Capitolo 8

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Io me lo ricordo ancora l'ultimo giorno che mio padre mi ha voluto bene. E' stato due giorni prima che mia madre morisse.
Ero in camera mia, stavo cercando di studiare per un test all'università, ma riuscivo solo a chiedermi dove mia madre tenesse i gioielli. Sapevo che li aveva nascosti perché aveva paura dei ladri, ma non sapevo proprio dove andare a cercarli. E' che volevo mettere la collanina d'oro bianco che mi avevano regalato lei e mio padre per la mia Comunione, e quella collanina era insieme a tutti gli altri gioielli.
Volevo metterla per il suo eventuale funerale.
E' che quando una persona malata è ancora viva, tu ti autoconvinci di essere pronta a perderla, ti prepari per quell'eventualità, crei una lista mentale di tutto quello che ti occorre per affrontare meglio il lutto. E poi la realtà si riversa addosso a te con violenza.
Non sei pronto a perdere qualcuno a cui vuoi bene, non sei pronto per niente, e della collanina te ne freghi, te ne freghi del vestito, dei capelli, delle unghie curate e del trucco che non deve colare, e magari ci andresti addirittura in pigiama al funerale, tanto non senti niente e neanche te ne rendi conto.
Mio padre è entrato nella mia stanza. Era invecchiato e dimagrito, sembrava lo scheletro di se stesso. <<Ciao>>, mi ha detto, rimanendo con la mano appoggiata sul pomello della porta.
Io ho cercato di sorridere, credo di esserci anche riuscita, ma non ne sono sicura. <<Ciao.>> L'ho guardato spaventata, avevo paura che fosse venuto a comunicarmi "la brutta notizia", quella che tutti quanti aspettavamo in allerta davanti al telefono, nei nostri letti, di notte, quando non eravamo accanto a lei. <<E' successo qualcosa?>> Come se la morte di mia madre fosse "qualcosa".
Lui ha scosso la testa, si è portato le mani sugli occhi ed è stato per qualche minuto il silenzio. <<Tu lo sai che ti voglio bene, vero Cris?>>
Ricordo di averlo fissato a lungo. Ero davvero spaventata. Mio padre mi ha sempre voluto bene, me l'ha sempre dimostrato, ma non me l'ha mai detto apertamente, tranne quel giorno lì. <<Certo, papà.>> Mi sono alzata e sono andata ad abbracciarlo. Sentivo che ne aveva bisogno. <<Te ne voglio anch'io.>>
Io mio padre non lo abbraccio da allora, e sono passati quasi tre anni.
Apro la porta di casa e la richiudo con un calcio. Tengo Maria tra le braccia, sta dormendo, ho paura che abbia anche la febbre, perché ha la fronte rovente. Sono dovuta andare a prenderla a scuola prima della ricreazione, visto che si sentiva parecchio male. La maestra Romina mi ha guardato come se fossi una delinquente che manda a scuola una bambina con la febbre, ma quando siamo uscite stamattina Maria non stava ancora male. Poi sono dovuta tornare a lavorare nel pomeriggio, quindi ho dovuto lasciarla con Rosita.
Sistemo mia sorella nel suo lettino e le infilo il termometro sotto l'ascella destra. Trentanove e cinque, come volevasi dimostrare.
La copro per bene, aggiungo anche un'altra coperta per sicurezza, dopodiché vado a prenderle la medicina. Mio padre rientra in casa, è una delle rare volte in cui non è ubriaco.
Io e Maria siamo tornate a vivere insieme a lui tre giorni fa. Ormai ho lo stipendio al supermercato, quindi posso permettermi di fare la spesa. Inoltre ho cambiato nascondiglio ai miei risparmi. Ora li tengo a casa di Rosita. Mio padre, comunque, non si è neanche preoccupato di informarsi su dove siamo state per tutto quel tempo.
<<Stai male?>>, mi chiede lui, senza neanche guardarmi. Si siede sul divano, accende la televisione ed estrae una confezione di birre da una busta di plastica.
<<No.>> Ripongo la confezione di Tachipirina nel cassetto dei medicinali, dopodiché torno da Maria e provo a svegliarla. <<Mar, tesoro, devi alzarti un attimo.>>
Lei mugola e s'irrigidisce. <<Non ce la faccio, Cris. Mi fa male la testa.>>
<<Lo so, amore, ma devo metterti la supposta, altrimenti non ti scende la febbre.>> L'afferro per le spalle e l'aiuto a tirarsi su.
Maria piagnucola un po', non sopporta nessun medicinale, ad esclusione delle supposte di Tachipirina, visto che non deve assumerle per bocca.
Le metto il pigiama pesante e l'aiuto a rimettersi a letto. Accendo la televisione e la sintonizzo su un canale di cartoni animati, lei adora sentire i dialoghi di Adventure Time, ma quando torno a guardare Maria mi accorgo che sta già dormendo. Povera piccola, spero che il medicinale faccia effetto presto.
Torno in soggiorno. Mio padre è già alla terza bottiglia.
Mi preparo qualcosa da mangiare, poi guardo l'ora sull'orologio elettronico del forno. Mancano quaranta minuti alle ventuno. Devo assolutamente avvertire Federico che stasera non potrò andare al "Gozadera". Non voglio lasciare Maria in queste condizioni.
Gli mando un messaggio veloce in cui gli dico che ho avuto un'emergenza familiare, lui mi risponde che non c'è problema e che ci andremo venerdì prossimo. Mi metto nel letto accanto a Maria e penso che probabilmente venerdì prossimo avrò un altro problema familiare. La tranquillità mi ha abbandonato da tempo, ormai.
Mi giro su un fianco, abbraccio il corpicino esile e bollente di mia sorella, chiudo gli occhi. Per un istante la mia mente vola lontano, in un posto dove chiaramente è fuori luogo:
La grigliata a casa di quella ragazza, Sebastiano che si diverte, che mangia la carne nei piatti di plastica, che beve la birra dalla bottiglia. E' tutto così allettante per la mia anima stanca.
Oggi, dopo avermi accompagnato all'università in moto, mi ha chiesto di andare a prendere un caffè insieme nel pomeriggio, così poi mi avrebbe accompagnata a recuperare la mia auto nel parcheggio del centro commerciale, ma io non gli ho neanche risposto. Il mio cellulare ha preso a squillare, ho letto sul display il numero della scuola di Maria e non ho capito più nulla.
Ho restituito il casco a Sebastiano e sono corsa verso la fermata della metropolitana senza neanche ringraziarlo del passaggio. Probabilmente avrà pensato che sono fuori di testa, che non sono all'altezza, che sono sbagliata.
Io invece conosco la verità, e scusate il gioco di parole, ma il concetto è quello giusto: sono solo molto sola.


Indovinate un po'? Stasera è venerdì e finalmente sono in viaggio verso il "Gozadera".
Federico mi ha praticamente rapita. Ha aspettato che finissi il mio turno, poi mi ha accompagnata a casa e ha atteso che mi preparassi per un'ora e mezza nel cortile del mio palazzo. Non ho proprio potuto dirgli di no, sapete?
Maria è rimasta con la signora Giovanna. La scorsa settimana sono andata a trovarla, ho approfittato del fatto che Sebastiano era fuori casa. Abbiamo parlato del suo ricovero in ospedale e del mio trasloco temporaneo a casa di Rosita, poi mi ha detto che suo nipote starà per un po' con lei, ma non mi ha detto il motivo, e io comunque non gliel'ho chiesto. Non m'mporta nulla di lui.
Così ora mi ritrovo qui, nell'Opel Corsa di Federico, con la guancia schiacciata contro il finestrino umido, a guardare il paesaggio serale che mi scorre davanti.
Sono seduta accanto a Federico. Dietro, sui sedili posteriori, se ne sta un'irritatissima Elda. Mi lancia occhiatacce continue da almeno dieci minuti, più o meno da quando siamo passati a prenderla sotto casa sua. In questo momento deve odiarmi come non mai, perché avrebbe preferito di gran lunga esserci lei accanto a Federico.
Lui mi guarda di tanto in tanto e sorride. Vorrei sorridere anch'io, davvero. Detesto fare la parte della depressona cronica, è solo che non ci riesco, c'è sempre un pensiero sfumato, che non riesco a vedere con chiarezza, che mi blocca.
Federico parcheggia in uno spiazzo pieno di altre macchine. Una musica assordante proviene dall'edificio alla nostra destra. In alto capeggia un'insegna illuminata: "Gozadera".
Elda si arpiona al braccio di Federico e gli stampa un bacio sulla guancia, poi inizia a trascinarlo verso il locale. Io rimango indietro e mi guardo attorno, mentre l'aria di metà ottobre mi solletica le gambe coperte da un paio di collant leggere.
<<Cris, non vieni?>>, mi domanda Federico, voltandosi verso di me.
Alzo il telefono verso di lui e annuisco. <<Le mie amiche mi hanno scritto che stanno arrivando. Voi andate avanti, vi raggiungiamo.>>
Federico mi guarda ancora per un istante, combattuto probabilmente dall'indecisione di rimanere ad aspettare insieme a me oppure entrare nel locale insieme ad Elda. Lei sorride, soddisfatta, dopodiché decide per lui ed entra nel locale insieme a Federico.
Sbuffo e mi siedo sul muretto che costeggia un parco giochi per bambini. Paola e Rosita ancora non ci credono che mi sia decisa ad uscire, e se devo essere sincera non ci credo nemmeno io.
Guardo le scarpe alte che ho indossato, chiedendomi probabilmente quanto ci metterò a pentirmene.
Intravedo l'auto di Paola che entra nel parcheggio. Cominciano i giochi.

Il locale è buio, la musica altissima, la folla veramente numerosa, i tavoli davvero in minoranza rispetto a tutta la gente che è qui dentro.
Mi avvicino al bancone e ordino tre birre piccole. Ho i capelli completamente bagnati di sudore, i piedi doloranti. Alla fine mi sono pentita di aver indossato queste scarpe.
Il barman mi posiziona tre bicchieri davanti e io chiamo le mie amiche con un cenno della testa. Paola e Rosita abbandonano la pista da ballo e si avventano sulle loro rispettive birre.
Balliamo da quando siamo arrivate, ormai non abbiamo più forza neanche di respirare e siamo anche un po' brille. Federico è l'unico sobrio tra noi cinque, visto che deve guidare ha bevuto solo un semplice analcolico, mentre Elda è completamente svenuta sul divanetto di pelle del nostro tavolo. Ha bevuto una quantità industriale di Vodka, la ragazza.
Mi guardo intorno, mentre sorseggio la mia terza birra. Sono circondata dai miei compagni di università, alcuni li conosco di persona, altri solo di vista. E' un locale tranquillo, tutto sommato. Niente a che vedere con l'aria irrespirabile che tira al Millennium, dove regnano la superficialità e i figli di papà con il macchinone, il conto in banca ed i vestiti inamidati.
<<Tu sei pazza, Cris>>, mi dice Paola, facendosi aria con un volantino del locale. <<Dico, ma l'hai visto? Che aspetti a buttarti su di lui?>>
Paola ha notato subito il debole che Federico nutre per me e ormai non mi da tregua. <<Non me la sento, siamo solo amici.>>
<<Guarda che mica te lo devi sposare.>> Beve un sorso di birra e ammicca ad un ragazzo seduto al bancone che gli sta facendo gli occhi dolci da almeno dieci minuti.
<<Paola ha ragione, niña.>> Rosita mi da di gomito, sorridendo. <<Sei giovane, bella e intelligente. Ti manca solo un bel ragazzo che si prenda cura di te.>>
Arriccio le labbra e scuoto la testa. <<Non sono mica una disabile. So badare a me stessa, non mi servono ulteriori complicazioni.>>
Decido di andare in bagno per rinfrescarmi un po' e con la scusa fare anche uno squillo alla signora Giovanna per sapere se Maria si è addormentata. Mi faccio largo tra la folla che balla ed è davvero un'impresa epica, ma alla fine arrivo davanti alla porta di legno che conduce alla toilette femminile. Mi avvicino al lavandino e mi sciacquo la faccia.
Estraggo dai jeans il mio cellulare e compongo il numero della signora Giovanna. Squilla a vuoto per un po', e quando sto per riattaccare una voce maschile mi risponde: <<Pronto?>>
Sgrano gli occhi e rimango in silenzio per un attimo. <<Mi scusi, forse ho sbagliato numero, credevo di... >>
<<Non hai sbagliato numero, tranquilla.>> La voce dall'altra parte del telefono è estremamente divertita e dannatamente familiare.
Stringo la presa sul cellulare e sbuffo. <<Perché rispondi tu al telefono di tua nonna?>>
<<L'ho fatto per te, perché so che ti mancavo.>>
<<Me la passi, per favore?>> Non ho tempo per i giochetti insopportabili di Sebastiano.
<<Chi?>>
<<Tua nonna.>> Cerco di restare calma, nonostante abbia voglia di mettermi a gridare contro di lui.
<<Sta dormendo.>> Sospira. <<Anche tua sorella, quindi puoi tornare a ballare sui cubi tranquillamente.>>
<<Ti ringrazio, stavo proprio per tornare a farlo>>, dico, sarcastica.
<<Cavolo, sono curioso, mandami una foto.>> Sento il rumore di una porta che si chiude.
<<Sognatela.>>
<<Chi ti dice che io non lo faccia già?>> Adesso un rumore metallico, come di chiavi che sbattono tra loro.
<<Dimmelo tu: lo fai?>> Mi appoggio con un fianco al lavabo, improvvisamente curiosa di sentire la sua risposta.
<<Chi lo sa... >> Sento un altro rumore, è confuso, ovattato.
Corrugo la fronte <<Che diavolo stai facendo, si può sapere? Cosa sono tutti questi rumori?>>
<<Sto rapinando una banca.>> Non posso vederlo, ma sono certa che stia sorridendo.
<<Allora dovresti essere un pochino meno rumoroso.>>
<<Grazie del consiglio.>>
Mi schiarisco la voce, a disagio. Per qualche strana ragione non voglio che la chiamata termini. <<Com'era la carne?>>
<<Quale carne?>>
<<Quella che avete preso per la grigliata.>> Uso il plurale, senza però riuscire a specificare che mi riferisco a lui e quella biondina.
<<Ah, sì, era buonissima.>>
<<Mi fa piacere.>>
Restiamo in silenzio per un po', poi Sebastiano ricomincia a parlare: <<Bè, divertiti sul cubo.>> Sento il cigolio di una porta che si apre. <<Io sto uscendo, devo riagganciare.>>
<<Okay, buona serata.>> Poi ci ripenso. <<Bè, nottata più che altro.>>
<<Domani mattina che fai?>>, mi chiede lui, inaspettatamente.
<<Ho lezione.>>
<<Il pomeriggio?>>
Sorrido. <<Lavoro.>>
<<La sera?>>
<<Che te ne importa?>>
Lui scoppia a ridere. <<Bè, mi devi un caffè per il passaggio che ti ho dato l'altra settimana.>>
<<Quindi mi stai chiedendo di uscire?>> Sono inspiegabilmente compiaciuta.
<<Ti sto chiedendo un caffè.>>
Fingo di pensarci su, poi decido di citare la sua risposta di poco fa: <<Chi lo sa... >> Sorrido, sentendomi stranamente più leggera. <<Buonanotte... Seb.>> E riaggancio.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro