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Mila

Domenica

Le strade deserte erano le mie preferite, c'ero io e c'era il silenzio. Non dovevo badare all'apparenza: potevo fischiare, ascoltare la musica senza sembrare maleducata, attraversare fuori dalle strisce... ero libera. Riuscivo a dare importanza ai miei pensieri, non era necessario immedesimarmi negli altri, non era necessario ricorrere all'empatia almeno per un po'. Potevo concentrarmi su me stessa e smettere di fare finta che qualcuno fosse realmente importante per me. Le persone speciali ti abbandonano e io mi sentivo abbandonata, lasciata sola. La mia scelta era stata ritornare al Bronx, dove ero cresciuta, e non seguire i passi dei miei genitori. Sarei comunque rimasta sola e avrei preferito farlo in un posto che conoscevo.

Sul marciapiede dall'altro lato della strada, passò una donna con una carrozza. Teneva il telefono vicino all'orecchio e camminava a passo svelto, non ci mise molto a sparire dalla mia traiettoria. I bambini erano soggetti curiosi, gli unici che forse ancora non mi infastidivano. La loro innocenza mi portava a riflettere più e più volte, mi chiedevo se capissero di essere circondati da un mondo oscuro. Ma in fondo come potevano saperlo? Come avrebbero potuto conoscere tutte le delusioni che li stavano aspettando? O le incertezze, le paure... Mi sentivo quasi in colpa per loro, crescevano incoscienti del futuro e io ero impotente, non potevo metterli in guardia.

Mi fermai, certe volte mi ritrovavo a pensare alle conseguenze di azioni improvvise. Guardai la strada e immaginai un auto venire di corsa. Avrei mai avuto il coraggio di attraversare in quell'esatto istante? La mia vita sarebbe potuta cambiare da una semplice mossa fuori dal comune. Anche dinanzi alle finestre avevo uno strano istinto che mi diceva di saltare e mi fermavo a pensare al dopo, poi tornavo alla mia solita vita abitudinale perché era meglio così, non c'era niente di tanto entusiasmante in quella finestra.

Mi ero sempre posta domande sulla vita: quand'è che finisce?, chi lo decide?, tutti fattori influenzabili. Avrei potuto decidere di morire quando volevo, correndo in mezzo a una strada, buttandomi da una finestra o utilizzando un semplice cuscino. E lì avrei deciso io di morire. Ma il mio lato incoscio veniva sempre fermato da quello ragionevole che mi portava alla realtà. Preferivo quella parte razionale, non sapevo quanto fidarmi dell'altra, non mi piaceva non avere il controllo della mia mente. Avevo paura però che un giorno l'inconscio sarebbe stato incontrollabile e mi sarei vista cadere e trascinare dall'oscurità senza poter tornare indietro.

Il parco era a pochi metri di distanza, decisi di sedermi in una panchina appartata. La natura favorisce i pensieri e avevo bisogno di metterli a fuoco.

I bambini erano i più movimentati in quel posto, i loro genitori parlavano restando immobili e rigidi nella stessa posizione. I figli invece sfruttavano la loro libertà e si divertivano, non avevano pensieri, o almeno non ne avevano di negativi. Da piccola non pensavo molto, ero distratta dai giocattoli, non riuscivo a capire quali fossero i problemi, ma crescendo me ne resi conto. L'infanzia e l'adolescenza sono gli anni migliori, così si pensa. Il mio pensiero però era diverso; l'infanzia è un periodo incosciente, i bambini non si rendono conto della realtà, si creano e vivono in un mondo tutto loro per un po'. L'adolescenza non può essere definita un periodo di incoscienza, piuttosto un'età difficile e dura da sostenere, quella in cui si è realmente a conoscenza dei problemi.

Presi il libro, rigorosamente un classico, dallo zaino. Negli ultimi giorni cercavo di leggere Emma, di Jane Austen. Non ero a buon punto, leggevo i classici lentamente. All'inizio non mi incuriosivano mai e ciò che mi portava avanti nella lettura era la scrittura impeccabile. Avevo diverse opinioni su quella tipologia di libri; per esempio i dialoghi a mio parere erano troppo lunghi, non che fossero scritti male, ma nella realtà erano poche le persone a parlare in modo così approfondito e chiaro, certe volte si comunicava semplicemente con dei monosillabi.

Mentre leggevo concentrata, non mi accorgevo del tempo che scorreva veloce. Il tempo era un altro dei tanti emblemi, passava in un lampo o non passava per niente.

Alzando lo sguardo vidi arrivarmi ai piedi una palla da calcio e il proprietario venirmi incontro per prenderla e allontanarsi di nuovo; era in compagnia di un gruppo di ragazzi, stavano giocando a calcio. Avevano dei volti già visti a scuola, mia cugina aveva chiesto a uno di loro di accettare la parte per una serie televisiva. Non sapevo cosa ci fosse di così importante per accettare, ma la lasciavo fare, erano affari suoi e io non interferivo in alcun modo.

Dopo un paio di pagine sfogliate, mi fermai e chiusi il libro. Ancora dovevo decifrare la mia opinione sui classici, capitava spesso di bloccare la lettura prima della fine del capitolo, motivo per cui iniziava ad annoiarmi. Fino ad allora ero riuscita a concludere un unico classico: il Ritratto di Dorian Gray. In qualche modo quel personaggio mi aveva affascinata e nonostante non ricordassi le altre figure, ero riuscita a capire la storia arrivando a dedurne il finale. La lettura dei romanzi di Jane Austen, invece, era sempre stata sospesa: Orgoglio e Pregiudizio, Cime tempestose, Ragione e Sentimento ed Emma.
Il mio obbiettivo era diventato leggere per intero un altro classico contrastando una volta per tutte la forza dei miei pensieri.

La palla da calcio arrivò nuovamente ai miei piedi e si fermò. Valutai se calciarla per allontanarla di qualche centimetro più in là, ma la lasciai lì. Uno dei ragazzi del gruppo corse nella mia direzione e, prendendo il pallone, disse, con un tono dal quale dedussi che volesse tenere quel pensiero per sé: "Attiri le palle come una calamita..."

Quel commento era piuttosto ambiguo e, data la sua naturalezza nella voce, era solito farne di simili. Mi limitai ad accettare quel suo lato caratteriale, non ero infastidita, non potevo prendermela per così poco.
Così come mi aveva parlato, tornò a giocare spensierato; in quei secondi probabilmente stava già eliminando l'immagine di me. Succedeva spesso di dimenticare persone sconosciute, il mio cervello stentava a ricordare e avevo scarsa memoria fotografica.

Mi alzai dalla panchina e guardai intorno per controllare di non aver dimenticato nulla, poi mi incamminai verso casa accompagnata dalle strade vuote. Nel weekend passavano poche macchine, alcuni adolescenti preferivano trascorrere quel tempo con la famiglia o con gli amici in casi minori. Io passavo il tempo con me stessa in mondi paralleli: romanzi, pensieri, documentari sulla psicologia... Trovavo sempre un modo per conoscermi, capirmi e scoprire.

"Carol, sono tornata" esclamai con tono pacato e abitudinario. Era nascosta dietro al banco della cucina e stava preparando dei biscotti, erano i miei preferiti e lei era un'ottima cuoca. Appoggiai il libro sul primo mobile vicino a me e mi avvicinai per aiutarla, non volevo che si sentisse una domestica in quella casa, perché in fondo eravamo solo noi due. Presi le gocce di cioccolato fondente per buttarne una grande quantità sull'impasto.

"Il solito. Mi relaziono... con me stessa. Ho cercato di leggere un po', ma come sempre Jane Austen mi mette alla prova!" Non avevo messo il grembiulino, perciò cercai di fare pochi movimenti e di agire con cautela.

"C'era qualcuno della tua età?"

"Sai che non conosco nessuno, non so precisamente la loro età. In realtà un gruppo di ragazzi stava giocando a calcio nel parco. A scuola parlano molto di loro, ma non rientrano nei miei interessi."

"Capisco," sorrise, " prima o poi devi iniziare a parlare con qualcuno e farti capire." Con farti capire intendeva farmi conoscere e mostrare i miei pregi, preferivo però comprendermi al farmi capire.

"Sarebbe bello fare un viaggio insieme un giorno" pensai d'improvviso. Viaggiare, a differenza delle conoscenze, rientrava nei miei interessi. Erano molte le città che avrei voluto visitare, anche la semplice Londra, di cui parlavano molti.

"Dovremmo avvertire i tuoi genitori" ricordò. Dimenticavo di dover chieder loro il consenso, certe volte avevo l'impressione di poter chiedere il permesso semplicemente a Carol, ormai era diventato normale. Era una compagna di vita, mi aveva cresciuta in assenza dei miei genitori. Quando sentivo delle mancanze, lei mi capiva e le colmava. Raccontavo tutti i miei pensieri a lei, pensieri che avrebbe dovuto ascoltare mia madre. Lei avrebbe dovuto insegnarmi a preparare i dolci, ma lo faceva Carol; a sistemare il letto; a fare le trecce o altre varie acconciature, ma probabilmente non ricordava nemmeno il colore dei miei capelli. Papà avrebbe dovuto mettermi al volante nelle strade deserte sapendo che mi avrebbe protetto, invece non mi aveva mai portata a infrangere le regole solo noi, padre e figlia.

Non sapevo con chi arrabbiarmi, se con il mio destino o le scelte dei miei genitori. Forse era quello che mi aveva portata a capire tutti, le decisioni che prendevano, giuste o sbagliate che fossero.
Nella stanza avevo sparsi i loro dischi e ammiravo il loro lavoro, certe volte però invidiavo le attenzioni date alla loro carriera. Non lo facevano più per me, lo facevano per il pubblico. Come biasimarli, la loro strada non includeva la famiglia tanto era impegnativa.

L'impasto era pronto, una volta messo in forno, ci spostammo sul divano a guardare i programmi televisivi in onda. Ogni sera li commentavamo insieme per passare il tempo, non c'era molto altro da fare.

Carol sperava che trovassi qualche amica, sapeva delle Sparks e sapeva anche che facevo parte di quel gruppo per mia cugina, motivo per il quale non avevo grandi rapporti con quelle ragazze. Mia cugina era l'unica persona che conoscevo bene in quella scuola. Non era una buona influenza, ma non ero cambiata mai per le altre persone e di certo non lo avrei fatto con lei. Era la leader del gruppo, di solito era la prima a iniziare le conversazioni. Sua madre era sorella della mia, entrambe avevano due talenti diversi; mia zia era una regista, stesso futuro riservato a sua figlia. Mia cugina stava infatti facendo diversi casting per affrontare quella realtà e andava spesso a trovare la madre sul set per abituarsi a quell'ambiente; era rimasta nel Bronx per mantenere un profilo basso almeno durante la sua adolescenza.

Rimanevo sempre per i fatti miei, nei miei pensieri. Seguivo il gruppo, ma non ero del tutto inclusa, poco mi importava. Era quasi come se non avessi fiducia nelle persone, allontanarmi e restare nel mio mondo mi veniva naturale. Sembrava che a nessuno importasse degli altri, ciò mi aveva portata a non entrare in quelle false amicizie che temevo. Non parlavo mai con le Sparks, conoscevo solo i loro nomi, ma rimanevano delle sconosciute.

Non dovevo illudermi, nessuno sarebbe stato affianco a me, nessuno mi avrebbe protetto, dovevo pensarci da sola. Mi fidavo unicamente di Carol, mi parlava senza doppi fini come se fossi sua figlia, conoscendo i limiti del nostro rapporto. Era una donna forte con un passato doloroso che l'aveva resa più disponibile e generosa. La perdita del marito l'aveva portata a una grande riflessione, non poteva farsi abbattere e non aveva mai fatto pesare a nessuno quella mancanza nonostante me ne parlasse frequentamente. Con me aveva ritrovato e rivissuto il concetto di famiglia.
Stava cercando lavoro quando i miei genitori la trovarono grazie alle numerose conoscenze. Lei non si era tirata indietro, aveva colto la proposta senza ripensamenti. Recentemente aveva trovato un nuovo impiego per tenersi occupata, rimaneva spesso sola quando io ero a scuola o uscivo a camminare il pomeriggio. In quella casa abitava una signora più anziana di lei, Rose, con cui poteva tenere conversazioni adatte alla sua età e non a quella di un'adolescente come me. Mi raccontava solamente di lei, anche se in realtà non viveva sola.

Annoiata dalla televisione, presi il libro lasciato lì vicino e continuai la lettura fino a quando i biscotti furono finalmente pronti. Mi scottai la lingua addentandone uno ancora caldo, feci una smorfia mentre Carol scuoteva la testa.

"Non impari mai ad aspettare che si raffreddino" disse sorridendo alle mie espressioni doloranti.

"Non è colpa mia se cucini così bene, non c'è gusto nell'attesa." Continuai comunque a mangiare il biscotto soffiandoci di volta in volta.

"Com'eri da piccola?" chiesi per parlare un po'. Prese dei minuti per rifletterci su e tornare nel passato. Valutò quali fossero le informazioni da raccontare, se le sue avventure o i suoi pensieri, poi iniziò: "Alla tua età aiutavo spesso gli altri, sembrava avessi tanti amici, ma in realtà il fatto era che andavo d'accordo con tutti. Sognavo di avere una vita perfetta, con il ragazzo perfetto, poi magari avere dei figli. Con il tempo ho capito che non tutti possono avere la stessa vita, dobbiamo essere felici di ciò che abbiamo. Se non ho potuto avere dei figli è perché così doveva andare, magari il motivo sei tu. Forse il Fato voleva che io mi prendessi cura di te."

I sogni non possono essere controllati, così era successo per il suo desiderio. Aveva reso quell'incubo una speranza per il futuro. Ciò che non aveva avuto le si era presentato in forma diversa. Non sapevo se sentirmi in colpa per essere il motivo per cui la sua vita aveva preso una strada diversa, il punto era che non potevo darmi colpe, non avevo interferito in alcun modo, non ero io che decidevo così come non ero io che avevo deciso il mio futuro. Forse potevo prendermela per il fatto che non avessi la minima idea di come risponderle, mi risultava più complicato del solito. Non mi sembrava il caso di fare i miei soliti ragionamenti un po' contorti perché mi parevano banali.

Riflettei nuovamente sulle varie opzioni che avrebbe potuto scegliere l'universo per noi. Ci sono sempre più di una variabile, quali erano le mie? E quali erano quelle di Carol? La sua vita avrebbe potuto prendere una piega diversa se i miei genitori fossero ancora con me: avrebbe potuto incontrare un uomo, innamorarsene e rivivere una nuova storia come l'adolescente di una volta aveva sognato, così come avrebbe potuto perderne il senso. Quelle variabili non erano da prendere in considerazione, non potevo calcolare la predestinazione dei fatti senza una base. Dovevo accettare il presente, pensare al futuro e cercare di abbandonare il passato, ciò che era stato non poteva essere cambiato.

ℳ𝒶𝒹 •𝒶𝓂

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