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Mercoledi 6 ottobre 1993

In prima superiore guardavamo il mondo attraverso la lente deformante dell'adolescenza. Tutto quello che in quei giorni ci è rimasto attaccato, tutto ciò che ha superato le forche caudine del mio cervello adolescente, è stato nuovamente filtrato dalle esperienze che ci siamo andati a cercare, o che ci hanno scovato, a volte travolto.

Molte cose me le sono dimenticate, forse quasi tutte, forse ce ne sono alcune chiuse dietro trigger sconosciuti. Ma posso assicurarvi che il mio ricordo del periodo di autogestione, difficilmente mi abbandonerà.

Molto.

Dopo le medie mi ero iscritto all'ITI perché credevo di potercela fare. Ci andava anche Molo, mio amico d'infanzia: lui era stato il primo a infondermi quella fiducia, la stessa falsa fiducia che mi avevano dato anche i miei genitori, convinti che potessi valere un istituto tecnico, quando in realtà al massimo potevo valere un CFP.

Alle medie ero stato pigro, preferivo il basket, anzi, era il mio motivo di vita. Quando gli altri chiedevano la maglietta di Baggio, io chiedevo la maglia di Jordan, e anche quella di Djordjevic, perché si chiamava Aleksandar ed un po' ci tenevo a farmi soprannominare «Sasha» come lui. Invece mi appiopparono «Chiodo» perchè ero alto e secco, ma poco male, perché alla fine lui si era trasferito alla Fortitudo e poteva anche crepare da quel momento in avanti.

Giocavo fino a consumare le Air Jordan, perché se c'era un idolo che trascendeva persino il momento di infatuazione per Djordjevic, se c'era qualcuno a cui mi ispiravo fino a mordermi la lingua tentando di imitarlo andando a canestro, se c'era qualcuno per cui avevo pianto al ritiro (il primo, ovviamente) era MJ.

Quando il 6 ottobre aveva dichiarato che intendeva ritirarsi, Jordan mi aveva lasciato orfano del mio faro sportivo, di colui che mi aveva fatto amare il basket a tal punto da togliere tempo allo studio e ai compiti, costringendomi a rimediare nei minuti precedenti all'inizio delle lezioni scopiazzi veloci e fatti male da quelli più bravi, tipo Molo.

Il ritiro di Jordan aveva solo certificato, o forse giustificato a me stesso, il raffreddarsi del mio amore viscerale per il basket, che aveva lasciato campo libero all'altro mio hobby: truccare i motorini. Qualche settimana dopo, infatti, avevo iniziato a sfrecciare in giro per il mondo con il mio nuovissimo scooter già elaborato come se ci dovessi andare sulla luna, facendo un casino infernale. Il rumore era sempre un buon segno quando si parlava di motorini elaborati.

Il punto di riferimento a riguardo era Melandri che abitava tre case più in là della mia e che, a sua volta, conosceva il figlio del meccanico Bertoni, che a sua volta era cugino di Molo. Era lui che mi innescava sul motorino, diventato una fissa nei mesi immediatamente precedenti al mio quattordicesimo compleanno.

Eh si, all'epoca si girava in motorino a quattordici anni, senza bisogno di conoscere il codice della strada e senza sapere cosa significassero i cartelli. Era un mondo fantastico dove il "Guardie e ladri" con i vigili era un gioco iperrealistico, specialmente quando perdevi e dovevi pagare multe e depositi.

All'ITI avevo iniziato molto presto a tirare avanti come mi capitava. Piano piano, quasi senza volerlo, ero scivolato indietro nei posti dove c'erano un paio di compagni che giravano con zaini pesantissimi, spesso sporchi di fuliggine, limatura e grasso, pieni di componenti o interi carburatori. Eravamo così fissati che quando facevamo buco, una delle attività preferite era passare alla RAMC a vedere i nuovi pezzi sognando di installarli negli scooter, per renderli ancora più imprendibili.

Inoltre, un altro vantaggio che mi portò la mia nuova vita da ultimo banco, era che potevo ascoltare il walkman senza essere sgamato dai professori: la musica dance era un mondo che già adoravo grazie alla mia radiolina, alle cassette fatte a mano, alle compilation che doppiavo o, più raramente, compravo. Infatti aspettavo solo il momento buono per iniziare a rompere le balle ai miei per andare in discoteca da solo almeno la domenica pomeriggio.

Ero letteralmente caduto nel gorgo dell'eurodance che aveva avuto come culmine il periodo tra il 1992 e il 1993, folgorato già alla fine delle medie da un pezzone come Rhythm is a dancer degli Snap! . E mi piaceva, mi piaceva non sapete quanto, molto più che la fisica e la geografia, specie quando c'era da rigirarsi nelle mani dei pezzi di sasso per scoprire di che razza erano.

La musica scava solchi nella nostra mente, che li riempie con le emozioni di quel momento. Please Don't Go dei Double You è la gita di terza media quando avevo visto il reggiseno della Michela che all'epoca mi sembrava avesse delle tette giganti. What Is Love è il primo bacio con la lingua dato a una tipa che chissà adesso che fine ha fatto, mi ricordo solo che si chiamava Lily, era mora, pienotta ed era in vacanza da un qualche posto tra Roma e Napoli.

Novembre a Cesena era il solito Novembre pieno di nuvole, di pioggia, di nebbia.

Ogni tanto mi veniva una mezza voglia di andare a scuola in motorino per evitare le lunghe attese alla stazione dei pullman. Non so perché, ma iniziavo a non sopportare più quel piazzale, mi sembrava pieno di ragazzi più bambini di me, che si rincorrevano o inscenavano incontri di scherma con gli ombrelli, mentre i soliti graffittari improvvisati riempivano di ghirigori tutti i pali e i cartelloni pubblicitari della stazione con l'uniposca, riproducendo qualche citazione che manco avevano capito bene. Andavano Kurt Cobain, che di lì a sei mesi sarebbe morto, ma non mancavano mai quelli di Bob Marley, per dirne due che mi sono venuti subito in mente.

Nonostante le giornate fossero sempre più corte e umide, vedevo la possibilità di andare in scooter a scuola come un buon modo per 'crescere' ed affrancarmi dai bambini, ma quell'ameba di Molo non era intenzionato a percorrere la 'pericolosa' Cervese.

«Te lo sogni, pago l'abbonamento al pullman, mi scarica davanti a scuola se piove, se c'è nebbia, se nevica. Guida l'autista, io zero problemi, figurati se vado a mettermi per strada con il sonno che ho la mattina» argomentava, rigidissimo.

«Perchè aspettare qui mezz'ora dopo che hai finito la scuola, a romperci le palle raccontandoci stronzate sul calcio o sulla formula uno, è una bella roba, vero? A me mette solo una gran tristezza».

«Allora vai, mica sono tua mamma. che ti devo dare il permesso».

Per conto mio l'avrei fatto volentieri, c'era anche Zava che l'avrebbe fatto volentieri, e l'aveva anche fatto.

Solo una volta, poi l'avevano fermato. Non gli avevano fatto niente, ma da quel giorno aveva sviluppato la fobia della Cervese, non l'ha percorsa più con nessun veicolo a due ruote finché non ha preso la patente.

Io e Molo eravamo amici, ero sempre il benvenuto a casa sua, sbaffavo le merendine che la signora Molari mi dava a piene mani e quando stavamo insieme alla fine un modo per passarsi il pomeriggio lo trovavamo, fosse anche giocare al PC a qualche avventura grafica come piaceva a lui, i due Monkey Island o Indiana Jones and the Fate of Atlantis su cui ci rompevamo la testa.

O meglio, lui si rompeva la testa. Io intanto spippettavo nella sua radio, criticavo i CD che comprava, davo consigli e dicevo cazzate, tanto per passare il tempo.

Con l'arrivo dell'inverno avevamo smesso di giocare a basket dietro al palazzo dello sport di Cervia perché il campo era perennemente allagato, viscido, pieno di foglie e schifezze varie. E poi Molo e molti altri preferivano il calcio.

Io no..

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