Cap V

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Il servitore correva per le stradine del mercato, e Jinhe faceva fatica a stargli dietro. Non indossava abiti adatti a correre, e la lunga veste continuava ad avvolgersi attorno alle gambe.

In ogni caso, dubitava che lo avrebbero chiamato se non per qualcosa di molto grave.

Aoren doveva essere in serio pericolo, se uno dei suoi servitori era venuto a chiamarlo fino alla sala da the. Il qilin lo guidò verso una piccola piazza vicino alla scuola del maestro Ken, un vasto quadrato di pietra circondato da aiuole e impreziosito da piccole panchine.

A destra, una corta scalinata conduceva al vasto edificio giallo e nero dove si allenavano i membri della scuola del tuono.

Jinhe dovette rallentare e riprendere fiato, sempre più tentato di strapparsi la veste di dosso. Lo spettacolo davanti ai suoi occhi gli fece tornare le forze.

C'era stata una mischia furiosa, durata abbastanza perché qualche idiota decidesse di usare il qi. Jinhe si morse le labbra, respirando a forza dal naso.

Tre discepoli, vestiti col giallo della scuola del tuono, stavano a terra, doloranti, a tenersi braccia e gambe. Almeno uno aveva entrambe le braccia rotte.

Altri tre stavano in piedi, schiene contro un'aiuola più grande delle altre. Davanti a loro, una decina di qilin in vesti viola, di una scuola che Jinhe non ricordava.

Il mercante si concesse un sospiro di sollievo, vedendo che almeno Aoren era ancora in piedi. Il fratello, con le mani tremanti tenute alte, aveva i capelli dorati in disordine, e un livido sull'occhio destro così grosso che Jinhe lo vide da lontano.

«Che succede qui?» disse Jinhe, avanzando nella piazza, con tutta la dignità che il volto accaldato gli concedeva. Un gruppetto di passanti, che fino a quel momento si erano tenuti a debita distanza dallo scontro, si fece timidamente avanti.

Alcuni dei qilin in viola si girarono, guardandolo sorpresi. Uno, quello che pareva il più anziano, a giudicare dalla veste grigia, gli si fece incontro.

«Consigliere» disse, giungendo le mani nel segno di saluto.

Jinhe fece lo stesso, nel separare le dita ebbe cura di farle passare sull'orlo verde della veste, che ne qualificava il rango. Al qilin non sfuggì il gesto.

«Chiedevo cosa stesse accadendo» Jinhe, superando il qilin, si diresse verso il gruppo ancora impegnato a fronteggiarsi.

Dei nove discepoli in viola, solo due non gli rivolsero il saluto, preferendo continuare a tenere d'occhio i loro avversari. Entrambi portavano cinture grigie, e uno anche una spada al fianco.

Non era un buon segno.

I tre discepoli del tuono, invece, furono molto più lesti a mettersi in ginocchio quando si avvicinò. Jinhe vide suo fratello chinare il capo, nascondendo un sorrisetto.

«Consigliere, questi discepoli del tuono ci devono del denaro» fece il qilin che aveva parlato prima.

«Dite, è vero?» alla sua domanda, suo fratello sollevò il capo.

Ebbe almeno la dignità di non rivolgersi a lui con il suo nome.

«Sì, consigliere, ma il termine per il pagamento non è ancora arrivato»

«Bugiardo! Dovevate pagare tre giorni fa!» il qilin armato mise mano all'elsa. Jinhe fu costretto ad alzare la voce, così da essere sicuro che tutti i curiosi sentissero.

«Quanto vi devono? Salderò io il loro debito»

I qilin in viola si scambiarono degli sguardi sospettosi, ma fecero tutti un passo indietro, abbassando le mani. Solo il qilin con la spada non tolse la mano dall'arma.

Jinhe lo sentì chiaramente pronto ad incanalarci del qi.

«Dieci fori quadrati, consigliere»

Jinhe annuì, artigliandosi le mani nelle maniche. Non era una grande cifra, ma dubitava che Aoren avesse perso quella somma tutta in una volta; quel debito andava avanti da un po', ed era questo che gli faceva rabbia.

Schioccò le dita verso il servitore che lo aveva chiamato lì, e quello corse al suo fianco. Il ragazzo gli consegnò una tavoletta di legno.

«Passate prima del tramonto alla mia residenza, mostrate questa al mio attendente Li» Jinhe, con uno spuntone preso dalla cintura, tracciò velocemente sul legno i caratteri per dieci fori quadrati.

«Molto obbligato, consigliere» disse il qilin in viola, sorridendo soddisfatto nel prendere la tavoletta. Jinhe non vedeva l'ora che si levassero di torno

«Jinhe!» urlò Aoren. Lui si trattenne dall'imprecare.

Non era dell'umore per un'altra diatriba su onore e arti marziali.

«Aoren, sta zitto» ringhiò, folgorando il fratello con lo sguardo.

Quello, per tutta risposta, balzò in piedi. Il qilin con la spada la estrasse. Qualcuno tra la folla urlò.

Aoren e lo spadaccino erano già pronti a saltarsi alla gola, ma Jinhe fu più veloce.

Con un solo passo, fu davanti al qilin armato, che già teneva la lama dritta davanti a sé.

«Avete i vostri soldi, ora andatevene» disse Jinhe, con una voce calma che non rispecchiava il suo sguardo.

L'altro fece fluire del qi nella lama, avvolgendola con una sottile nebbiolina. Un bel trucco per impressionare discepoli principianti.

«Perché non ti levi di torno, e ci lasci risolvere la questione?» allungó appena la spada, con il chiaro intento di spaventarlo.

Jinhe prese la lama tra le dita, stringendola abbastanza perché non potesse allontanarsi

«Avete i vostri soldi» il mercante fece un passo avanti, piegando il metallo come si piega un foglio di carta «ora andatevene»

I qilin in viola, con gli occhi spalancati, batterono in rapida ritirata, dileguandosi dalla piazza.


Jinhe entrò nella sala a grandi passi. Il vecchio Li non fece domande, si limitò a fare un cenno agli altri servitori.

Tutti uscirono, lasciandoli soli.

«Al solito, Jinhe! Sei stato troppo buono» disse Aoren, stravaccandosi sul divano.

Respirando piano, Jinhe cercò di non rispondere subito. Non era sua intenzione litigare col fratello; non subito almeno.

«Da quanto avevi quel debito?» chiese, provando a parlare con un tono calmo.

«Non so; un giorno o due, credo» fece il fratello, pilucchiando da un piatto di frutta sul tavolino.

Le sue orecchie tremolarono, sbatté rapido due volte l'occhio sinistro. Tutti segni che Aoren stava mentendo. Jinhe si morse le labbra.

«Hai perso dieci fori quadrati in un giorno solo? Che razza di scommessa avresti fatto?» chiese, con la voce che si andava incrinando per la rabbia.

Aoren scelse finalmente una mela, controllandola con cura prima di morderla.

Stava prendendo tempo.

In un'altra occasione, Jinhe non avrebbe dato troppo peso alla cosa; ma stavolta gli ribolliva ancora la conversazione con Feihua, e quella situazione col fratello stava gettando olio sul fuoco.

«Non ricordo, devo aver perso a shogi con uno di loro» Aoren parlava con la bocca piena, pezzetti di mela non masticati cadevano sui cuscini.

«Non sai giocare a shogi» la pazienza di Jinhe stava finendo in fretta.

Il fratello non rispose, si limitò ad alzare le spalle.

«Perché non me lo hai detto subito?» sbuffò Jinhe, passandosi una mano sulla faccia.

«Dirti cosa?»

«Che avevi perso dei soldi! Potevamo risolvere il problema in poco tempo, invece di farlo crescere così!»

«Te lo ripeto, sarà passato qualche giorno, una settimana al massimo» Aoren scacciò la questione con la mano «e poi, potevamo anche non pagare»

Jinhe dovette respirare a fondo per non urlare.

«Vi stavano pestando; se non fossi arrivato io...»

«Avremmo combattuto!» Aoren scattò in piedi, fronteggiandolo. Jinhe resistette a stento a dargli una testata.

I due si guardarono in cagnesco per qualche momento.

«Che c'è, credi che ti debba ringraziare?» iniziò Aoren «potevo combattere, potevo far valere le mie ragioni! Invece tu pensi che tutto si possa risolvere con i soldi!»

«Avevi un debito, Aoren! I debiti si risolvono pagandoli! Cosa pensi, che dopo avervi pestato la cosa si sarebbe risolta? Sarebbero tornati domani, a picchiarvi di nuovo!»

Aoren divenne color porpora, fece un passo in avanti.

Jinhe ne sostenne lo sguardo, infuriato anche lui. Quando sentì l'altro raccogliere del qi, per poco non perse la calma.

«Non provarci» disse, a bassa voce «non pensarci nemmeno»

Aoren non rispose.

Scattò avanti, mirando con un pugno destro al suo naso. Jinhe alzò la sinistra, frustando col taglio della mano il polso del fratello.

Aoren provò con un pugno sinistro, e lui lo bloccò con la stessa mano, sbattendo il palmo contro le nocche.

Dolorante, l'altro arretrò, scuotendo le mani e ringhiando.

«Tira fuori quella mano! Porta rispetto alla mia scuola!» fece Aoren, assumendo la posizione del tuono.

Jinhe non si mosse. Aveva la destra piegata dietro la schiena, e non aveva intenzione di usarla. Non aveva nemmeno voglia di assecondare il fratello, ma non si sarebbe fatto colpire.

«Falla finita; stiamo parlando, possiamo farlo come dei qilin civili»

«Io sono un artista marziale!» urlò Aoren, vendendogli incontro.

Jinhe schivò il primo pugno con un passo di lato, il secondo spostando la testa, ed intercettò il terzo con la mano, deviandolo verso il basso.

Fece scattare il braccio sinistro in avanti, fermando il gomito vicinissimo al naso di Aoren.

«Artista marziale o mercante, i debiti si pagano con il denaro, non con i pugni» disse, allontanandosi dal fratello.

Aoren, la faccia scarlatta per la rabbia e l'umiliazione, digrignò i denti prima di parlare

«Se sei così bravo...» iniziò.

«Le sai le mie ragioni!» urlò Jinhe, la pazienza terminata del tutto «vuoi praticare le arti marziali? Non ti fermerò! Ma non tirarmi dentro alle tue fantasie! La vita non è una storiella epica!» detto questo, senza aggiungere altro si girò, uscendo dalla sala e trattando a stento la rabbia.

Fuori, il vecchio Li lo attendeva in un profondo inchino.

«Giovane signore, vostra madre desidera vedervi»

«E io non desidero infuriarmi tre volte in un giorno!» rispose lui. Si diresse al suo studio, dove almeno non avrebbe potuto pensare ad altro se non ai conti.

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