XXVII. Calamita

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La matematica mi ha sempre affascinata. Tutti quei numeri ligi a regole precise e prestabilite ai miei occhi appaiono come esempi da seguire, perché quando tutti seguono le regole ogni cosa va esattamente secondo i piani.

Per questo sono così ostinata, per questo ho sempre stabilito delle regole, dei paletti fissi e stabili nella mia esistenza che non possono essere modificati. Mi sento tranquilla sapendo che ho il controllo adatto per pormi dei limiti invalicabili – mura di cinta della mia persona che nessuno sarà in grado di abbattere, come un integrale particolarmente difficile da risolvere, con troppi calcoli e un risultato così complesso che il gioco non vale la candela.

Ander la odia – o meglio, odia la trigonometria: sostiene che sia uno strumento del demonio per torturare i poveri mortali, che sia del tutto inutile, e quindi si rifiuta di applicarsi per prendere un buon voto.

Per questo siamo nel salotto di casa, io, lui e Ben, tutti e tre chini sui libri. Ben impreca con cadenza regolare e Ander di rimando rotea gli occhi, facendogli perdere la pazienza.

«Che cazzo, Ander, ma mi stai ascoltando? Se non mi ascolti non capirai mai» si lamenta indispettito, sbattendo il pugno sui libri. La bottiglia di acqua che è al centro del tavolo traballa e Ander sospira pesantemente.

«Non ci capisco un cazzo» si lamenta frustrato, pizzicando con le dita la radice del naso forse a voler contrastare il mal di testa dilagante.

«Forse dovreste fare una pausa» mi intrometto, mordendo l'interno della guancia per trattenere una risata di fronte all'aria afflitta di Benjamin. Ander annuisce con vigore, rendendomi impossibile non ridere di gusto.

«Sei un caso perso» Ben si lamenta sbuffando e recupera il telefono, abbandonato a faccia in giù al centro del tavolo. Proprio in quel momento inizia a squillare, mentre il numero di Melanie campeggia sullo schermo.

«Pronto, mamma?» risponde immediatamente. Melanie è all'università per una conferenza e non dovrebbe tornare a casa prima di sera, solitamente non chiama mai quando è al lavoro.

«Adesso? Ma papà?» domanda ancora, aggrottando le sopracciglia. Non sembra agitato per cui deduco che non sia successo nulla di grave.

«Va bene, va bene... A stasera, ciao» saluta infine, chiudendo la telefonata con un sospiro.

«Tutto bene?» domando con apprensione mordicchiando una penna.

«Sì, papà è rimasto bloccato nella Silicon Valley e mamma non riesce a tornare a casa in tempo per prendere Sebastian, quindi devo andare io visto che Penny è da nonsochi

«Adesso?» si intromette Ander con gli occhi illuminati.

«Adesso, idiota. Ma non disperare, domani continuiamo con trigonometria, devi studiare i teoremi» lo minaccia Ben alzandosi e avventurandosi alla ricerca delle chiavi dell'auto.

Le trova in una manciata di minuti, dopodiché esce sbattendo la porta. Non appena si sente l'auto uscire dal vialetto, Ander si volta verso di me, sorridendo sornione.

«Allora... che si fa?» domanda, sollevando le sopracciglia in un'espressione eloquente.

«Studiamo» ribatto, senza lasciarmi influenzare dai suoi occhi. Si posano sul mio viso in modo lascivo, soffermandosi sulle labbra, poi scendono sulla mascella e sul collo candido che sono stati precedentemente preda delle sue labbra.

«Non proponi niente di meglio?» si lamenta, mordendosi il labbro inferiore. Sento i miei visceri andare a fuoco conseguentemente a quel gesto, eppure mantengo un contegno e il cipiglio rigido che ho assunto da quando l'ho visto piombare in casa per studiare con Benjamin.

«Assolutamente no» ribadisco con sicurezza, prestando attenzione solo al libro di storia sotto al mio naso, dove sto sottolineando con la matita i concetti fondamentali.

«Andiamo... non hai proprio idee interessanti?» sibila piano, sottraendomi il libro e chiudendolo sotto i miei occhi prima di farlo scivolare lontano.

Espiro con forza, chiudendo gli occhi per cercare di placare quel fuoco che mi divampa nel petto, poi con calma mi alzo dal tavolo e mi incammino verso le scale.

«Dove vai?» domanda cauto, osservandomi salire i gradini con lentezza estenuante. Voglio metterci più tempo possibile se ciò mi permette di stargli lontano.

«A prendere il libro di letteratura dato che mi hai sequestrato quello di storia» asserisco risoluta, varcando la soglia della mia stanza.

Credevo non mi avesse nemmeno sentita, imbambolato com'era sulla sedia, e invece me lo ritrovo alle spalle con un ghigno per nulla rassicurante.

«Stanza interessante» professa, poggiandosi allo stipite con le braccia incrociate sotto al petto. Certo, se fosse un po' meno bello – e se io fossi un po' meno debole – non dovrei forzare il mio sguardo a non posarsi sulla sua figura, che mi attrae come una calamita.

Ecco cos'è Ander per me, una maledetta calamita. E io sono il suo ferro. Quand'è lontano conduco una vita normale, il mio cervello esercita il controllo sulle mie azioni e soppesa ogni gesto, ogni sguardo, rifuggendo i contatti e tenendomi a debita distanza.

Quando invece è nelle vicinanze, si spegne. Non so se sia un cortocircuito o un blackout temporaneo, ma il cervello si abbandona completamente agli istinti. E la calamita attrae il ferro, plasmandolo a sua volontà e padroneggiandone le schegge.

Se Ander è vicino il mio corpo non conosce autodisciplina, né tantomeno moderazione. Ogni senso si acuisce e diviene impossibile frenare il fiume in piena di sensazioni che mi investono. Finiscono sotto il getto della cascata e vengono trascinata a fondo dalla corrente. Mi arrendo al suo dominio e non governo più il mio corpo.

E lui lo sa, è perfettamente consapevole dell'ascendente che esercita su di me, ma non lo sfrutta. Lascia sempre che sia io a capitolare, a lasciarmi andare, ad arrendermi completamente a lui. Lascia sempre che sia io a fare quel passo nella sua direzione che mi fa definitivamente cadere nella sua trappola.

Ne sono consapevole, eppure lo faccio ogni volta – d'altronde il ferro non può resistere alla vicinanza della calamita.

Ander non è più poggiato allo stipite quando io mi volto con il libro tra le mani. La porta è chiusa e lui è esattamente di fronte a me, e continua a sorridere sornione.

Deglutisco a vuoto un paio di volte, e quando mi decido a parlare scopro la voce quasi tremula.

«Spazio vitale, Dudi» biascico, stringendo il libro tra le mani e utilizzandolo come scudo per tenerlo a distanza.

Ander ride ancora ma i suoi occhi si accendono, adesso luccicano. La luce che filtra dalle tende chiuse gli illumina le iridi nocciola donando loro il colore e la dolcezza del miele. E come il miele Ander è forte e vischioso, si avvicina lentamente e si lascia assaporare, svelando ad ogni assaggio un retrogusto nuovo, una nota mai gustata prima.

Io in questo momento mi sento Winnie The Pooh, anelo il mio miele e voglio assaporare ogni parte del corpo caramello di Ander. Fremo sotto il suo sguardo languido – ha le pupille dilatate mentre afferra il libro che tengo tra le mani e lo ripone sopra la scrivania.

Sono in balìa delle sue fiamme e nemmeno le mie onde riescono a spegnere l'incendio che divampa nel mio petto. Ander è fermo ma lo sento ovunque – lungo la spina dorsale, negli occhi, sul collo, sui fianchi, nel ventre. Lo sento nel cuore che la sta vincendo quella maratona iniziata chissà quando e nei polmoni che bruciano, ormai allo stremo.

E stammi lontano, Ander, vattene – non te ne andare che ho bisogno della tua aria per respirare, senza morirò. Non voglio soffocare, avvicinati, fammi respirare dalle tue labbra – no, lasciami in pace, non mi toccare.

«Dillo di nuovo» sussurra piano, avvicinandosi al mio orecchio. Solletica il lobo con le labbra, lo mordicchia mentre con le mani mi spinge verso sé.

«C-cosa?» domando ancora, con le sinapsi fuori uso e incapace di formulare pensieri logici. A quanto pare anche loro sono metallici e la carica attrattiva di Ander è abbastanza forte da deviarli nella sua direzione.

È ovunque, finanche nel mio cervello, tra i solchi cerebrali e nelle suture delle ossa del cranio.

«Il mio nome» esplica, solleticando con la lingua l'elice. Il mio cuore batte nell'orecchio adesso, qualunque sia l'arteria che lo irrora sta ricevendo tutta la gittata cardiaca perché non sento il sangue nel resto del corpo.

Lo sento solamente lì, dove le labbra di Ander ora lambiscono il lobo e lo succhiano con delicatezza, alternandolo a piccoli morsi. Io fremo tra le sue braccia e un gemito sfugge al mio controllo mentre cerco di dire il suo nome.

«D-dudi?» biascico appena, la bocca impastata a causa della vicinanza.

Ander sorride, appagato dai risultati che sta ottenendo, e lascia l'orecchio per tornare a guardarmi negli occhi. Quelle che solitamente appaiono fosse nocciola adesso sono campi di grano, e nella patina lucida che ricopre le iridi scopro scintille nuove, mai viste prima.

Le spighe si muovono frenetiche, vorticano in ogni direzione mosse dal vento prodotto dal mio corpo. Sto andando a fuoco sotto il suo sguardo, brucio di un sentimento mai provato finora e non riesco a capitarmi che possa essere sbagliato.

Come può essere sbagliato se i miei fianchi sembrano essere stati plasmati in questo modo solo per accogliere le mani di Ander? Come può essere sbagliato se i miei occhi sono diafani affinché lui possa specchiarcisi e scoprire nelle sue iridi la scintilla del desiderio? Come può essere sbagliato se le mie gambe tremano e necessitano delle sue braccia per sorreggersi, arrendendosi alla voluttà?

E non importa se la gonna che indosso è risalita sotto al seno e non mi copre più le cosce, perché lui sta guardando i miei occhi e non le mie gambe. Non importa se sono schiacciata contro la porta perché il mio cuore batte all'unisono col suo. Non importa se i miei polsi sono ossuti perché gli ho infilato le mani nei capelli e lui sorride sulle mie labbra.

D'altronde, come potrei pensare a qualcosa di futile come il fatto che sono gracile, che non ho un corpo tonico da mostrare, se le dita di Ander mi pizzicano l'interno coscia al ritmo dei miei sospiri.

La sua mano sinistra afferra una coscia per allacciarsela intorno al bacino e avere così campo libero verso la mia intimità. Quando le sue dita sfiorano gli slip un gemito sfugge al mio controllo e Ander prontamente lo cattura, intrappolando le mie labbra tra le sue.

Continua a baciarmi e succhiare gli angoli della mia bocca mentre sfiora dapprima, sondando quel territorio inesplorato; successivamente lambisce la pelle sensibile e si muove piano; infine acquista velocità adattandola al ritmo dei miei gemiti.

Non li cattura più, lascia che sfuggano alle mie labbra e si inebria di quel suono. I suoi occhi languidi studiano il mio viso mentre fremo al suo tocco, le ciglia sbattono con cadenza regolare mentre il piacere si spande dal ventre al midollo, raggiungendo il cervello.

Sono in autocombustione, non riesco a spiegarmeli diversamente questi miliardi di spilli che mi scuotono le membra. Le gambe tremano e io con loro, finanche con i visceri, mentre le mani vagano sul busto di Ander. Carezzo i bicipiti guizzanti, le spalle toniche, la schiena che si curva sotto al tocco bollente dei miei polpastrelli.

Graffio, quando rimanere ferma ormai è impossibile lascio strisciare le unghie lungo la colonna vertebrale, dal collo fino al bordo dei jeans; poi infilo le dita nei passanti e le intreccio nel vano tentativo di contrastare il fuoco che divampa.

Le mie gambe non reggono più – burro fuso tra le dita roventi di Ander – e sono costretta ad aggrapparmi alle sue spalle per non capitolare. Graffio ancora la pelle sotto la maglietta, infilo le unghie nella carne e gemo tra le sue braccia.

L'ennesimo spillo rovente trapassa le meningi, accendendomi di un fuoco nuovo, non più quello glaciale che mi appartiene ma quello rovente che appartiene a lui. Mi accascio sulla sua spalla, conficcandogli il viso nell'incavo nel collo e stringendo entrambe le gambe intorno alla sua vita.

Ander mi carezza delicatamente la schiena, inspirando nei miei capelli e lasciando piccoli baci su di essi. Sorrido, aggrappata a lui come un koala con le poche forze mi restano. E non importa se le mie ginocchia ossute gli infilzano la pelle perché nelle sue movenze non c'è traccia di fastidio.

Rimaniamo in silenzio per un tempo indefinito, a respirare piano con i cuori che battono all'unisono, uno contro l'altro, finché i suoi muscoli contratti mi suggeriscono che è il caso di scendere.

Rimango col capo chino, puntellando i piedi a terra e osservandomi con interesse i mocassini mentre nel mio campo visivo le mani di Ander non accennano a spostarsi dai miei fianchi.

«C-che... che è successo?» domando cauta, ripescando il coraggio lì dove era venuto a galla, tra un gemito di piacere e una tirata di capelli.

«Beh, ad occhio e croce...» Ander ride, catturandomi il mento tra due dita per guardarmi negli occhi, «... direi che sei appena venuta» conclude sornione.

Mi sento avvampare ma non riesco a trattenere una risata, che nascondo prontamente poggiando il capo sul suo petto. Lo so bene cos'è successo, ne sono più che consapevole, ma le sensazioni che si provano con un orgasmo in solitaria non sono paragonabili a questo.

Sono completamente rilassata, mi sono concentrata esclusivamente sul mio piacere e ne ho goduto fino allo stremo, fino a che le gambe non mi hanno abbandonata e le braccia di Ander mi hanno afferrata, stringendomi a lui, lasciandomi beare del suo odore pungente, dei suoi occhi languidi e dei suoi sorrisi irriverenti, riservati solamente a me.

E l'ho fatto perché lo voglio.

Ho sganciato una bella bomba, lo so. D'altronde l'avevo detto che l'occhio del ciclone era terminato. Ma so anche che non aspettavate altro – non mentite, stolti!

È una delle scene a cui tengo di più, fulcro centrale dello sviluppo della storia nella mia testolina bacata. È uno dei primi momenti che ho immaginato e per questo vorrei sapere cosa ne pensate, se sono riuscita a rendere la scena senza risultare volgare. Mi sta venendo l'ansia vi giuro ahahahah

Insomma, fatemi sapere, ci tengo particolarmente 🥺 Adesso fuggo altrimenti cerco un posto in cui sotterrarmi, adieu

Luna Freya Nives

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