3.2 Verso il Lochlannach Clan

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Joseph aveva percorso la A68 con le ultime parole di Kyle a tormentargli i pensieri. L'idea che il proprio migliore amico dubitasse di rivederlo lo aveva messo in una sorta di malumore che, però, si era sorpreso scoprire stesse pian piano andando dissolvendosi, lasciando posto a quello che non aveva faticato a riconoscere come sollievo. Una volta imboccata la A1(m) e superata Peterborough, invece, la pressione di essere in missione per Douglas aveva lasciato definitivamente posto ad altro, quasi si stesse semplicemente concedendo un viaggio di piacere. Se non fosse stato per il traffico eccessivo nei pressi di Londra e qualche incidente prima di Dover, che gli avevano concesso fin troppo tempo per pensare a ciò che lo avrebbe atteso una volta arrivato in Francia, avrebbe quasi potuto dire di essere sereno, ma così non era stato. Più tempo passava nell'abitacolo della sua auto, più si sentiva mancare l'ossigeno nei polmoni e, così, persino con l'aria frizzantina dell'autunno, aveva abbassato i finestrini nella speranza di prendere grosse boccate d'aria che potessero chetare il suo animo. Nulla, però, era servito a tranquillizzarlo, nemmeno approdare dall'altra parte della Manica – dopotutto, volente o nolente, per trovare il Clan di Arwen sarebbe dovuto passare in mezzo ai territori di tanti altri branchi, come in quel caso.
Nel mettere piede su suolo europeo, Joseph aveva infatti aizzato i propri sensi: teso le orecchie, aguzzato la vista e aperto le narici tanto da poter intuire cosa si celasse nelle borse nei bagagliai di tutti i proprietari delle altre automobili che, come la sua, stavano facendo rifornimento in quel momento. Persino con l'olezzo di gasolio a bruciargli il naso riuscì a sentire il lieve profumo di una mela e, spostando lo sguardo poco sopra la spalla, vide poi un bimbo intento a masticarne una fetta con eccessiva bramosia. Il suo olfatto percepì anche l'olio fritto e rifritto di un sacchetto di patatine appena cotte, le note dolciastre di muffins al cioccolato e persino quello che, a una prima annusata, pareva essere formaggio brie - e a quel punto, seppur nolente, non fu in grado di tenere a bada il brontolio dello stomaco. Era partito presto, molto, e a parte due tazze di caffè nero non aveva ancora ingerito nulla, nonostante l'ora di pranzo fosse da poco passata e il suo corpo gli avesse mandato più di un segnale.

Estrasse la pistola dal serbatoio e, lanciando un'occhiata bieca all'area ristoro lì accanto, si disse di poter aspettare ancora un po' - la sensazione di potersi guadagnare un mal di stomaco fu sufficiente a convincerlo di poter sopportare qualche lieve crampo di fame -, così si rimise in auto. Non molti chilometri dopo e qualche minuto in più sulla tabella di marcia, Joseph si sedette al tavolo esterno di un grazioso ristorantino di paese. Il legno a vista e qualche mattone rosso a spezzare il bianco del calcestruzzo davano alla struttura quell'aspetto rustico e rassicurante che, visto il paesaggio, lo avevano convinto a fermarsi.

A differenza della Scozia, in quel primo pomeriggio normanno di metà autunno, il sole splendeva a sufficienza da scaldargli le membra, la brezza correva sporadicamente lungo le strade e le case scompigliandogli appena la zazzera scura, per nulla acconciata. Così lontano dal branco, dagli uffici dei Menalcan e con la scusa di quella missione tanto delicata si era potuto concedere il lusso di non curare minimamente il proprio look - o quantomeno di non prestargli la solita cura. Niente gel a fissare in modo ordinato i capelli, nessuna cravatta a stringergli la giugulare come un collare, nessuna camicia o giacca a farlo sembrare il solito damerino. Alla mise che tanto dilettava Douglas si erano sostituiti jeans e t-shirt, una giacca vintage di pelle e degli anfibi dalla punta logora, compagni di serate così lontane che alle volte Joseph si domandava se non fossero state solamente frutto della sua immaginazione.

Sorrise sprezzante a quel pensiero, sfiorandosi il mento. C'era stato un tempo, anni prima, in cui aveva cercato in ogni modo di sfuggire al suo destino, di rinnegare i suoi doveri all'interno del branco, di levarsi di dosso l'ombra di suo padre, ma alla fine si era comunque dovuto piegare ai Menalcan. Di quel periodo aveva cercato di conservare il meno possibile, in modo da non dover sentire in bocca il sapore amaro della sconfitta, ma tra le cose che erano rimaste con lui c'erano certamente quelle calzature, la giacca di uno zio che mai aveva conosciuto e le indelebili linee di inchiostro che gli ornavano la pelle dai polsi fin quasi al petto e che, in uno stile medievaleggiante, raccontavano miti antichi - tutte cose che in quel preciso momento, però, gli sarebbero tornate utili.

Distrattamente fece cadere lo sguardo su ciò che aveva appoggiato sul tavolo: un pacchetto di sigarette quasi finito, qualche scontrino accartocciato, un piccolo plico di fogli spiegazzati e un portafogli che ancora faticava a tenere nella tasca posteriore dei pantaloni. Cose che, se non fosse stato per quella specie di report stampato qualche giorno prima, gli avrebbero potuto far credere di non essere l'erede di uno dei più importanti Clan d'Europa - e soprattutto di non essersi proposto per un incarico suicida.
Così con le dita scivolò sulla carta, seguendo le lettere scure e ripetendo a mente i dati riportativi sopra. Con un ordine maniacale, tipico di suo padre, erano state raccolte informazioni sugli ultimi avvistamenti del Lochlannach Clan, sui suoi lupi più attivi, il loro modo di scontrarsi, in quante occasioni erano entrati in contatto con i membri più altolocati della famiglia Menalcan. Doveva essere certo di non sprecare troppo tempo a inseguirli, trovarli, ma doveva anche essere sicuro di non poter essere riconosciuto da nessuno; e a parte Arwen, che comunque rappresentava la grana peggiore, non aveva di che preoccuparsi. Erano passati anni dal loro primo e unico incontro, entrambi erano cambiati, cresciuti; probabilmente di lui gli era rimasto un ricordo vago nonostante ciò che era accaduto e, per questo, si era premunito al meglio. Oltre agli intrugli preparati dalle vecchie erboriste che con Kyle aveva definito cailleach (megere), si era fatto preparare saponi composti da erbe in grado di camuffare sia il suo sentore sia di alterare in parte il colore del pelo una volta mutato, schiarendolo leggermente, e infine si era procurato documenti falsi - in quel modo le possibilità che venisse riconosciuto si facevano misere, seppur non nulle.

Girò la pagina. Due fotografie svettavano agli angoli opposti del foglio, in alto un uomo imponente e barbuto, in basso una donna dalla medesima stazza, tanto simile a lui d'apparire mascolina. Accanto ai loro visi erano riportati dei nomi: Garrel, quello che dai dati riportati doveva essere il braccio destro di Arwen, e Freyja, sotto la cui descrizione era scritto, in grassetto, "deceduta" - e dalla bocca serrata gli sfuggì un ghigno.
Già uno in meno, pensò passando alla pagina successiva e incrociando lo sguardo con quello di altre due donne con la stessa dicitura riportata a piè del report. Gli venne naturale, quindi, considerare il fatto che probabilmente di tutti i licantropi lì raggruppati solo la metà doveva essere ancora viva. Tutti gli altri, da un Clan o dall'altro, dovevano essere stati uccisi - meno lavoro per lui, questo era certo.
Joseph allora passò un'altra mezz'ora a sfogliare il plico, a memorizzare quanti più dettagli possibili e, a quel punto, si alzò. Con una fretta che in realtà non aveva raccattò tutti i suoi averi, li rimise nelle tasche, lasciò una banconota che superava abbondantemente la spesa del suo pranzo sul tavolo e si rimise in auto. Con cura sistemò i fogli nel portaoggetti, infilò le chiavi nella serratura accanto al volante e pigiò sulla frizione, facendo rombare il motore.
Non aveva pianificato di fermarsi in quelle zone per troppo tempo, ad essere onesto non si era nemmeno soffermato a guardare quali bed & breakfast ci fossero lungo la strada perché, per qualche strana ragione, l'idea di stare nei territori di Ophelia lo aveva infastidito sin dai giorni prima, quando aveva tracciato il proprio tragitto su una mappa appesa in salotto. Soffermarsi in Francia gli dava l'impressione di avere dei segugi pronti a mordergli le caviglie alle spalle; e dal momento in cui si era seduto aveva percepito la sensazione che più tempo restava lì, più possibilità c'erano che quel brutto sospetto diventasse realtà. Ovunque il suo sguardo si era posato gli era sembrato di incontrare facce circospette e occhi indagatori, come se persino dei vecchi di paese potessero essere al soldo di un licantropo come Ophelia.

Scrollò il capo stringendo le dita intorno alla manopola del cambio.
Riflettendoci bene, e lasciando da parte la paranoia che pian piano si stava insinuando in lui, sarebbe arrivato da solo alla conclusione che c'era gran poco di cui temere; in fin dei conti i loro branchi non erano in guerra, lui sarebbe stato un bersaglio inutile e la causa di un conflitto senza senso, ma Douglas, o meglio Gabriel, gli avevano insegnato una cosa fondamentale per sopravvivere in quel mondo: mai fidarsi, nemmeno degli alleati certi - e visto che ufficialmente Ophelia non era tale sarebbe stato meglio levarsi il suo fantasma di dosso prima che potesse in qualche modo palesarglisi di fronte. Tanto, per quel che sospettava e visti i trascorsi tra i due Clan, dubitava che Arwen potesse averle chiesto ospitalità. Così inserì la marcia, volse il busto verso i sedili posteriori e pigiò sull'acceleratore, uscendo dal parcheggio.

Quel bastardo poteva essere ovunque, ma sicuramente non lì. Il rischio di essere fatto prigioniero era troppo alto, soprattutto ora che tra le mani aveva il Pugnale di Fenrir.

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