suoi occhi attenti e sospettosi che mi guardano attraverso il vetro smerigliato.

«Era questo il tuo piano?» le chiedo ostentando una sicurezza che non mi appartiene.

Il poliziotto bussa ancora e io mi alzo strisciando la schiena contro la parete. Mi detergo il sudore dal collo e, senza accorgermene, muovo un passo alla volta verso la porta.

Lei ride, quella cosa viscida ride.

Poggio una mano sul pomello della porta e apro solo uno spiraglio. Guardo pigramente l'esterno e vedo il poliziotto. È giovane, forse più di me.

«Il signor Alexander Becker?» mi chiede con sguardo serio.

«Sì, sono io» gli rispondo con poca convinzione. Mi spiega che i vicini hanno sentito delle urla e dei rumori molesti, mi tranquillizza dicendomi che la sua è solo una visita di controllo, ma i suoi occhi dicono tutt'altro. Vuole entrare.

Sento lei ridere ed esultare dalla gioia. Il mio animo è troppo debole per ribellarmi al suo aspetto autoritario e mi sposto dall'uscio.

L'uomo fa qualche passo all'interno e tenta di scorgere le forme della stanza per orientarsi; solo ora mi rendo conto di quanto fosse buia la stanza.

Chiudo la porta a chiave e vedo che lui si ferma, ha già la mano sulla pistola. L'ha vista.

Con il corpo mi lancio contro di lui e gli afferro la mano armata. Lui si gira e io lo costringo a rivolgere la pistola verso l'alto, lontano da me. Per qualche istante rimaniamo fermi a guardarci. La sua forza è inferiore rispetto alla mia e anche lui se ne accorge; per questo spara un primo proiettile che si conficca nel soffitto e poi un secondo che mi stordisce. Lo sento cedere sotto le mie dita e lo spingo verso il basso. Con uno strattone gli strappo la pistola da mano e senza pensarci gli sparo al cuore.

L'ho fatto ancora. Ho ucciso, mi sono condannato.

Se prima i vicini avevano sospettato che fosse accaduto qualcosa, ora ne avranno la certezza.

Si sentono altri passi all'esterno, il poliziotto non era solo.

Arretro nella stanza, il viso rivolto alla figura del secondo poliziotto che sbatte la spalla contro la porta. Urla qualcosa, chiama il suo amico.

Con i piedi inciampo nel cadavere dell'uomo e mi ritrovo tra le sue braccia. Rabbrividisco e mi allontano più che posso mentre Lei urla la mia condanna.

La guardo mentre gioisce e muove i suoi nuovi arti tentacolari verso il cadavere ai miei piedi. Il corpo del poliziotto sembra animarsi nuovamente, le sue mani strisciano sulla macchia di sangue che va allargandosi sotto di sé.

È ritornato in vita anch'egli.

Mi guarda sofferente, una smorfia di dolore dipinta sul volto.

Non ho via di scampo.

Le spallate del poliziotto stanno diventando sempre più insistenti e presto sarà qui, presto scoprirà ciò che ho fatto.

Devo fuggire.

La pistola è ancora ferma tra le mie mani tremanti. È la mia unica via di scampo.

Rivolgo la canna verso la mie testa e attendo qualche secondo prima di sparare.

«Codardo» mi dice il suo sguardo. Chiudo gli occhi per non doverlo sostenere ancora.

Nel momento esatto in cui l'uomo sfonda la porta, io premo il grilletto. Ma non succede nulla.

Non sento più il mio corpo, i miei pensieri sono confusi. Forse penso per la prima volta.

Riapro gli occhi e tutto ciò che vedo è un deserto.

Mi rialzo a fatica e tento di fare qualche passo, ma le mie gambe non collaborano. La sabbia avvolge il mio corpo, inizio a sentirmi un tutt'uno con essa.

Trovo la forza per camminare, i miei piedi affondano tra quei granelli sottili e ho la sensazione che da un momento all'altro potrebbe aprirsi una voragine sotto ai miei piedi. Sento di avere la coscienza sporca, ma allo stesso tempo non mi sono mai sentito così innocente.

Il vento mi flagella il corpo e il calore mi prosciuga l'animo. Sto camminando da ore, forse giorni. Forse non mi sono mosso neppure di un passo. Mi sto arrendendo pian piano alla mia solitudine quando, improvvisamente, scorgo una figura longilinea all'orizzonte.

Vorrei richiamare la sua attenzione, ma una parte di me mi dice che non merito la compagnia, che dovrei perire di stenti. La figura mi ha visto e scuote il braccio verso di me.

Corre. È una donna, un'orientale, ed è bella.

Sto per dirle qualcosa ma mi fermo, probabilmente non parliamo la stessa lingua.

«Stai bene?» mi dice lei e mi sorprendo che conosca il tedesco.

Non dico nulla, mi limito ad annuire.

Dopo poco si volta verso il deserto. Io seguo il suo sguardo e vedo altre persone. Un uomo e una donna.

L'uomo mi spaventa, ha un corpo massiccio, la pelle scura e lo sguardo penetrante. Mi scruta a lungo prima di parlare.

«Mi chiamo Akim» mi dice. Io vorrei rispondergli, dirgli qualcosa, infondere fiducia in queste persone. Ma non ci riesco. Non conosco il mio nome e ho la sensazione che, se parlassi, tutti e tre si accorgerebbero della mia anima putrida.

Una delle donne mi rivolge uno sguardo gelido, uno sguardo che mi è familiare.

Mi dico che devo inventare un nome, una vita. Qualsiasi cosa. Perché da solo non posso sopravvivere. Perché sento di essere una nullità.

«Mi chiamo Hermann» questo è il primo nome che mi viene in mente. Non dico altro, aspetto.

«Hermann» ripete l'uomo. «Cosa ti è successo?»

Lo guardo, spaesato. Non lo so.

«Ti sei perso anche tu?» dice l'orientale.

Annuisco. Io non mi sono perso. Mi sono semplicemente risvegliato qui, ma non posso dirlo con certezza. Il ricordo del mio risveglio sta pian piano sfumando come il resto della mia esistenza. Sembra quasi che qualcuno abbia voluto regalarmi una seconda possibilità e ho intenzione di sfruttarla. Ma devo inventare qualcosa. Queste persone sono confuse e spaventate, come me. Forse sono vittime di un incidente e non sanno dove andare. Devo fare in modo che si fidino di me, che siano convinte che posso essere utile nel gruppo. «Sono un medico.» Ma che ho detto? Un medico? Non conosco nulla di questa professione. Poi mi tornano in mente le notti che ho trascorso sui testi di medicina e ricordo vagamente di aver studiato qualcosa di analogo.

«Un medico!» Finalmente la seconda donna parla. Sembra quasi riconoscente che io sia lì e mi fa sentire importante.

«Nessuno di noi ricorda come sia finito qui» mi dice la donna orientale. Soffrono tutti del mio medesimo disturbo ma, contrariamente a me, il loro passato non è scomparso del tutto.

«Noi stiamo andando a nord» mi rivela Akim. «Puoi venire con noi se non sai dove andare.» Riprende la marcia senza aspettare la mia risposta. È evidente che io voglia seguirli e lui lo immagina. Mi accodo al gruppo e nel contempo li studio. Non so perché lo stia facendo, ma ho la necessità di scoprire quali siano le loro debolezze e quali i loro punti di forza. Devo conoscere il loro passato e come siano finiti qui.

Akim si è mostrato altero e solido, ma è un tipo pacifico, altrimenti non mi avrebbe mai accettato così facilmente tra loro. Si fida con facilità delle persone, ma devo stare attento ai suoi sguardi.

La donna orientale vuole apparire seria e disinteressata, ma ho la sensazione che sia la più vulnerabile, e dal modo con cui si guardano, credo che abbia una relazione con Akim.

L'altra è pericolosa, ha i nervi a fior di pelle e se provassi a farle qualcosa urlerebbe subito...

Mi fermo di botto e ansimo. Perché ho questi pensieri disonesti? Perché sto cercando un modo per approfittarmi di queste persone?

Chiunque io sia stato prima di diventare Hermann, non mi piace. Non so chi sono, non so da dove vengo, non ricordo più ciò che mi è successo; so solo che voglio fuggire da me stesso.

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