IV. Alcatraz

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La visita ad Alcatraz è una delle cose che è assolutamente necessario fare a San Francisco. Ogni turista che si rispetti, ha sottolineato Melanie quando di buon mattino ha proposto di recarsi lì, deve ammirare la bellezza dell'isola e conoscerne le vicissitudini.

È risaputa la storia dell'isola come prigione di massima sicurezza, una fortezza inespugnabile da cui era impossibile fuggire. Meno noto è il fatto che alla fine degli anni '60 gli Indiani d'America occuparono l'isola, chiedendo che fosse dichiarata una loro riserva.

«Inizialmente l'opinione pubblica era dalla loro parte» spiega Melanie mentre l'imbarcazione ci trasporta verso l'isola, «poi ci fu un incendio che danneggiò il faro, il primo faro americano sulla costa continentale, provocando problemi alla navigazione, così il Governo tagliò acqua e luce costringendoli alla resa».

Le spiegazioni di Melanie hanno come sottofondo i rumori meccanici del motore e lo scalpitio delle onde che si infrangono contro la parete dell'imbarcazione. È un mare agitato, impervio, che rende impossibile la natazione e che a tratti si oppone persino alla navigazione. È selvaggio, indomabile, vuole proteggere il suo tesoro, la sua isola.

Il mare ha una sorta di innato istinto materno, respinge ciò che non gli appartiene per proteggere i suoi figli, farebbe di tutto per loro. È disposto a combattere, ad aggredire, a sopraffare chiunque si metta sul suo cammino. Il mare vince, sempre.

«You break the rules, you go to prison. You break the prison rules, you go to Alcatraz» sentenzia Benjamin quando finalmente poggiamo i piedi sulla terraferma.

«Alcatraz è considerata la prigione all'interno del sistema carcerario perché lì venivano spediti i detenuti dalle altre prigioni federali, ma nessuna giuria poteva condannare un imputato direttamente ad Alcatraz» si appresta a spiegare William, esplicando le parole di Ben.

La prima cosa che noto, guardandomi intorno, è il cartello "Indian Welcome" che ci accoglie, simbolo di quell'occupazione a cui Mel ha accennato. In secondo luogo, è palese il contrasto tra le mura di cinta della prigione, sbiadite e logore, e la vegetazione rigogliosa dell'isola. Le finestre arrugginite e scure fanno a pugni con le tonalità di verde che animano quel luogo, rendendolo suggestivo e bello. Non avrei mai pensato di definire "bello" il carcere di massima sicurezza più famoso del mondo, ma osservando i colori accesi dei fiorellini che spuntano nelle aiuole non mi viene in mente altro aggettivo per definire questo luogo.

«Notevole, eh?!» chiede retorico Ander, affiancandomi. Non mi ha più rivolto la parola da quando abbiamo lasciato casa, né più i suoi occhi hanno incontrato i miei. Probabilmente mi ha studiata di sottecchi, cercando di scorgere debolezze per poter vincere la sfida.

Mi limito ad annuire e seguire un allegro Sebastian che zampetta accanto al padre, la manina strettamente salda nella sua. Ho l'impressione che sia un discreto birichino, deve dare del filo da torcere a quei poveri genitori.

Una lunga salita rocciosa separa il molo dall'entrata della prigione. Ci avviamo con solerzia in quella direzione senza privarci di ammirare la magnifica vista che regala sulla baia di San Francisco. Stormi di uccelli volano in quota, animando il percorso con il loro cinguettio acuto e piacevole.

Dopo una manciata di minuti finalmente giungiamo in cima, col fiato corto e le gambe dolenti nel mio caso. Le lezioni con mia madre non mi hanno certo dotato di resistenza, neppure discreta. Tuttavia, quel panorama mozzafiato è in grado di soverchiare il fiato corto e convertire la fatica in ammirazione.

«Allora, che te ne pare?» domanda Penelope affiancandomi e riprendendo a respirare con regolarità. Io ho bisogno di qualche istante in più per riprendermi e poter rispondere.

«È così... bello» biascico sotto il suo sguardo divertito. Non riesco proprio a trovare un altro aggettivo per descrivere tutto ciò, nemmeno un sinonimo potrebbe rendere bene l'idea.

«Fa lo stesso effetto ogni volta» confessa con un sospiro mentre insieme ci avviamo alla volta dell'ingresso, dove Melanie ci sta radunando per iniziare la visita guidata.

Probabilmente loro l'hanno visitato un'infinità di volte, ma ogni occasione è buona per tornarci. In più, deduco, vogliono coinvolgermi con ogni fibra del loro essere, facendo di tutto per farmi sentire accettata e benvoluta.

Ci vengono consegnate delle audioguide e tutti insieme entriamo mentre nelle orecchie la voce di una guardia inizia a raccontare. L'aspetto più affascinante di questa visita è che le voci che risuonano nelle nostre orecchie, spiegando con dovizia di particolari i luoghi che i nostri occhi osservano, sono le persone che hanno realmente vissuto Alcatraz: ex-prigionieri, guardia carcerieri e loro familiari raccontano aneddoti sulla vita quotidiana.

"Il cibo che passava il carcere era di alta qualità, con porzioni abbondanti" spiega la voce di un detenuto mentre i nostri passi riecheggiano nella cucina e nella sala da pranzo, ormai vuote. Le pareti sono fradice, l'intonaco consumato in diversi punti. "Tutto ciò che facevamo aveva come unico fine quello di evitare la fuga" prosegue la spiegazione una guardia, "I detenuti sovrappeso sono limitati nella fuga. In più gli erano concesse lunghe docce calde, così da sterminare sul nascere l'idea di tuffarsi nelle acque gelide della baia".

Il nostro cammino prosegue alla volta delle celle. Qui le pareti sono ancora più logore, le sbarre arrugginite e cigolanti gli conferiscono un'aria spettrale. Sebastian stringe forte la mano di William, rifugiandosi dietro di lui mentre dalle cuffie udiamo la storia dei blocchi.

Le celle sono scarne, con un unico letto, una scrivania, un lavabo e un gabinetto sulla parete in fondo. Erano singole cosicché ogni detenuto potesse riflettere sulle proprie malefatte.

Mentre attraversiamo il blocco D ci viene raccontata la sua storia, la durezza delle punizioni e le torture inferte ai prigionieri meno malleabili, quelli difficili da plasmare e rieducare. Quest'ala appare, se possibile, ancora più tetra. Le ultime celle sono piccole, senza finestre; qui tira un'aria gelida che sembra provenire direttamente dalle mura fracide.

Una guardia spiega l'isolamento a cui venivano sottoposti i prigionieri in quest'area, ma la mia attenzione viene catturata da un repentino movimento a pochi passi da me. Ander e Ben stanno confabulando alle spalle di Penelope, agitano le braccia in un linguaggio comprensibile solo a loro. William e Melanie, ancora più avanti, stringono un piccolo e suscettibile Sebastian tra loro.

D'un tratto Penny si arresta, paralizzata, mentre la voce afferma che in quelle celle i detenuti erano percossi e torturati per poi essere costretti a dormire nudi su quei pavimenti gelidi. Con un gesto fulmineo Ben le passa un braccio intorno al collo e le tappa la bocca con la mano, impedendole di urlare. L'altro braccio è sulla pancia e la solleva di una buona manciata di centimetri. Ander, intanto, le passa le mani davanti agli occhi, impedendole di vedere.

Ovviamente la prima reazione di Penelope è quella di dimenarsi, ma invano poiché il fratello è molto più alto e vigoroso di lei. Quando viene sollevata inizia a tirare calci nel vuoto, fermandosi solo quando uno va a segno e colpisce lo stinco del fratello. Solo a quel punto viene immediatamente lasciata e può poggiare di nuovo i piedi al suolo.

Incenerisce i due con lo sguardo, tirando uno schiaffo sul viso a Ben e spintonando Ander affinché si tolga dalla sua visuale. Infine, borbotta un «Idioti!» nella loro direzione e si incammina verso di me. Sicuramente non immagina che io abbia assistito all'intera scena, né tantomeno che abbia visto i due amici coalizzarsi senza tuttavia riuscire a prevedere le loro intenzioni.

Se l'avesse saputo probabilmente non avrebbe passato il resto della visita attaccata al mio fianco, sempre con gli occhi tesi nella direzione di Ben e Ander per assicurarsi che le stiano lontani almeno di un metro.

La voce narrante, intanto, si appresta a raccontare di uno dei tentativi di fuga più controversi, quello in cui i detenuti sono stati dichiarati dispersi e i corpi mai trovati. "Pochi giorni dopo la loro fuga, all'ufficio della polizia di San Francisco arrivò una cartolina con scritto solo We made it, ah ah ah. Tuttavia, un bollettino ufficiale annunciò che né le impronte digitali né la calligrafia corrispondevano a quelle dei tre prigionieri" termina il resoconto mentre la visita volge al termine.

«Seh, questo è quello che vogliono farci credere» replica Ander una volta fuori, dopo essersi sfilato le cuffie. Lui e Ben continuano a lanciare occhiate preoccupate nella direzione di Penelope, probabilmente timorosi che possa fargliela pagare.

«Voi due» sputa a un tratto la sopracitata, staccandosi dal mio fianco e puntando il dito indice nella loro direzione. Ha gli occhi spalancati e furenti, terrificanti oserei dire. «Siete due idioti!» completa scagliandosi addosso a loro, riservando a ciascuno una pioggia di pugni sul petto.

Sono più alti e vigorosi, non deve avergli fatto molto male, ma entrambi strabuzzano gli occhi per la sorpresa. Nessuno reagisce, sicuramente hanno paura di farle male. Penelope è esile e slanciata, non gracile e bassa come me, ma in questo momento sembra animata da una forza innata.

«Penny, dacci un taglio!» sbotta a un certo punto Ben, deviandole un pugno e beccandosi per questo l'ennesimo sguardo furente.

«Penelope» decido di intervenire per la sua incolumità, non voglio che si faccia male per colpire questi due. «Basta, è abbastanza» la scuoto, tirandole le spalle all'indietro. Non sembra particolarmente intenzionata a collaborare, tuttavia è costretta a fermarsi poiché anche i due fanno un passo nella direzione opposta, aumentando le distanze.

«Grazie, fatina» sorride Ander mentre i due fratelli si allontanano, ancora bisticciando. Se non altro, mi consolo, Penelope si è temporaneamente arresa e ha smesso di volerlo colpire a tutti i costi.

«Mi chiamo Hilda» replico piccata. Ho un nome, e nonostante non mi faccia impazzire pretendo che mi si chiami così. Inoltre, nessuno gli ha detto che poteva darmi un soprannome. Per di più, qui non c'è nessuna fatina.

«Come vuoi, fatina» soffia ridendo. Allunga un braccio nella mia direzione, afferrando una ciocca dei miei capelli per rigirarsela sfrontatamente tra le dita. Prima che possa fare qualsiasi cosa per impedirglielo si porta la mano alle labbra e fa cenno di soffiarmi un bacio. Infine, raggiunge Ben, poco distante.

Ormai temo sia ufficiale, Ander Dudiez sarà il mio tormento.

La frase pronunciata da Benjamin ho voluto lasciarla in inglese perché secondo me rende molto di più; inoltre è considerato una sorta di motto di Alcatraz e non mi sembrava il caso di tradurla. Ad ogni modo, nel caso non si fosse capito dalle spiegazioni successive, significa: "Infrangi le regole, finisci in prigione. Infrangi le regole della prigione, finisci ad Alcatraz".

Ho cercato di rendere questo capitolo il più veritiero possibile, informandomi sui siti internet e sulle guide turistiche, per cui ciò che avete letto succede davvero in una visita guidata alla prigione più famosa del mondo! E sì, anche la vegetazione così florida è realistica, pensate che c'è persino un fiore che si chiama appunto Alcatraz!

Vi lascio un'immagine per darvi un'idea della bellezza, intanto voi fatemi sapere cosa ne pensate, se la visita vi è sembrata abbastanza realistica e non esitate a darmi consigli, quelli sono sempre ben accetti!

Aspetto con ansia le vostre stelline se la storia vi sta piacendo!

Luna Freya Nives

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