1.1 • In realtà, io non ho un nome

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«Come preferisci che ti chiami? Nome vero o nickname?» Così ruppe il ghiaccio Fenia, preoccupandosi di un dettaglio che fin troppi avevano sottovalutato negli ultimi tempi, a loro spese.

«Ajaka va benissimo». Si sentì rispondere, con un tono molto meno aggressivo di quello previsto. Rincuorata, scostò i fitti ricci mori dal campo visivo e digitò prontamente il nome di colei che, ci avrebbe messo la mano sul fuoco, sarebbe stata la sua migliore amica di lì a breve.

Ajaka, in piedi fra i due letti, buttò lo sguardo sul device da polso dell'interlocutrice premurosa, per poi avvisarla sul modo corretto di interpretare il nomignolo improbabile. «Ah, scusami. Lo pronuncio con la "i", ma si scrive con una "j"».

Fenia non riuscì a contenere la curiosità, che le procurava sempre guai, e scandì una domanda avventata: «Non capisco, ti è più comodo ripetere questo spiegone ogni volta che incontri uno sconosciuto invece di usare "R...». Ajaka poggiò la mano con decisione sulla bocca di Fenia, interrompendola. «Solo i miei genitori mi chiamavano per nome e non lo farà nessun altro finché non li avrò ritrovati. In realtà, io non ho un nome. Ci siamo capite?»

Eccola qua: l'incarnazione dell'arena, la dea della guerra.

Fenia annuì di scatto, stupefatta dal repentino cambio d'umore della nuova coinquilina. A maggior ragione, rimase perplessa nel veder tornare subito il sorriso sulle labbra screpolate di Ajaka, da tutti conosciuta come "la figlia dei due terrori". Magari soffriva soltanto di qualche scatto d'ira, a posteriori innocuo. Sì, avrebbe potuto gestirla, dopotutto Fenia si considerava ben peggiore e imbranata riguardo alla sfera sociale.

"Se lei è la figlia dei terrori, io sono la regina dell'inadeguatezza" si suggerì, per farsi forza, ma la frase ebbe l'effetto opposto. Abusare degli epiteti causava soltanto confusione e imbarazzo, Fenia ne era certa, infatti quando ebbe la possibilità di scegliere un nickname si arrangiò con quanto era già inciso sulla targhetta identificativa, il suo appellativo di battesimo.

Cosa le accomunava? Perché l'erede dei campioni non aveva scelto "Ajaka" come titolo principale se odiava sentirsi chiamare in causa con un altro nome? Era finita in testa alla Classifica Semifinale e avrebbe potuto scegliere quasi ogni combinazione alfanumerica possibile, tuttavia anche la bionda aveva confermato il nome di battesimo. Fenia si stese sul letto, dilaniata dai dubbi e allo stesso tempo spaventata all'idea di domandare un dettaglio  tanto personale cedendo ancora al suo lato impiccione.

Ajaka, ignara della lotta interna in corso tra le membra della mora a pochi metri da lei, fissava l'orizzonte oceanico attraverso il vetro lucido che occupava metà dei muri della stanza. Nessuna nuvola o fastidiosi riflessi accecanti: solo il tramonto. Era il suo momento prediletto, quello in cui si era aggiudicata alcune delle vittorie più spettacolari. D'altro canto, il cielo era arancione anche quando si era procurata la cicatrice che le attraversava lo zigomo destro, la palpebra e perfino una piccola parte della fronte, spaccando il sopracciglio biondo.

"Pari e patta" pensò, realizzando che forse i lati positivi del tramonto si equivalevano a quelli negativi. Pari e patta. Sua madre utilizzava spesso quell'espressione e gliel'aveva trasmessa, insieme a un talento smisurato per i giochi dell'ARA.

Era lei il motivo per il quale Ajaka aveva conservato il suo vero nome. Come Fenia aveva facilmente intuito, la scenata sulla scelta dell'appellativo da usare fra membri dello stesso grado si era ripetuta in decine di occasioni, ma la Furia non ne era affatto infastidita: ricordare la voce della madre era carburante per la sua performance negli scontri. Chiudendo gli occhi e rallentando il respiro poteva rivederla, Yhewel la Cometa, mentre alzava i pugni dopo il suo ultimo match, concluso a tempo di record come suo solito.

Fu anche l'ultima volta in cui poté abbracciarla.

«Avanti» Proruppe, allontanando l'unica memoria della madre in grado di spezzarla in un torrente di lacrime, «Ci perderemo l'inaugurazione».

Fenia intanto aveva seppellito la testa sotto due cuscini, sperando di contenere in tal modo l'impeto da ficcanaso che la divorava. L'arrivo di un borsone, lanciato con accuratezza millimetrica sulle cosce, la risvegliò dallo stato di trance auto indotta e la invitò dolcemente a darsi una mossa. Indossarono la divisa cerimoniale, blu scura con drappi celesti, e Fenia percepì di essere entrata a far parte di un gruppo speciale. Le menti più flessibili dell'umanità.

Appena uscirono, la stanza si sigillò in automatico, provocando un rumore sordo che spaventò la povera Fenia, nuova a tutto ciò che la Base Terrestre aveva da offrire. La diciassettenne aveva  guadagnato per un pelo il diritto di trasferirsi sulla gigantesca piattaforma immersa nelle acque gelide dell'artico e ogni oggetto le appariva un pizzico più elaborato del normale.

Seguì in silenzio i passi sicuri di Ajaka, una veterana rispetto a lei, giungendo infine all'Arena dei Saluti, luogo da sempre designato all'accoglienza dei novizi. Si trattava di un'ellisse grigia, circondata da spalti per almeno cinquantamila persone. Non c'erano segni o indicazioni disegnate sul terreno metallico, bensì un numero enorme di proiettori olografici e specchi riflettenti.

Le battaglie infatti non avvenivano sul campo. No, quello serviva soltanto a mostrare agli esterni cosa succedeva nella simulazione virtuale, l'Augmented Reality Arena, o ARA.

Raggiunte le due poltrone assegnate, in linea con il centro del campo, Ajaka si fece da parte e  lasciò il posto con più visibilità alla coinquilina. Aveva già assistito alla presentazione diverse volte e non era un problema perdersi il faccione di Ols, capo sviluppatore del progetto.

«Emozionata?»

Fenia, o quanto ne rimaneva, tremava come una foglia. Le era stato detto che al termine della cerimonia avrebbero scelto due persone qualsiasi dagli spalti per dare sfoggio delle loro abilità, e il solo pensiero di gareggiare di fronte agli élites la terrorizzava. «Ajaka, ti giuro, non credo di reggere. Se mi chiamano svengo».

La bionda rise di gusto, implorando silenziosamente il generatore di numeri casuali affinché estraesse proprio la piccola corda tesa al suo fianco. Una sfida del genere l'avrebbe temprata, pensò, e sarebbe stato un ottimo modo per darle subito dei consigli.

«Se ti scelgono, ricorda di guardare sempre male il tuo avversario. Credimi, sarà nervoso quanto te». Ajaka terminò la frase giusto in tempo: le luci persero progressivamente intensità e una figura in lieve sovrappeso avanzò verso l'Arena dei Saluti.

«Signore e signori, ragazze e ragazzi: benvenuti alla Base Terrestre. Mi chiamo Ols e sono colui che ha portato avanti il progetto ARA negli ultimi vent'anni. Ci saranno molti temi da trattare durante questa serata di celebrazione, ma credo che niente incarni meglio lo spirito dell'iniziativa rispetto al video che sto per mostrarvi. Mettetevi comodi, ho il piacere di passare la parola all'ideatore delle ARA stesse».

Un anello di ologrammi ripetuti si illuminò in cima allo stadio, permettendo così una visione perfetta a tutti i presenti, da qualsiasi angolazione. L'immagine era lievemente sgranata e dava l'impressione di essere piuttosto datata, tuttavia per il momento mostrava solo delle dita di fronte all'apparecchio di registrazione. Fenia si chiese perché non avessero tagliato un inizio così impacciato.

Le mani si allontanarono dall'inquadratura e un ragazzo sulla ventina apparì nella ripresa, impegnato ad armeggiare qualche altro secondo. «Dovrebbe... funzionare, stupide webcam. Ok, eccoci qua. Ciao a chiunque sia in ascolto, e ciao al me del futuro, tanto so che rivedrai spesso questo filmino. Oggi è il... due? No, il tre dicembre 2014 e fa un freschetto splendido, ma non vi interessa».

Fenia si avvicinò all'orecchio di Ajaka per non disturbare gli altri presenti, bisbigliando: «133 anni fa? Pensavo che le ARA fossero state sviluppate da poco... perché a scuola non parlano di questo tipo?».

La Furia non si riguardò dal parlare nel suo tono consueto, facendo avvampare di imbarazzo l'altra. «È bruttino, Fenia. Non riscuoterebbe i consensi desiderati. Però ascoltalo, è interessante». Un signore nella fila superiore piegò il viso per rimproverare Ajaka, ma appena la riconobbe si ritrasse e scelse di osservare un religioso silenzio.

Fenia riportò l'attenzione al tizio olografico e riccioluto, che prese fiato guardando dritto nella telecamera. Le sue parole rimbombarono nell'Arena dei Saluti, confermando i dubbi di chi aveva già sentito voci e storielle su di lui. «Mi chiamo Alessandro Bonace, e credo di aver inventato qualcosa di pazzesco».


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