8. 𝗚𝗹𝗶 𝗶𝗻𝗱𝗲𝘀𝗶𝗱𝗲𝗿𝗮𝘁𝗶 ( Aurelius Silente )

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Erano trascorse già tre settimane da quando era stata emanata l'allerta nazionale. Il destinatario aveva avuto il messaggio. Si sentiva rincuorato che almeno lei fosse stata avvisata.

Prese dalla tasca il pezzo di vetro che aveva volontariamente staccato dallo specchio del club del padre. Grindelwald non lo sapeva, non conosceva l'effetto di quegli specchi gemelli, che inconsapevolmente avevano portato con sé. Trascorreva il resto delle giornate a rigirare il pezzo di vetro tra le dita, seduto sul solito muretto di pietra del locale, al riparo da sguardi insoliti, a guardare oltre la superficie cristallina.

Lo fissava come se fosse la cosa più sublime e speciale del mondo. Chi lo avesse scorto a fissarlo, avrebbe sicuramente pensato quanto fosse problematico un ragazzo così cupo, che non riusciva mai a sorridere.

E in effetti, non poteva certamente ammettere il contrario.

Vissuto sempre all'ombra di una madre adottiva che non lo aveva mai amato.

Lui era un abominio, uno scherzo della natura come la sua vera madre, che sperava con tutto se stesso potesse avere il minimo ricordo della sua esistenza. Avrebbe voluto vederla almeno una volta prima di morire.

Lo desiderava così ardentemente, come aveva desiderato conoscere le sue vere origini.

Ricordare di aver pronunciato e chiamato mamma una donna che era veramente stata un abominio, lo faceva sentire in colpa, perché adesso si rendeva conto di aver dato troppa importanza alla persona sbagliata, che ancora in parte considerava madre.

L'unica persona, che lo aveva aiutato, era quella ragazza dai capelli bruni che non riusciva a dimenticare. All'inizio non la conosceva affatto, non sapeva neanche il suo nome o chi fosse veramente. Poi l'aveva rivista sul giornale e aveva appreso alcune informazioni fondamentali su di lei. Era un auror, e adesso dirigeva una squadra investigativa, da circa due anni.

La foto, che la ritraeva nel giornale, dimostrava solo parzialmente quanto fosse cambiata negli anni, da quando l'aveva conosciuta.
Ma aveva lo stesso timido sorriso che ricordava. Voleva così tanto ricambiare la sua gentilezza, che aveva iniziato a seguirla di nascosto, ma non aveva mai trovato il coraggio di avvicinarsi a lei per parlarle.

Lei era sempre di corsa, e lui era così fragile e debole che quasi quasi si era chiesto come fosse stato in grado di fare un lungo viaggio dall'inghilterra all'America come quello. E completamente da solo.

Suo padre come minimo lo avrebbe aspramente rimproverato. Aberforth nel corso di quei mesi si era dimostrato un padre dolce e premuroso, ma questo non bastava a cancellare tutti gli anni della sua assenza. Per quanto si stesse prendendo cura di lui adesso, si sentiva comunque solo e abbandonato.

Eppure... nonostante tutto... lo aveva perdonato.

Aurelius desiderava ardentemente farlo, prima che fosse troppo tardi. Una volta morto voleva restare tale, e non continuare a vagare sulla terra sotto forma di spettro, tormentato dal suo passato.

Era troppo giovane per morire. Lui che aveva appena imparato a vivere.

Con il passare del tempo, sentiva quella parte spezzata di sé risanarsi, divenire più forte a ogni minuto che trascorreva con il padre, l'unico vero pezzo di sé che aveva avuto il privilegio di conoscere, seppur superficialmente. Ogni sguardo ed espressione gli davano la certezza che fosse veramente lui, il suo alter ego perduto.

Avevano decisamente troppo in comune, a eccezione della sua passione per le capre. Inizialmente non riusciva a sopportare il fetore di sterco di capra, che Aberfort lasciava passeggiare senza alcuna preoccupazione fra i tavoli logori di polvere e grasso, come se fossero delle normalissime clienti.

L'unica cosa accettabile del club era l'acqua che veniva servita ai tavoli. Sempre meglio della brodaglia acida che dava loro da mangiare Mary Lou Barebone. Quel cognome lo terrorizzava, ogni volta che lo sentiva nominare da qualche passante che lo riconosceva mentre attraversava la strada.

Tremava.

Mary lo mandava con Modesty a spargere volantini sulla "New Salem society", una società spregiudicata che aveva paura di ciò che in realtà era del tutto normale, uomini dalle doti straordinarie. Per quanto si ostinassero a dichiarare il contrario, nonostante il genere magico fosse dotato di abilità e poteri straordinari a loro inspiegabili, erano esseri umani dotati di un corpo e un anima.

Biologicamente simili, se non uguali.

Ma in fondo, l'uomo aveva sempre cercato di cacciare via e considerato pericoloso ciò che non riusciva a spiegare con i sensi, quella parte della realtà che andava oltre i limiti della ragione.

Era stata proprio questa la causa della sua prigionia, del suo tormento. Le catene alle quali lo avevano sottoposto per un tempo estremamente lungo, lo avevano trasformato in un mostro. Da tempo immemore costretto a vivere con un parassita magico, che gradualmente lo stava consumando da dentro.

Adesso, sentiva ogni giorno le ginocchia venirgli meno. Per superare quella rampa di scale, la solita rampa, era stato costretto a fermarsi un paio di volte, anche se essa era costituita da pochi gradini.

Si alzò il cappuccio nero all'altezza della fronte per nascondere il viso pallido e smagrito, con una profonda cicatrice evidente sulla guancia destra, che il padre aveva tentato di far sparire inutilmente.
La mano era nascosta sotto al mantello, poggiata sull'impugnatura della bacchetta che non lasciava mai, quando si ritrovava a camminare da solo per quelle stradine desolate.

Sentire il legno freddo a contatto con le sue dita, la magia fluire nelle sue vene, lo faceva sentire invincibile. Leggermente mossi dal vento, i suoi capelli si sollevarono appena, per ricadere nuovamente sulle scapole qualche istante dopo.

Per una volta, si rese conto quanto fosse bello andare contro corrente. Quanto la libertà fosse l'unica cosa che lo rendesse ancora vivo.

Aveva scelto proprio il momento più adatto per parlarle.
Voleva udire la sua voce, le parole riecheggiare nuovamente nelle sue orecchie, le stesse parole che lo avevano tanto aiutato a evadere dal dolore e dalla tristezza. Temeva che il potere, che le avevano affidato, avrebbe potuto cambiarla, darle alla testa. Ma quel sorriso parlava da sé.

Aveva paura che, una volta che le si fosse avvicinato, non l'avrebbe riconosciuta piú come un'amica. Anche se era stata l'unica auror a non volerlo distruggere, temeva che lo avrebbe ucciso, ora che era nota a tutti la sua vera identità.

Lui era un Silente.

E Gellert odiava I Silente.

Li voleva con una taglia sopra la testa.

Si strinse nelle spalle, quando una folata di vento oltreppassó la stoffa del mantello. Il freddo lo congelava, nonostante fosse giugno, aria decisamente troppo fredda rispetto alla normalità.
Si sedette sulla gradinata della sua casa d'origine, l'unica che lo aveva accolto come se fosse un figlio. L'abitazione aveva ospitato decine e decine di bambini, e lui non poteva non ricordarli tutti con rammarico.

Magari avrebbe potuto salvarli...

Gli 𝖎𝖓𝖉𝖊𝖘𝖎𝖉𝖊𝖗𝖆𝖙𝖎.

Non li conosceva tutti per nome, loro non avevano un nome, non erano degni di averne uno. La loro identità veniva inghiottita nel buio, insieme ai pasti miseri che Mary Lou Barebone offriva loro. I loro stessi volti si perdevano fra le anonime vesti scarne che li rivestivano, come protezione non solo dal mondo.

Di tanto in tanto ripensava a Modesty, che ormai doveva essere cresciuta, considerando che erano passati ben sette anni dall'ultima volta che l'aveva vista, la notte della morte di Mary Lou Barebone.

Chissà che meravigliosa donna era diventata, con quei capelli biondi e le guance rosee. Anche lei, purtroppo, si era dissolta nel vuoto, insieme alla sua umanità consumata.

Attese immobile. Sapeva che la donna sarebbe passata da lì a breve. E non vedeva l'ora di rivederla.

Sempre che lei lo volesse ancora.

𝓣𝓲𝓷𝓪'𝓼 𝓟𝓞𝓥

Tina si precipitò nel traffico di New York, superando energicamente un auto d'epoca rimasta bloccata. Non le piaceva che la sua routine venisse interrotta da inconvenienti del genere. Come se le giornate avessero più di ventiquattro ore a disposizione. Come al solito quel vento fastidioso che da settimane attanagliava New York. Per non parlare delle tempeste di fulmini che avevano incendiato un po' ogni dove della città.

Fece cenno con la testa a un conducente, ordinandogli di lasciarla passare. Lui la guardò in cagnesco, e lei di conseguenza gli lanciò un'occhiataccia truce, che avrebbe perfino fatto tremare i finestrini delle auto. Non ammetteva ammissioni. Si allacciò il cappotto di pelle alla vita, per ripararsi dal freddo e iniziò a correre, non dandogli occasione di passare. Le aveva sbraitato un insulto tutt'altro che galante, e lei gli aveva indirizzato il terzo dito della mano, non dandogli tuttavia l'occasione di investirla.

Si strofinò le mani gelide. C'era troppo freddo. A giugno. Che cosa assurda.

Con balzo salì sul marciapiede e girò un angolo, dove erano disposte due lunghe file di giornali impilati. Ne approfittò. Ne prese uno dall'ammasso di volantini e lanciò, mentre continuava a camminare per incrementare il suo tempo, due penny sul palmo della mano del giornalaio. Era uscito da poche ore quella mattina presto, e lei non poteva assolutamente perderlo.

Non sapeva se avrebbe potuto ricavarci qualche informazione utile al caso. Voltò il solito angolo, quello meno trafficato, per tornare alla pasticceria di Jacob e Queenie.

Desiderava così tanto una caramella Mou... quella roba, ne era consapevole, portava dipendenza.

Senza rendersene conto, aveva già superato il vicolo in pietra, dove sapeva che non sarebbe passata anima viva. Un luogo desolato, che era stato molto trafficato qualche anno prima. La luce era deviata parzialmente dai tetti dei palazzi vicini, e la penombra si abbatteva sul vicolo, oscurandole il passaggio a ogni passo, sempre più fitta.

Non aveva paura.

Conosceva bene quel posto. Sapeva che qualunque movimento era probabilmente quello di qualche ratto selvatico. La ragazza sospirò a pieni polmoni, felice di essere, almeno una volta tanto, fuori dal suo ufficio, libera dalle responsabilità per mezza giornata.

Non vedeva l'ora di riabbracciare Queenie, dopo parecchi giorni trascorsi al Macusa.

Nel buio del vicolo, improvvisamente sentì una mano afferrarla per il gomito e bloccarle la spalla. Tina trasalì, trattenne un urlo e prontamente sfoderò la bacchetta per puntarla verso la direzione del suo gomito, dove si era sentita toccare.

«Lumos!» sussurrò e dalla punta della bacchetta comparve un leggero fascio di luce, sufficientemente potente da illuminare il vicolo.

Non vide nessuno.

«Revelio

Non successe nulla.

Con le gambe e le mani che ancora le tremavano, continuò ad avanzare, intenta a non fermarsi. Qualunque cosa fosse, l'avrebbe affrontata, anche se le cose andavano piuttosto male al dipartimento e le minacce sembravano essere sempre dietro l'angolo. Si stava quasi convincendo che era stata la sua mente a giocarle un brutto tiro, lo stress o lo stato di allerta a renderla così paranoica, quando all'improvviso avvertì un rumore di passi e, nel voltarsi, scorse un'ombra correre via, girare l'angolo e fuggire verso il retro dell'edificio cupo di fronte a lei.

Tina per un momento rimase abbagliata, quando uno strano luccichio raggiunse i suoi occhi, una targhetta baciata dal sole. Si sforzò di valutare dove potesse provenire quel bagliore. Una fenice dorata, un ciondolo sul cuore di quella sagoma indefinita, che questa volta riuscì a intravedere chiaramente. La stessa che aveva intravisto settimane prima sul petto del mago con il giornale spiegato, che lei aveva intelligentemente rubato. Ebbe un fremito.

«Hey!» Gli urlò, iniziando a correre per raggiungerlo.

Sapeva, sentiva che non le avrebbe mai fatto del male, ma strinse per sicurezza saldamente l'impugnatura della bacchetta tra le dita.

Si muoveva a fatica, forse era ferito e aveva bisogno di aiuto. O forse faticava a tenersi a debita distanza da lei.
«Aspetta!» urlò.
Per poco non inciampò su un dislivello del pavimento di pietra, ma non aveva intenzione di fermarsi. Non ora che era così vicina a risolvere il caso.

Si bloccò di colpo, quando vide la figura immobile, appoggiata alla parete. Sembrava, anzi sentiva di conoscerlo.

Aurelius rimase immobile, con il cuore che gli batteva forte in gola. Ora doveva combattere quella terribile tentazione di fuggire via da lei. Ma se lo avesse fatto, non l'avrebbe più rivista. Le gambe non si mossero e il suo cuore non lottò per convincere loro a fare il contrario. Così continuò a guardarla, mentre Tina faceva un passo avanti.
Nessuno dei due abbassò la bacchetta. Aurelius notò con dispiacere quanto fosse stanca, come le occhiaie le appesantissero il viso. Era cambiata, piú sicura di sé, rigida, inamovibile e senza manifestazioni evidenti del suo stato d'animo. Il suo cuore perse un battito.

Lei era cambiata.

«Ehm, non avere paura. Voglio solo parlarti. Io sono un auror, ma... ma non uccido.» balbettò con voce timida, senza sapere come approcciarsi a lui.
Aurelius a questo punto fece un passo avanti, le sue parole gli fecero venire un senso di calore al petto, il cappuccio gli cadde all'indietro, scoprendo così i suoi lunghi capelli corvini.

Quando capì chi fosse, l'auror lasciò scivolare la bacchetta nella tasca del cappotto. I suoi occhi si spalancarono per lo stupore, e le labbra si addolcirono in un sorriso dolce.
«Mi hai spaventata...» iniziò lei, incrociando i suoi occhi ricolmi, con il fiato corto.
Era uno sguardo che lui ricordava benissimo.

Aurelius rimase lí a fissarla, con la bacchetta puntata contro di lei, immobile. Sentiva le gambe cedere, e si costrinse ad appoggiarsi alle pareti di quell'edificio diroccato che aveva lasciato una profonda cicatrice nel suo essere.

«Non voglio farti del male, Credence» sollevò le mani in segno di resa.

Quel nome lo attraversò violentemente, sentì qualcuno o qualcosa pugnalarlo al petto. Dall'espressione di guardia che aveva assunto, si adombrò repentinamente.

Si voltò e fece per andarsene. Soltanto in seguito Tina capí ciò che aveva detto, quanto gli facesse male essere chiamato con un nome che non gli era mai appartenuto.
«Oh, ehm scusami scusami tanto.» balbettò dispiaciuta, «Mi dispiace tanto, io ehm...»

Aurelius abbassò lo sguardo, e Tina lo raggiunse camminando con passo lento per non spaventarlo. Arrivata a metà accelerò il passo, e senza che Aurelius se ne rendesse conto, si ritrovò tra le sue braccia, stretto forte forte contro al suo petto. Un abbraccio dolce, materno, che gli era mancato così tanto, ma che ancora riusciva a ricordare bene, nonostante tutti gli anni che erano trascorsi. Aurelius affondò il viso nell'incavo della sua spalla e pianse.

Le era mancata così tanto, l'aveva sognata per anni con la speranza di rivederla, quella ragazza che gli aveva donato il suo affetto incondizionato. Le lacrime scorrevano sul colletto del suo cappotto nero, scorrendo lungo la sua lunghezza e bagnando il terreno di pietra. Il punto in cui cadde la lacrima, si risanò, la polvere divenne pietra, e la mattonella frantumata si aggiustò da sola. Le tracce del tempo scomparvero, lasciando una platina del presente. Tina affondò una mano fra i suoi capelli lunghi, e prese ad accarezzarli, lasciando scorrere goffamente le ciocche fra le dita.

«Sh sh, va tutto bene, Aurelius. Va tutto bene.» gli sussurrò sentendolo tremare appena.
«Mi sei mancata» le disse «Io volevo avvertirti, volevo trovarti. Io volevo ringraziarti e » le parole gli si bloccarono in gola.

Tina percepì il calore di quelle parole avvolgerla completamente. Lei che cerava in tutti i modi di dimostrarsi forte, non riuscì a trattenere le lacrime. Ma non erano le stesse lacrime amare che aveva versato al Macusa nei giorni precedenti.

Le sentiva riscaldarle dolcemente le guance, e bagnarle affettuosamente il mento.

«Io ti voglio bene.» gli sussurrò continuando ad abbracciarlo forte forte a sé.

Aurelius non voleva che quel momento finisse, non voleva liberarsi dalla sua stretta che, in fondo, non sapeva quando avrebbe nuovamente potuto rivivere sulla sua pelle. Sentiva di amarla, ma non era lo stesso amore che avrebbe potuto provare per un'altra persona con cui condividere il resto della vita, la sua metà. Era un altro genere di amore, un amore piú profondo, che lo faceva stare bene.

«Non devi avere paura di me. Io voglio proteggerti,» continuò l'auror, poggiando le labbra sulla sua testa per stampargli un bacio.

Erano così simili fisicamente, che da lontano sarebbero potuti sembrare fratelli. Ma loro non erano fratelli, non erano amanti. Non erano nulla. Lui non apparteneva alla sua vita, e Aurelius lo sapeva.
«Tu sei la madre che non ho mai avuto.»

Era memore di tutte le volte in cui quella ragazza si soffermava a parlare con lui, quando si ritrovava per l'ennesima volta da solo, in balia delle onde dei suoi pensieri.

Amava quel dolce profumo di menta, inondargli il naso e i polmoni, il suo respiro caldo scompigliargli appena i capelli e il tocco delicato delle sue dita sulle sue spalle.

Aurelius si soffermò a guardarla negli occhi per qualche secondo per cercare di capire a cosa stesse pensando, ma Tina si limitava a sorridere timidamente, con gli occhi lucidi e il viso bagnato di lacrime.
«Sei tu, colui che mi ha salvata.» gli disse, alludendo al giornale che le aveva fatto avere.

Non smise di sorridergli. Adesso una nota di urgenza la avvolse.

«Io volevo avvisarti. Grindelwald si sta muovendo, ha chiesto aiuto alle maschere. Ho provato a sapere di più, ma non so niente. Ci ho provato. Ho sentito la parola auror, ed ho pensato a te. Vi faranno sparire. Io non voglio che tu sparisca. Io...»
Non sapeva se continuare, si sentiva in imbarazzo a pronunciare quei sentimenti ad alta voce.
«Va tutto bene. Ci siamo solo noi qui. Va tutto bene.» gli poggiò una mano sulla spalla

«Io ti amo troppo per vederti sparire. Come, come una sorella.»

Tina si sentì riscaldare, il calore di quelle parole avvolgerla dentro, come un abbraccio. Non sentiva più il vento congelarle la schiena. Rimase in silenzio, ma non per molto, perché non potè fare a meno di lasciarsi scappare una risatina, intenerita.

«Io non sparirò, Aurelius. Farò di tutto, perchè Grindelwald non ti faccia più del male. Ed è per questo se ti chiedo di smetterla! Non puoi spiarli, è pericoloso!»
Aurelius la guardò serio, scosse la testa, e le accarezzò la guancia con il pollice. Tina si ritrasse leggermente.
«Loro non vogliono che io sparisca, perchè tanto prima o poi sparirò comunque, in un modo o nell'altro. Loro vogliono te. Ti osservano, loro sanno tutto di te, Tina.»

Tina rabbrividì, sentì un senso di paura attanagliarla, fra l'ansia e il terrore, e il cuore che danzava senza sosta nel petto, mentre il sudore aveva iniziato a colare sulla fronte e lungo le dita della mano.

«Come lo sai, Aurelius?»
«Non posso dirti nient'altro. Sono più vicino a loro di quanto pensi, più di quanto loro stessi immaginano. Mi credono a casa moribondo. Ma io ho ancora tante cose da fare prima di andarmene!»
Tina sollevò lo sguardo per incontrare i suoi occhi bruni. Lei non voleva che si mettesse in pericolo, non per lei.
«Ti prego.» il suo tono cambiò da dolce, divenne serio, la parte di auror che era in lei era trapelata, unita e fortificata dall'affetto e dai sentimenti che nutriva verso di lui.
Aurelius rimase deluso. Non credeva che avrebbe potuto reagire così. Prese a tremare visibilmente, e Tina tentò di tranquillizzarlo, sapendo che non sempre riusciva a controllarsi.
«Anche io ti amo, troppo per vederti andare incontro al pericolo. Non voglio perderti, Aurelius.»
Il mago sollevò lo sguardo verso di lei e accennò un mezzo sorriso.

«Sei l'unica persona a pensarlo, ed é per questo che non permetterò a nessuno di toccarti, o di farti del male. Io ti guarderò le spalle.»

Tina non fece in tempo a controbattere, perché Aurelius le sfiorò la fronte con le labbra. Un tocco leggero.

«Loro ti osservavano, probabilmente ci stanno guardando anche adesso.»

Uno schiocco sordo e scomparve. Tina rimase confusa, a fissare lo spazio vuoto davanti a sé, poco prima occupato dalla figura del giovane Silente.
La paura, che aveva provato qualche istante prima, riemerse ancora più insistente, impedendole di ragionare lucidamente.
Si stava quasi dimenticando che era diretta alla pasticceria di Jacob e Queenie, e adesso non riusciva a ritrovare la saldezza nelle gambe. Si sentiva sprofondare, il pavimento molleggiare sotto ai suoi piedi.
Infilò la bacchetta nella manica del capotto, stringendola saldamente, nell'eventualità in cui fosse stata costretta ad usarla. Sperava con tutta sé stessa che ciò non accadesse mai.
Respirò profondamente, sentendo gradualmente l'ansia scorrere via dal suo corpo.

Si fece strada verso la pasticceria, questa volta camminando nella strada principale per disperdersi tra la folla, voltandosi di tanto in tanto per assicurarsi di non essere seguita.

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