Prélude

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Il cielo sopra a Marsiglia è grigio, esattamente come lo sono gli enormi casermoni di dieci piani che mi guardano dall'altra parte della strada attendendomi al pari di minacciosi gargoyle di cemento pronti a mangiarmi viva. Il tempo con loro è stato impietoso, ha scrostato le facciate e ridotto il giardino a un deserto di flora secca, ma in qualche modo gli si potrebbe comunque attribuire una vaga pietà visto ciò che invece ha fatto a me, ai ricordi che ho di questo posto e che alle volte vorrei strapparmi via dalla testa; loro però se ne stanno lì, proprio come il conglomerato di condomini popolari a cui sto facendo ritorno.
Ci fissiamo con diffidenza, poi fastidio. Ci schifiamo da lontano per essere certi di non contaminarci a vicenda, ma inesorabilmente succede, come succede che finalmente muovo i primi passi verso casa.

Odio questo posto e odio questa vita.

Cammino piano anche se il vento mi spinge con forza. L'aria si porta dietro gli stralci di una salsedine malsana, avvelenata dagli scarichi delle troppe navi che passano per questo mare e nulla di ciò che mi circonda vuole farmi andare via, quello che importa è solo intossicarmi, in modo che alla fine mi ritrovi a stramazzare a terra come un gabbiano affaticato o l'ennesima vecchia abbandonata a sé stessa - un po' come metà dei miei vicini, direi, persino il signor Petrov.

Così muovo passi lenti, provando a trovare un coraggio che mi manca, una forza che non mi appartiene per riuscire a resistere, ma la realtà dei fatti è che sono codarda e debole, mi lascio sopraffare da troppe cose finendo con il ritornare sempre al punto di partenza: testa altrove, persa in pensieri di giorno in giorno più lontani, mani piene di inutili desideri e un cuore pesante, ricolmo di rimpianti. E non vado da nessuna parte se non il fulcro di questo inferno. Ogni falcata crea una distanza sempre maggiore tra me e la fermata dell'autobus, la libertà che anelo spasmodica, conducendomi invece più vicina a quegli ammassi informi, strappandomi da quella che potrebbe essere l'unica e momentanea via di fuga; purtroppo la mia Kadett è finita ancora in riparazione. Ed è ridicolo pensare che almeno lei, con i suoi trent'anni e i problemi tecnici, a differenza mia riesce ad allontanarsi da qui: a me non servì nemmeno una frattura al braccio, anzi, il medico mi rilegò in casa per ben due settimane. Fu l'agonia peggiore a cui fui sottoposta quell'anno. L'immobilità di quei giorni diede modo ai pensieri di stringere le loro dita secche intorno alla mia gola, di farmi male e lasciarmi segni che forse non riuscii nemmeno a nascondere a dovere.

Svolto nel vialetto stringendo i pugni nelle tasche e lanciando qualche vaga occhiata nei dintorni, ritrovando le solite forme di vita che alle volte riescono persino a confondersi con questo sfondo triste e monotono. I fratelli Yazici se ne stanno appollaiati sui loro motorini truccati, fumano hashish anche se hanno appena quindici anni. Restano lì, circondati da qualche amichetto con ancora l'apparecchio ai denti e di tanto in tanto sputano qualche commento in un francese viziato, risultato di una lingua che in casa non è usata, mentre fuori solo per esigenza.
Mia madre, dall'alto della sua esperienza inesistente in fatto di droghe non si fida, suppone che spacciano - e se non fosse che per lei chiunque viva qui da meno di dieci anni sia un possibile delinquente le darei ragione. Hanno la faccia dei combina guai e anche se sono molto più grande di loro non riesco a passargli accanto con tranquillità.

Poco più in là delle loro spalle, la signora del sesto piano sta raccogliendo gli escrementi del suo Yorkshire, un animale tanto brutto e vecchio da avere persino la stessa brizzolatura della padrona, per non parlare della medesima smorfia.
Quel cane cagherà almeno venti volte al giorno, perché non ricordo un singolo momento della mia vita in cui, rientrando o uscendo da casa, non l'abbia incontrata in questa stessa situazione.
Sospiro.
Ad ogni modo, a parte qualche accenno di saluto, con nessuno dei presenti ho mai speso più di tre sillabe. Tutte le facce amiche, o le persone che rendevano questo angolo di mondo un po' meno triste, se ne sono andate appena ne hanno avuto l'occasione: chi per lavoro, chi all'inseguimento di un sogno, qualcuno persino dentro una cassa da morto. Come ho detto, qui ogni cosa fa di tutto per ucciderti, se non nel corpo quantomeno nello spirito.
Mi sfioro la fronte sentendo la testa iniziare a far male.
Certi pensieri non dovrei averli, non mi fanno bene, eppure sono sempre pronti a incalzarmi.

Lo sguardo mi cade sulla punta consumata delle scarpe. Si muovono veloci, ma a me sembra di star rallentando sempre più. Prima o poi rimarrò anche io bloccata nel tempo, in questa monotonia nauseante di cui inalo ogni aspetto. Diventerò grigia come il cemento, vuota come buona parte degli appartamenti del Terzo. Sarò statica e frigida come le fondamenta di questi quattro edifici che sembrano sul punto di crollare e che invece restano in piedi, sempre.

Sfilo le chiavi avvicinandomi al portone.
Un tempo, quando questo posto si vendeva come "la nuova concezione della periferia urbana", uno spazio ridente e che avrebbe bonificato tutta l'area, c'era una portinaia qui all'ingresso del Secondo. Era una signora tonda e sorridente che vestiva sempre abiti colorati, dando un tocco di allegria, ma a un certo punto anche lei è fuggita. Dopo otto anni dalla costruzione di questo conglomerato residenziale ha fiutato lo sfacelo a cui sarebbe andato incontro, così ha levato le tende.

Fortunata lei.

Supero la prima soglia come si superano le sbarre di una prigione e quando arrivo all'ascensore l'ennesima parolaccia mi sfugge di bocca, rimbalzando lieve nell'androne deserto.
Guasto.
Ancora.
Eppure ricordo alla perfezione la lettera arrivata settimana scorsa all'appartamento ventisette, quella che chiedeva una percentuale sulla parcella del tecnico, quella che prometteva un servizio efficiente e professionale. Ora mi domando quanto dovrò dare al medico per rimettere in sesto i miei polmoni una volta che sarò arrivata al sesto piano con lo zaino pieno di libri in spalla.
Subisco il colpo come un cavaliere che riceve la stoccata decisiva alla giostra e armandomi di una pazienza sempre troppo latente mi spingo verso il primo gradino, poi il secondo, e così per il mezzo centinaio seguente, finché il fiato non mi tradisce e sono costretta ad accasciarmi contro una parete. Non sono mai stata brava ad affrontare le sfide, quelle fisiche ancor meno. Da quando la nicotina è diventata una delle mie migliori amiche ho finito con il dover dire addio a tante cose: una percentuale di ciò che chiamo stipendio, il fiato, la pazienza e forse anche una parte di salute - però mi dà pace quando il resto del mondo cerca di farmi impazzire. E sarà per questo che la mano si infila nuovamente in tasca, sfiora il pacchetto di Marlboro e ne sfila una che poi offre alla bocca.
Solo qualche tiro, mi dico. Solo qualche boccata di catrame per impedire ai nervi di tendersi troppo e spezzarsi, ma prima che possa accendere la sigaretta mi ricordo che potrei restare infossata qui a fumare per l'eternità, diventando parte integrante di questa depressione - e non voglio, assolutamente. Da qualche parte, dentro la mia testa, vive ancora il desiderio di fuggire via, di cancellare questi vent'anni spesi tra timidezza, inconcludenza, rimpianti e sogni infranti. Vorrei che il grigiume di questa vita fosse sostituito con colori diversi, magari quelli di Parigi, Lione o persino qualche città estera; mi va bene tutto purché sia lontano da Marsiglia e dal Secondo.

Ed ecco che sforzandomi faccio leva sulle gambe, riuscendo a rimettermi dritta. Non sono sicura di poter affrontare altri due piani, ma sono certa di volermi rinchiudere in quell'appartamento che da troppo tempo chiamo casa - lì, almeno, c'è una parte della pace a cui anelo, la familiarità accogliente e non opprimente di ciò che ero e sono. Così mi muovo tra il quarto piano e il quinto, ansimando a bocca aperta come un cane affaticato da una lunghissima corsa. Mi aggrappo al metallo ghiacciato del corrimano usandolo come appoggio per un corpo eccessivamente stanco e che aveva sperato, dopo le ore di lezione e quella sottospecie di turno a un bar della zona, di potersi solo lasciare andare sulla morbidezza di un materasso che abbandono ogni giorno troppo presto per ritrovare ogni sera troppo tardi. Le speranze però sono ingannevoli, difficilmente ciò che si desidera con tanta bramosia si trasforma in realtà - e io dovrei saperlo, dovrei aver imparato questa stupida lezione; ma gli uomini sono cocciuti, soffrono di una strana malattia chiamata resilienza, per questo non smettono mai di crederci. Ed io, ho appurato già da tempo, sono umana: carne tenera per le fauci affamate della vita, anima leggera per il vento implacabile della delusione e mente fragile nel sopportare il peso dei pensieri. Quindi alla fine mi ritrovo contaminata da questo virus che non lascia scampo a nessuno - e spero. Spero nelle cazzate e nei sogni irrealizzabili, ci credo persino senza volerlo, involontariamente succube della mia natura. Solo in una cosa ho smesso di riporre la mia fiducia, ma ne conservo, gelosa e arrabbiata, la sagoma nella memoria.

La porta del ventisettesimo appartamento mi accoglie sul sesto pianerottolo e, quando finalmente i miei piedi si fermano sullo zerbino, mi lascio andare a un ultimo sospiro. Il cuore batte con così tanta forza che lo sento far vibrare i timpani. Sotto all'enorme giacca di jeans, e al maglione di lana leggera, avverto la pelle accaldata della schiena inumidirsi di un sudore fastidioso per la frescura di inizio Novembre.

Questo postaccio mi ucciderà.

Alzo gli occhi al cielo, buttando indietro la testa, poi aspetto. Cosa non è chiaro nemmeno a me, eppure rimango per lunghissimi istanti qui, ferma davanti allo spioncino di casa. Intorno avverto il suono ovattato delle televisioni accese: telegiornali, pubblicità, forse persino qualche film. Un mix confuso a cui manca qualcosa, un suono che negli ultimi anni mi ha accompagnata a ogni rientro. Il giradischi del Signor Petrov è spento, dalla sua porta, la ventotto, non proviene alcuna melodia. Le ragioni potrebbero essere molteplici, ma sono quasi certa che anche oggi sia la stessa di qualsiasi giovedì; e allora avanzo abbassando la maniglia e confidando nel fatto che solo una volta arrivata in cucina potrò avere la risposta che cerco.

Nel corridoio appena oltre l'ingresso, quello che collega tutte le stanze, il profumo di zuppa di cipolle riempie ogni angolo, solleticandomi l'appetito. Vedo l'ombra di mia madre che si muove su quello che dovrebbe essere un balcone, forse intenta a innaffiare le poche piante sopravvissute a questo primo abbassamento di temperatura e allora, in punta di piedi, vado in avanscoperta. Le pentole se ne stanno chiuse sui fornelli accesi, mentre i coperchi di vetro lasciano scorgere cosa vi ribolle dentro. L'intruglio di verdure si agita con vigore e altrettanto fa il mio stomaco, così decido di rubarne un cucchiaio, uno solo, in modo da stuzzicare maggiormente la fame. Che male mi potrà mai fare? Tanto oramai l'ora di cena è alle porte, dovrò aspettare poco.
Mi volto, pronta ad abbandonare zaino e giacca sulla prima sedia libera e regalarmi un unico momento di gioia nella solita malinconia che mi assale quando torno in questo quartiere malandato, ma appena i miei occhi cadono sul tavolo ogni desiderio ammutolisce e l'appetito si dissipa.

Alle volte sono le cose più innocenti e all'apparenza innocue a scatenare i peggiori tumulti interiori. Sono quei dettagli che ai più appaiono insignificanti - come a mia madre che, senza saperlo, ha lasciato il giornale aperto sull'articolo che gli hanno dedicato. Uno dei tanti, dei troppi. È lì, immobile e inanimato; il suo viso stampato su carta monocromatica ha la solita espressione truce, severa. E più lo guardo, incapace di allontanarmi, più il cuore si rinsecchisce come una prugna secca. Mi piacerebbe avere una qualche reazione diversa dalla paralisi, eppure non riesco a far altro che restare impietrita di fronte al quotidiano nazionale.
Vorrei essergli indifferente, eppure non ci riesco mai, nemmeno dopo tutto ciò che è successo e il tempo che è passato. Si dimentica quando qualcosa non ha valore, oppure quando si perdona, ma io non sono mai stata in grado né di sminuire la sua importanza, né di perdonare il suo vuoto, per questo riesce ancora ad annichilirmi.

La foto mi fissa, scrutandomi dall'alto al basso con una sufficienza che ormai ho imparato a conoscere. In realtà non scruta me, non in modo particolare o intenzionale quantomeno, ma ad essere onesti è come se lo stesse facendo. Nonostante l'inchiostro non ne esalti a dovere l'espressione, e gli occhiali da sole che ha indosso gli schermino in parte lo sguardo, riesco a sentire il peso della sua presenza, la soffocante soggezione che nel tempo ha iniziato a esercitare su di me persino se assente. Mi schiaccia e mi comprime, riempiendomi di risentimento.
Non voglio leggere le righe che gli hanno dedicato, gli elogi spesi per esaltare i suoi successi. Non voglio sapere nulla di lui, anche se in verità già conosco ogni cosa. Ciò che desidero è solo cancellarlo, far sparire ogni immagine di lui che mi finisce davanti agli occhi: ma non ci riesco. Inconsciamente torna sempre a infestare la mia mente, senza però tornare mai veramente.

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