3.3 Verso il Lochlannach Clan

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Con la tempia appoggiata al finestrino dell'auto e la piantina della città aperta davanti al volante, Joseph Menalcan studiò le poche informazioni a propria disposizione. Era arrivato in Europa da quarantott'ore, non aveva dormito su un letto decente né la notte prima né probabilmente quella che sarebbe sopraggiunta. Sentiva le palpebre pesanti e la testa piena, eppure non aveva alcuna intenzione di fermarsi: le ricerche del Lochlannach Clan avevano priorità su ogni cosa. Doveva scoprire dove fossero ubicati quei meticci, decidere come instaurare un primo contatto con loro e, a quel punto, smussare tutti gli spigoli della sua copertura in modo da agire in sicurezza. Arrivare a guadagnarsi la fiducia di quei lupi, o meglio ancora della schiera più vicina ad Arwen, gli avrebbe permesso di mettere mano sul Pugnale e sparire senza che potessero sospettare di lui - ma si trattava comunque di un procedimento delicato, serviva tempo e pragmaticità, non poteva certo lanciarsi in mezzo a quei fanatici senza essere preparato!
Usando un pennarello blu aveva cerchiato i luoghi dove gli umani avevano affermato girare grossi lupi, con uno rosso le aree più promettenti per nascondersi, mentre con quello verde cittadine munite di hotel od ostelli in cui avrebbe potuto passare la notte. Insomma, il suo mal di testa non era solo dovuto alla stanchezza; quell'intricato sovrapporsi e susseguirsi di linee colorate su un pezzo di carta grosso quasi quanto tutto il suo cruscotto aveva una buona parte di colpa, lo dovette ammettere, e di fronte a quella consapevolezza lasciò cadere il proprio capo all'indietro, sbattendo contro il poggiatesta: «Fanculo...» soffiò rivolgendosi al nulla. C'era così tanto da fare, per non parlare della cura che avrebbe dovuto impiegare in ogni mossa da lì alla fine di quella missione - e il tutto in un lasso di tempo che gli pareva essere terribilmente breve.

Sbuffò.
Avrebbe potuto essere ovunque, invece eccolo in uno stupido abitacolo nel nulla di una terra a lui estranea, solo e con Morfeo pronto ad aggredirlo. Cosa gli era saltato in mente? Dopo anni passati a rifiutare i doveri nei confronti del Clan, a desiderare di non essere il figlio di Douglas Menalcan, si era trasformato nel suo cagnolino. Se solo l'orgoglio di suo fratello si fosse messo in mezzo al momento giusto avrebbe potuto liberarsi di due piccioni con una fava: togliersi dai piedi Gabe e una responsabilità che improvvisamente si rese conto di non desiderare. Ma d'altro canto, come tutti i lupi, desiderava l'apprezzamento e la gratitudine dell'Alpha cosicché potesse ottenere un po' più di libertà e magari, in futuro, la possibilità di non dover più chinare il capo di fronte a lui. Douglas prima o poi sarebbe morto e con lui i suoi doveri di erede.

Sbuffò ancora, lasciandosi sfuggire l'ennesima imprecazione.
Scuotendo il capo tornò a fissare la cartina di fronte ai suoi occhi. C'erano tre macro-aree in cui recarsi e sei più piccole, urbane, in cui cercare maggiori informazioni - e se voleva ottenerle avrebbe dovuto muoversi il prima possibile. Così scansò malamente il pezzo di carta buttandolo sul sedile di un passeggero fantasma, pigiò il piede sulla frizione e girò le chiavi al lato del volante, lasciando che un fascio di luce allo xeno fendesse le prime ombre della sera.

Non aveva alcuna idea di quante ore avrebbe impiegato per arrivare in zona, a dire il vero nemmeno gli importava. Tutto ciò che sperava era di ottenere, almeno alla prima tappa, qualche informazione utile - ma in tutta onestà già ne dubitava. Sapeva bene che certe questioni richiedevano tempo, energia e una buona dose di frustrazione; inoltre, fino a quel momento nessuno dei membri del Clan era mai riuscito a ottenere grandi risultati sulla posizione del branco di Arwen. Essere in pochi, in così pochi, alle volte giovava. Emettendo un ultimo sbuffo avviò il motore. Incrocio dopo incrocio, strada asfaltata dopo strada sterrata, Joseph macinò silenziosamente una quantità di chilometri che nemmeno si curò di controllare. Avanzò di provincia in regione, oltrepassando ponti e valichi montuosi. La notte prese possesso di ogni panorama su cui posava gli occhi e alla fine, scocciato dai propri pensieri e dal nulla continuo, accese la radio. Il gracchiare confuso degli speaker si mischiò con motivetti più o meno conosciuti, diventando un sottofondo monotono e poco rassicurante. Non ci mise molto a capire che di quel passo Morfeo avrebbe davvero preso possesso del suo corpo, rischiando di farlo schiantare da qualche parte.

Accostò lungo una strada poco fuori Metz, non lontano dal confine con Lussemburgo e Germania, e lì si premurò di trovare un angolo appartato in modo da chiudere gli occhi giusto qualche ora. Non badò a quanto quella scelta fosse sicura, dopotutto non era lui quello a doversi preoccupare di incontrare brutti ceffi nella zona, poi prese il cellulare e subito dopo aver puntato una sveglia tattica cercò il numero di Kyle. Lo riconobbe subito tra i pochi segnati, tutti senza un nominativo associato. Era stata una precauzione sciocca, forse, ma comunque necessaria.
Iniziò a digitare: "Giornata di viaggio. Niente di particolare da riportare. Ora provo a riposare un po', tieni tracciato il segnale." Per qualche secondo fissò lo schermo luminoso, troppo per i suoi occhi stanchi. Chissà se quello stronzo, a differenza sua, stava già poggiando la testa su un morbido guanciale oppure era sdraiato sul suo amato divano in pelle vintage a guardare un film e sorseggiare whiskey. Lo invidiò. Qualsiasi cosa stesse facendo il suo vice era meglio di ciò che stava facendo lui.

Inviò.

Appena la seconda spunta fece la sua comparsa accanto al testo scritto, Joseph si volse verso il cielo stellato al di là del finestrino. Tanti piccoli punti luminosi riempivano il buio, rendendo il paesaggio uno spettacolo che dalla finestra del suo appartamento in città mai gli era concesso vedere. Uno dei pochi rimpianti dell'aver abbandonato Villa Menalcan, che a dire il vero era più una tenuta di caccia che una vera villa, era stato il dover rinunciare agli alberi, ai cespugli e ai prati in cui correre senza l'ansia che un qualche umano potesse vederlo. Lì, il cielo sembrava uguale a quello che stava osservando.

Una leggera vibrazione nella mano lo costrinse a distogliere l'attenzione.

"Ti tengo d'occhio, tranquillo. K-" sorrise. Quantomeno Kyle non aveva la testa sprofondata in nessun guanciale di piuma d'oca, si consolò prima di riporre il telefono e lanciare un ultimo sguardo in direzione delle stelle. Joseph si accorse che non vi era luna, quella notte, e nel constatarlo sperò che non si trattasse di un brutto segno, un monito di Arianrhod riguardo alla missione che lo aspettava. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena e d'istinto chiuse gli occhi provando a scacciare quel pensiero. Non doveva lasciarsi condizionare, non doveva permettere all'ansia di avere la meglio - solo restando positivo avrebbe impedito ai nemici di fiutare le sue menzogne, di capire chi fosse in realtà. Non sarebbero bastati gli intrugli delle megere che aveva assoldato, quei saponi alle erbe e il resto. Se non fosse rimasto saldo loro lo avrebbero capito. Prese diversi respiri regolari, provò a rilassare i muscoli e, prima ancora che se ne potesse rendere conto, la stanchezza lo ghermì facendolo sprofondare in un sonno senza sogni.

Nei giorni seguenti Joseph si ritrovò a vagare per piccole città come Pirmasens, Oberotterbach, Steinmauren e Winden. Non trovò nulla se non un continuo accumulo di tensione. Parlare con i locali non era semplice, per la maggior parte del tempo lo guardavano con un certo distacco e circospezione, le informazioni che cercava una chimera nelle conversazioni che scambiava con loro. Più volte, infatti, alla domanda "ci sono animali selvatici qui nelle zone?" si era sentito chiedere "perché? Sei un cacciatore?" e avrebbe tanto voluto rispondere con un secco - peccato che la sua fosse un altro tipo di caccia. Pernottò in ogni città almeno un paio di notti, anche se in quelle più piccole dovette nuovamente affidarsi al sedile dell'auto come un qualsiasi senzatetto o fuggiasco. Era difficile per lui mantenere una qualche sorta di routine: usare i saponi delle megere, ingurgitare i loro intrugli per camuffare in parte il proprio odore. Non era tanto il sangue da Alpha a preoccuparlo, quello lo avrebbe potuto possedere un Nobili, un Fior Ghlan o un meticcio qualsiasi, era piuttosto la paura che qualcuno potesse notare la somiglianza con quello di Gabriel o di Douglas stesso - eppure in qualche modo riuscì a fare. Nei giorni in cui nessuna camera di ostello o albergo lo aveva accolto, si era accontentato di bagni pubblici, fontanelle lungo la strada o piccoli ruscelli. Ogni sera, poi, era uscito alla ricerca di pub o locali dove potesse incontrare qualcuno; o meglio, qualcuno appartenente alla sua specie. Di licantropi ce n'erano abbastanza in giro per il mondo, ma i branchi non erano mai particolarmente ricchi. Quelli più numerosi contavano una trentina di membri, come i Menalcan dopo le ultime perdite, ma si trattava di eccezioni. I gruppi come il Lochlannach era un miracolo se superavano la quindicina di lupi - ed era forse anche per quello che individuarli era sempre più difficile.

Il decimo giorno, a Fischingen, trovò finalmente una traccia.
Era da poco passato mezzogiorno e lo stomaco aveva reclamato cibo per gli ultimi dieci minuti di viaggio, così al primo cartello recante la dicitura "ristorante" si era fermato. Il locale non comprendeva più di una dozzina di piccoli tavoli in legno, quasi tutti occupati da vecchi uomini vestiti da lavoro che al suo ingresso lo avevano squadrato malamente. Per qualche secondo Joseph aveva valutato la possibilità di cambiare idea, troppo stanco e frustrato per farsi giudicare da quel capannello di umani, ma poi il profumo di stufato gli aveva solleticato le narici.
Che si fottano, aveva pensato mentre una delle cameriere lo aveva condotto al tavolo. Non era lì né per loro né per fare amicizia, piuttosto per la carne che lo attendeva. Selvaggina, gli sembrò di fiutare, così ordinò frettolosamente in un tedesco terribile e solo quando fu nuovamente solo tirò fuori cartina e cellulare appoggiandoli accanto a sé. Gran parte dei punti segnati sulla mappa, quelli che costeggiavano il confine tra i territori di Ophelia e la Germania, erano ora sovrastati da x rosse tutt'altro che promettenti. Di quel passo, sbuffò, non sarebbe mai riuscito ad arrivare al Pugnale di Fenrir in tempo. Non che avesse idea di quali fossero i piani di Arwen e quanto ci sarebbe voluto per metterli in atto, ma sicuramente doveva affrettarsi.

Come se nulla fosse si sfilò la giacca, si versò da bere e afferrò per abitudine il cellulare. Non c'erano né messaggi né chiamate, solo uno schermo troppo luminoso e un segnale basso che gli fece storcere la bocca. Avrebbe voluto contattare Kyle e chiacchierare del nulla con lui, ma per l'ennesima volta resistette all'impulso di farlo: meno tracce lasciava dietro di sé, meglio sarebbe stato. Così accantonò l'idea rimettendo il telefono al proprio posto e, nel farlo, alzò lo sguardo sulla sala - fu in quel momento che i suoi occhi chiari incrociarono quelli di un uomo seduto a qualche tavolo di distanza. Lo stava scrutando con più diffidenza, come se conoscesse qualcosa che agli altri sfuggiva. Joseph corrugò le sopracciglia. Lo sconosciuto stava fissando qualcosa di specifico su di lui e, seguendo la traiettoria della sua attenzione, un dubbio emerse dalle retrovie della mente. Quel tipo stava guardando i suoi tatuaggi, la caccia selvaggia che dal polso risaliva fino al bordo della manica e poi, ma questo lui non poteva saperlo, ancora più su in direzione della Madre Luna. E dall'espressione che aveva in volto sembrava sapere di cosa si trattasse.

Interessante, pensò. Pochissimi umani avevano sentito parlare delle loro leggende e ancor meno erano abbastanza vivi per raccontarlo - così colse l'occasione, alzandosi e andando incontro all'uomo. Questi dapprima parve non capire, poi il fetore del timore scivolò sotto il naso di Joseph. Quando raggiunse il suo tavolo la tensione fu evidente sul viso dello sconosciuto e il lupo se ne compiacque.

«Posso esserti d'aiuto, ragazzo?» c'era un tono di disprezzo nella voce dell'umano, ma lui la ignorò completamente, indicando il posto che aveva di fronte. Il tavolo era apparecchiato per due, eppure l'uomo sedeva da solo, così Joseph colse quell'occasione. Di risposta solo un grugnito che venne interpretato come un consenso.
«Se potesse gliene sarei grato.»
«Dipende da cosa vuoi. Non amo fare affari con quelli come te.» l'espressione parve mimare uno sputo.
Joseph sorrise: «Intende con gli scozzesi?»
«Con le bestie.»
Ci fu qualche istante di silenzio in cui il lupo ponderò quella frase. Se non fosse cresciuto in mezzo alla civiltà umana, forse gli avrebbe già mostrato i canini.
«Quindi sa cosa sono... come è possibile?»
L'uomo indicò i tatuaggi: «Conosco quella storia.» E prese un sorso di birra quasi volesse sciacquarsi la bocca.
«Non è da tutti conoscere le nostre leggende. È per caso uno storico?»
L'uomo tirò su la manica della felpa, rivelando la cicatrice di una sutura lunga e vecchia. Non si trattava di un morso e men che meno di un graffio procurato da un licantropo, ma di certo la storia che si nascondeva dietro doveva comprenderne uno. Joseph la fissò senza alcun particolare interesse. Se avesse dovuto mostrare lui i segni che portava addosso, quella ferita sarebbe impallidita.
«Mia figlia» sibilò lo sconosciuto: «è diventata come te a quattordici anni. Lo scoprii anni dopo e... fu devastante. Entrambi ne pagammo le conseguenze.» Svelto nascose il braccio, bevendo ancora un sorso dal proprio bicchiere.
Qualcosa, una sensazione piacevole, si agitò nel lupo. Gli sembrò quasi di conoscere l'epilogo di quel racconto e passandosi un dito sul labbro inferiore osò un: «È morta?»
L'uomo rise amaramente, poi con il dorso della mano si levò della schiuma dai baffi. Sin da quando Joseph si era avvicinato, si accorse che non lo aveva mai guardato negli occhi, come impaurito. Quel tipo si era piuttosto soffermato sui disegni che portava addosso, sul suo modo di camminare, sulle mani poggiate sul tavolo, sul sorriso a labbra strette che non voleva in alcun modo rivelare i canini appena più appuntiti del normale.
«Per l'amor del cielo... no! Per quanto siate mostruosi e innaturali, lei era pur sempre mia figlia.»
«Però ne parla come se non ci fosse più.» Osservò. A dispetto dell'umano, Joseph cercò di fissarlo quanto più possibile, in modo da capire se lo stesse prendendo in giro o meno. Non poteva certo fidarsi a cuor leggero di un perfetto estraneo, no?
«Non la vedo da quasi un decennio.» Gli sentì ammettere: «Forse è morta, forse no. Non so come funziona per voi, anche se ho provato a informarmi, nel tempo.»
«Quindi avendo studiato la mia specie crede di potermi aiutare?»
Finalmente l'uomo alzò il viso. Aveva occhi piccoli, infossati nelle occhiaie e profondamente arrabbiati, ma non stava mentendo. Non puzzava di menzogne, al più di luppolo e tabacco.
«Dipende da cosa cerchi.»

Ancora una volta rimasero zitti. Si studiarono entrambi per qualche istante. Che fosse davvero l'occasione giusta? Joseph si morse la lingua. Sperare non era mai stato qualcosa che gli fosse piaciuto fare, ma d'un tratto si ritrovò invischiato in quella roba - così allargò il sorriso, pronto a mettere in scena il suo spettacolo.

«Un branco.»
«È una richiesta vaga.»
«Un branco per cui valga la pena rinunciare alla vita solitaria. Dopo un po' ci si annoia a fare il nomade.»

L'uomo corrugò le sopracciglia, riflettendo. Con grande probabilità, Joseph aveva fatto male a cedere alla speranza, a credere che un umano, tra tutti, potesse avere la risposta alle sue necessità.
«E dalla Scozia sei dovuto venire fin qui?»
«I meticci non sono ben accetti da dove vengo io.»
L'altro annuì: «Che stronzate...» e una punta di fastidio sfiorò il fianco di Joseph. Molto coraggioso, da parte di un semplice, vecchio uomo, decidere il valore delle loro leggi.
«Eppure è così che funziona.»
Tra di loro tornò ancora una volta il silenzio. Forse aveva fatto male a chiedergli aiuto, a sedersi a quel tavolo e iniziare quel tipo di conversazione con una persona che non aveva nulla a che fare con loro - poi l'uomo prese un pezzo di pane e se lo ficcò in bocca. Per un istante al lupo venne il dubbio che non sarebbe riuscito a ottenere nulla, ma nel momento in cui inalò per poi sbuffare, lo sconosciuto parlò: «Quando Ella se ne andò, mi parlò di un uomo ad Aarau, un certo Gerd. Lui conosceva dei branchi, l'avrebbe saputa aiutare.»
Gerd, un nome alquanto inutile per ciò di cui aveva bisogno. Chissà quanti ce n'erano in città e chissà quanto grande era, quel posto.
«Dovrebbe dirmi qualcosa? Le ricordo che non sono delle zone...»
L'umano inghiottì: «Ha un pub in periferia, o almeno è lì che aveva accennato lo avrebbe incontrato.»

Già questo era molto più utile. Il sorriso sul viso di Joseph si allargò, una striscia di denti apparve tra le sue labbra. Finalmente una parvenza di traccia.

Il lupo si protese in avanti e l'altro, in una reazione istintiva, provò a schiacciarsi quanto più possibile contro lo schienale della sedia: «Non immagina quanto mi sia stato utile.» Gli sorrise, dimentico dei denti che, anche in forma antropomorfa, tendevano a una forma minacciosa. Il pallore che scolorì il viso del vecchio non lo sfiorò minimamente: «Posso in qualche modo sdebitarmi? Se me lo concede vorrei offr-»
«No! No, non puoi.» si affrettò a dire l'altro: «Non voglio avere nulla a che fare con voi. Non dovreste nemmeno esistere, per quel che mi riguarda.» L'ennesima pausa, il silenzio denso come l'odore nel locale. Joseph rimase per un momento fermo a osservare quello sguardo furente e ferito, come di un uomo che vorrebbe essere crudele, vendicativo, ma invece è solo in grado di compatirsi e piangere per qualche rimpianto a lui sconosciuto. Di certo provava odio per i licantropi, ma il fatto che la figlia fosse diventata una di quelle bestie gli impediva di farlo davvero. In qualche angolo della mente, proprio come ogni umano, forse avrebbe preferito che Ella morisse piuttosto che diventare un mostro.
Con la testa Joseph mimò un saluto: «Gerd ad Aarau, perfetto.» ripeté in un soffio, e senza aggiungere altro tornò al proprio tavolo. Sfilando una penna dalla tasca della giacca, attento, cerchiò il nome della città in cui si sarebbe diretto.

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