6.

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Susy.

Via di fuga.

Emozioni. Solo dolorose emozioni attanagliano il mio cuore in questa mattina grigia. Stringo il manico dell'ombrello, disperatamente cerco riparo sotto di esso. Sono certa che il giorno del funerale il tempo, sta ascoltando il suono del mio dolore e lo manifesta in una pioggia fitta e fredda.

Quasi non sento le parole di Don Patrick. Mi sento come se qualcuno stesse risucchiando la mia anima. Mi sento fuori dal mio corpo. Isolata dal mondo e dal resto della mia famiglia e delle persone care a mio padre. Mia madre affonda il viso nell'incavo del collo di mia sorella. Quest'ultima rigida con il suo vestito elegante nero, rigorosamente nuovo. Il velo del capello nasconde i suoi occhi, odia mostrare alle persone la debolezza e perciò lo maschera. Sento i tacchi affondare nel fango, quasi perdo l'equilibrio. Una ventata gelida attraversa il tessuto della mia camicia nera, rabbrividisco, penetra dentro alla mia pelle, raggiunge le mie ossa...toccando la mia fragile anima. Sono distrutta. Questo sentimento mi mette ansia, ho preso anche gli ansiolitici. Ormai ne sono dipendente.

Mi mordo il labbro, ancora una volta. Sento i miei denti affondare nella mia carne debole e quasi sento il sapore amaro del sangue. Non importa quanto dolore stia provando, nessun dolore fisico supererà la guerra che ho dentro e che nessuno conosce. La mia storia la conosco solo io e così farò per il resto della mia vita.

Mamma si allontana da Lillie. Raccoglie del terriccio da terra e si avvicina alla bara di mio padre. Chiusa. Lui è lì dentro, nascosto e protetto dal materiale scuro della bara. Forse adesso ha trovato la pace. Forse adesso è felice e può raggiungere suo fratello, zio Archie. Piange, finalmente sento la sua voce straziante prendere vita, trattenuta per tutto il tempo dalla sua maschera e dal suo atteggiamento sempre rigoroso e perfetto. La vedova ha finalmente mostrato il suo dolore. Mi spezza il cuore e sento le mie gambe cedere e mia madre come se stesse percependo le mie stesse emozioni, cade a terra in ginocchio e si copre la bocca con il suo fazzoletto bianco mentre la pioggia si abbatte su di lei.

Il mio cuore si ferma. Sento la terra mancare sotto ai piedi ma non riesco a raggiungerla. Il mio corpo ora sembra fatto di marmo, non riesco a fare nessun movimento. È come se fossi stata pietrificata dagli occhi di Medusa, mi ha fatta diventare di pietra.

Lillie sussurra qualcosa al suo orecchio. Non so cosa le ha detto ma è bastato per farla alzare in piedi e lentamente cerca di allontanarla dalla tomba che a breve sarà ricoperta di terra. Mi avvicino dopo qualche istante, raccolgo il terriccio sotto lo sguardo di tutti. Mi sento osservata, ho la pelle d'oca. Odio essere al centro dell'attenzione. Non sono abituata ad avere gli occhi puntati addosso.

Cerco di ignorare gli occhi delle persone addosso. Guardo la sua bara e mi rendo conto che questa è l'ultima volta che dirò addio a mio padre. Non ho il coraggio. «Mi dispiace papà», mormoro per non farmi sentire e lascio cadere l'ombrello a terra. La pioggia ora scende su di me. Sento la camicia bagnata, la sento a contatto con la mia pelle, come colla. Mi sento improvvisamente nuda: esposta. Chiudo gli occhi e le lacrime si mischiano alla pioggia. È una sensazione strana. L'acqua mi scivola addosso. Voglio potermi purificare da tutti, da ogni cosa.

Mi inginocchio: le dita sfiorano la bara mentre con l'altra mano butto il terriccio su di essa. «Un giorno ti racconterò tutto», avrei dovuto correre da lui e raccontare tutta la verità, ho preferito diversamente, essere una codarda. Ma come biasimarmi?

Durante lo svolgimento della messa rituale al funerale, sono stata seduta in un angolo, quasi nascosta. Volevo sentirmi al sicuro, protetta dalla pietà delle persone che ho dimenticato, di cui non provo nulla se un dispiacere, un flebile dispiacere. Non sono cattiva ma con il tempo ho imparato a dar peso ai miei sentimenti e valutare di più le persone. Non sono più la ragazzina emotiva, che si lasciava coinvolgere da tutto e da tutti di un tempo. Quella ragazzina è morta quella sera. La mia vita ha iniziato ad assomigliare ad un incubo da quel giorno. I giorni successivi ad esso sono stati i peggiori.

La consueta messa funerale è stata dolorosa, lunga e devastante. Ho fatto fatica ad ascoltare tutto e fissare la bara scura senza mettermi a urlare. Ho sentito la familiare voglia di alzarmi e scappare, correre via da qui e trovare un po' di pace. Ma non potevo farlo, non davanti a tutti, non di nuovo. Ed eccomi qui fuori, nella realtà dove non esisterà più mio padre e non lo vedrò più.

Mi allontano. Raccolgo l'ombrello e mi allontano sotto lo sguardo di tutti, compresi quelli di mia madre e di mia sorella. Sono completamente fradicia mentre cerco di raggiungere il parcheggio e di rifugiarmi nella mia macchina. Dopo la lettura del testamento della settimana prossima, potrò dire addio a questa città e di tornare alla mia vita a Seattle. Forse non è nemmeno una vita ma una sopravvivenza. Non so quando e se tornerò mai a vivere, mi sembra una cosa così assurda e lontana da me.

A fatica riesco ad arrivare al parcheggio. Ho come la sensazione di aver appena corso una maratona, ho quasi il fiato corto. Cerco disperatamente le chiavi della mia macchina. Lo so sto sbagliando ancora, sto scappando di nuovo ma no ne posso fare almeno. Qui mi sento in trappola non posso dare sfogo al mio dolore. Ho bisogno del mio posto sicuro per dare via libera alle mie emozioni o potrei... Prendere ancora gli ansiolitici.

Perrie smettila, ti distruggerà ancora di più. Impara a gestire le tue emozioni senza dare spazio alle medicine. Urla la vocina nella mia testa ricordandomi ancora una volta quanto io sia debole e sbagliata. Sono senza speranze.

Le lacrime offuscano la vista e sbatto il piede a terra con forza e mi dimentico fino a quel momento di calzare i tacchi. Impreco frustrata e priva di qualsiasi energia e tutto mi cade a terra, di nuovo. Sto avendo l'ennesima crisi e non riuscirò mai a gestirla e controllarla. Arrivano nei momenti in cui sono più vulnerabile e attaccabile.

«Perché a me?» sussurro a me stessa mentre mi abbasso a raccogliere le cose. Le mie ginocchia premono contro il suolo freddo e sento la schiena bagnata e la camicia zuppa d'acqua, mi si è incollata alla pelle. Dalla borsetta fuoriescono le mie chiavi, il rossetto che mi ha presentato mia madre prima di entrare in chiesa, qualcosa di veramente inutile.

Mentre allungo la mano verso il piccolo portafoglio dove ho riposto i documenti e la patente, vedo degli anfibi fermarsi davanti me e confusa alzo gli occhi lentamente, percorrendo la lunghezza delle sue gambe nascoste dai jeans chiari e quando giungo al suo viso, il cuore mi si ferma letteralmente. Incrocio i suoi occhi chiari, di un verde che mi riportano ai pomeriggi estivi, trascorsi seduti sul prato di casa mia, abbracciati mentre aspettavamo il tramonto. Lui sa di estate, lui sa di casa. Lui sa di noi.

Deglutisco. Quegli occhi mi hanno perseguitata nei sogni, per anni. Ammetto a me stessa che li sogno ancora. Nel buio dei miei pensieri, i suoi occhi verdi mi illuminano il cammino, avvolgendo in quel calore dove io sto bene, dove mi sento al sicuro...amata. Quelle labbra rosee che mi hanno sfiorato con dolcezza. Dove ogni bacio rubato sembrava una corsa folle in autostrada.

L'uomo davanti a me non è più il liceale di cui mi sono perdutamente innamorata. Adesso è un uomo, un uomo affascinante, intrigante. Lui incarna il proibito fatto in persona. Mi manca il fiato e sento come se il tempo si fosse fermato appositamente per noi, solo per noi, per nessun altro. È uno scherzo del destino ritrovarlo davanti a me dopo aver seppillito mio padre.

Sono passati undici anni dalla nostra ultima volta. Undici anni di cui non mi perdo i quegli occhi. Ci vedo un mondo intero da scoprire, potrei addirittura perdermi dentro, anche adesso. Ha uno sguardo così serio: il suo sguardo acuto ma attento mi sta leggendo dentro, sta scavando dentro alla corazza che ho costruito intorno a me per isolarmi dal resto del mondo.

«Ciao, Perrie». La sua voce forte mi vibra dentro al petto e avverto la famosa scarica elettrica quando pronunciava il mio nome.

Nel mio tentativo di indietreggiare, perdo l'equilibrio e cado a terra, proprio dove c'è una pozzanghera. «Dio» sbuffo letteralmente fuori di me e evito il suo sguardo, imbarazzata. Che ci fa qui? Perché è venuto a prestare soccorso? Non ha niente di meglio da fare? Sto perdendo il controllo del mio corpo, perché in fondo non ero preparata a rivederlo.

«Stai bene?», sembra realmente preoccupato ma non gli credo. Ma resta comunque fermo davanti a me senza provare ad aiutarmi.

«Sì», mento solo perché detesto chiedere aiuto e riesco a raccogliere di fretta tutte le mie cose. «sei qui per...il funerale?».

Annuisce sistemandosi la maglietta nera. «Non pensavo di vederti», distoglie lo sguardo per evitare di guardarmi. Nessuno credeva che fossi tornata a casa.

«Ah quindi Richard non ti ha detto che ci siamo visti al supermercato?», chiedo con una risatina di scherno. Faccio fatica a credere che non abbia detto del nostro incontro al suo migliore amico. E poi la città è piccola e parla.

«Non ne sapevo niente», replica freddamente. Ha le mani nascoste dentro ai jeans. Conosco quel gesto: è a disagio. «mi dispiace per tuo padre, era una brava persona davvero». Parole meccaniche e di circostanza, come di chi non ha più voglia di vedermi o semplicemente di parlarmi. Mi detesta, lo sento a pelle. Lo sento per il modo glaciale con cui mi osserva. Per quella linea dritta e dura sulle labbra.

Mi sento come se mi stesse prendendo in giro. Se fosse dispiaciuto per me, allora sarebbe venuto a casa e invece non l'ha fatto, ma questa costatazione la tengo per me. «Grazie, lo era davvero», rispondo meccanicamente. Si sta comportando come tutti, le stesse parole, lo stesso atteggiamento. Il Tristan che conosco, anzi, conoscevo, era più empatico di così. «sei ancora in tempo se vuoi salutare, beh tutti» indico la strada che porta al cimitero mentre io mi avvicino alla macchina e mi accorgo di quanto sia sporca.

«Perché stai andando via?», si volta verso di me.

Mi fermo. «Chi te lo dice che sto andando via? Magari sono venuta a prendere qualcosa in macchina», ribatto infastidita e apro la portiera della macchina con disinvoltura. Sto di nuovo fingendo di essere una donna sicura, forte, capace di gestire tutto e tutti. In realtà sto tremando di paura.

«Sei piuttosto di fretta», mi indica come se sapesse tutto di me nonostante gli anni trascorsi.

«Lo sono», confermo chiudendo l'ombrello e così continuo a bagnarmi di più, ma non ci presto molta attenzione. «cosa c'è?», domando notando il suo sguardo fin troppo curioso.

Scuote il capo in segno di negazione, come se avesse formulato un pensiero e l'avesse mandato via. «Come stai, Perrie?», il suo tono è diventato improvvisamente serio. Tremo sotto ai suoi occhi indagatore capace di leggermi dentro in una maniera che solo lui sa fare. Ha sempre percepito le mie emozioni, ha sempre saputo il mio umore.

«Come...come dovrei...stare?», balbetto impacciata stringendo la chiave nella mano, fino a sentire l'acciaio penetrare nella mia pelle. Non importa il dolore che posso provare, quello che sto provando ora è amplificato a potenza di mille. Lui è la mia più grande debolezza. Uno dei motivi per cui non volevo tornare.

«Intendevo oltre a questa cosa». Resta piatto nella voce, non si sbilancia. Tristan sta cercando di tenere sotto controllo le proprie emozioni, come se mostrarle lo facesse sentire inadeguato. «non so nemmeno perché stia cercando di parlare con te». Ghigna velenoso improvvisamente, come se adesso gli avessi fatto qualcosa di male per meritarmi tale comportamento.

Mi premo con la schiena contro la portiera dell'auto, indispettita. «Come scusa?», inarco un sopracciglio. «vieni qui, mi presti soccorso chiedendomi come sto, quando nessuno ti ha chiesto niente, inizi a riempirmi di domande e ora sei tu quello che non vuoi parlare con me?». Schiocco la lingua sul palato, accigliata ma soprattutto offesa.

Si rabbuia improvvisamente e la sua mascella si contrae talmente dalla sua rigidità. Sembra un soldato in questo momento: un uomo schivo, freddo. «Mia sorella aveva ragione e ora capisco perché ti detesta così tanto», si avvicina a me ed io mi premo debolmente di più contro la portiera ma so di non aver scampo. «le ragazze come te sono solo brave a fingere di essere diverse. Non sei diversa dalle altre, Perrie. Sei la solita stronza che lascia tutto e tutti senza dare una spiegazione». Afferma le parole con tale lucidità che non credo possibile che stia fingendo.

Porto le mie mani in avanti, tremando. Non sono pronta per affrontare questa conversazione. Non sono pronta per parlarne con lui. «Hai ragione, sono una stronza egoista», le mie mani si premono contro il suo petto e lo spingo via. I miei occhi si chiudono improvvisamente, sento il mio corpo tremare, non dal freddo ma dall'ansia che mi sta procurando. Sento il mio respiro mancare e ho l'affanno, i rumori si attutiscono intorno a me e tutto diventa nullo, superfluo. La pioggia cade sopra di me trasformando questo scenario in un perfetto incubo reale. È più forte di me. Io sono il nulla al suo confronto. «...s...spostati per favore», lo supplico. La sua vicinanza mi provoca disgusto, ho paura. Paura di essere in trappola come l'ultima volta. Paura di non riuscire a reagire, di nuovo.

Sentire il suo respiro caldo sulla mia pelle non mi provoca più puri brividi di piacere, i suoi respiri mi provocano ribrezzo e mi sale il conato di vomito. Quando le sue mani scattano a stringermi un polso, reagisco d'istinto e urlo, urlo con tutta la voce che ho chiusa in gola. Posso sentire le corde vocali vibrare dall'impatto.

«Non toccarmi» lo guardo furiosa in preda ad una devastante rabbia. Mi sto lentamente consumando. La morte è meno dolorosa di questo dolore. Mi spezza in due e mi sento fusa con esso. Esistiamo io e il dolore, due essenze fatte della stessa medaglia.

Le sue mani scivolano lontane da me ma neanche il suo indietreggiare mi calma. Apro di forza la portiera lasciando l'ombrello aperto ai suoi piedi ed io mi rifugio dentro alla macchina. Cerco nella borsetta il flacone delle pillole. Mi sento fuori dal mio corpo. Fuori dal mio mondo. Mi sento il vuoto. Io sono il nulla.

Mi ha distrutta. Mi ha consumata. Io non esisto più. Questo corpo non è più il mio. Lo rinnego, lo rigetto via. Ci devo solo convivere. Provavo terrore quando il mio ex fidanzato mi toccava le prime volte, ma ho imparato a fingere che quelle mani fossero vellutate e incapaci di farmi del male. Ho finto di essere un'altra persona che faceva l'amore con la persona che amava. Ma in cuore mio, sapevo che non potevo mai amare nessun altro come amavo Tristan e ciò mi rende ancora legata a lui. Legata da un sentimento adolescenziale che non ha mai avuto occasione per maturare e per sbocciare.

Lui batte la mano contro il finestrino. Lo ignoro. Metto in moto sapendo di non essere nelle condizioni per mettermi a guidare. Ho voglia di sprofondare nel baratro e di non uscirci più. Direzione: pub. Non guardo nemmeno Tristan dallo specchietto retrovisore, non avrei voluto vederlo in queste condizioni, anzi, non avrei voluto vederlo in tutto il mio soggiorno qui.

Aziono i tergicristalli mentre sfreccio lungo le strade bagnate della mia vecchia città. La cosa splendida è di essere circondata sempre dal verde. Gli alberi che costeggiano lungo le strade, sono alti, maestosi e sono qui ormai da decenni. Il sindaco ci tiene molto alla cura del verde e ciò rende questa cittadina affascinante agli occhi di estranei. Questa città prima era il mio rifugio, adesso è diventata il mio inferno.

Da ragazzina amavo venire su queste strade con i miei pattini a rotelle e divertirmi a fingermi una pattinatrice. Tornavo sempre a casa con le ginocchia sbucciate e i polsi graffiati. Mi divertivo, era la mia forma di divertimento mentre gli altri miei amici si divertivano con la Playstation e i giochi con la console. Poi è arrivato Tristan, inizialmente c'era stato molto imbarazzo fra di noi, le prime uscite erano sempre segnate dal continuo arrossire e le risate imbarazzante. Ma più uscivamo e più ci conoscevamo, più entrambi ci sentivamo al nostro agio. Abbiamo iniziato a trascorrere le giornate al parco a mangiare un sandwich, sporcando le nostre magliette di maionese. Le folle notti a tuffarci in mare, le battaglie con le bibite tornando a casa sempre bagnati ma felici. Eravamo felici. Io e Tristan abbiamo conosciuto una forma di pura felicità. Ci bastava stare insieme, era tutto quello che contava sapere.

Lui è stato il primo in assoluto. Il primo ragazzo di cui mi sono innamorata. A cui ho dato un bacio, un bacio vero, quelli da togliere il fiato e ti fanno sentire con i piedi staccati dal suolo. Il primo ragazzo dove mi sono rifugiata quando litigavo con i miei genitori o con mia sorella. Quante volte l'ho stretto a me quando c'era un temporale. Il primo ragazzo che ho detto ti amo e mi sono lasciata andare, alle sue infinite carezze e quei modi sempre gentili e rispettosi mi hanno sempre fatta sentire al sicuro, amata e rispettata. Non ha mai cercato di annullarmi come persona, ascoltava le mie idee e i miei progetti infiniti. Un'estate siamo andati al campo estivo, abbiamo fatto tutto fuorché le attività del campo. Io e Tristan insieme eravamo felice, una coppia di giovani innamorati che credeva che durasse una vita questa felicità. Ma così non è stato.

Con lui ero davvero in grado di essere me stessa senza alcuna riserva. Non serviva armi, protezioni o una muraglia difensiva. Lui mi conosceva meglio di chiunque altra e di questo, nel mio profondo, gli sarò sempre grata.

Mia madre non ha mai visto di buon occhio Tristan, semplicemente perché mi vedeva cambiata, o magari semplicemente non accettava il fatto che potessi essere felice anche senza di lei e senza le sue approvazioni su ragazzi che decideva di farmi uscire. Ma la felicità ha dei giorni contati e la mia e quella di Tristan è andata via, si è persa quella sera di agosto e, io non mi sono mai più sentita in quel modo, con nessuno.

La felicità insieme ad una persona ha solo un nome, la mia si chiamava Tristan. A Seattle mi sono concentrata su me stessa e sono diventata una donna indipendente. Non ho più voluto riporre la mia vita nelle mani di un'altra persona. Non ho più lasciato qualcuno entrare nel mio cuore come Tristan. Sono cambiata. Il cambiamento era inevitabile. Tutti a Seattle pensano che sia una donna forte, coraggiosa e fredda. Loro non sanno, nemmeno il mio dottore conosce la mia storia, o almeno nel profondo.

Nessuno riesce a spiegare da che cosa sono causate queste crisi, questi attacchi di panico. Lo so solo io, non ho bisogno della pietà di nessuno. Posso farcela da sola. Posso di nuovo imparare a sopravvivere. Troverò ancora un altro modo per farlo. Come ho fatto undici anni fa, posso farlo anche adesso. Nessun Tristan mi impedirà di tornare a casa, a Seattle e non permetto al mio passato di controllare nuovamente i miei sentimenti, la mia vita.

Il locale è grande ma abbastanza vuoto. Le luci del soffitto cambiano colore: luci neon che mi ricordano le discoteche della grande città. Tra il viola, rosso, blu, un bel gioco di colori. Scendo i pochi grandini che mi dividono dal bancone nero lucido, enorme, occupa tutto lo spazio. Ci sono degli sgabelli rossi lungo di esso e dei tavolini con i divanetti sparsi per tutto il locale. Il locale è moderno, credo che sia abbastanza nuovo. Non l'ho mai visto, l'ho trovato su Google.

Mi fiondo su uno degli sgabelli. Mi ricorda il locale di Lucifer in realtà. Ci sono delle belle esposizioni di vari alcolici sistemati su dell'asse in nero e uno specchio che riflette la parte davanti al bancone, ad esempio ora posso vedermi riflessa tra le bottiglie di alcol. Tra i ripiani ci sono delle lucine a neon rosse.

In sottofondo sento le note di Rain On Me di Lady Gaga e Ariana Grande. Non ascolto quasi mai questa canzone ma devo dire che è orecchiabile e per un locale del genere si abbina alla perfezione. Aspetto che si avvicini la barista che è intenta a versare della birra ad un uomo in fondo al bancone. Picchetto le mie dita su bancone e rido di me stessa perché il giorno del funerale di mio padre sono qui seduta ad un pub, anziché di essere insieme alla mia famiglia a piangere.

Semplice: non mi sento al sicuro e non ho quel senso di rifugio. Non posso restare in un posto dove non mi sento a casa e poi, dire addio a mio padre è la cosa più terribile che posso fare. Non sono pronta. Non lo sarò mai. Chissà se un giorno tornerò qui, chissà se avrò il coraggio di andarlo a trovare. Ma ora non voglio pensarci, voglio annullare tutti questi pensieri e tutto questo dolore.

Scuoto il capo. Basta pensarci, devo trovare un modo per liberare la mente da questi opprimenti pensieri che mi porteranno alla rovina. La barista finalmente mi raggiunge. Ha dei bellissimi capelli blu, abbastanza lunghi fino alle spalle. Gli occhi azzurri sono mercati dalla linea di eyeliner e dal mascara, credo che siano ciglia finte. Io non ho il coraggio di uscire truccata così.

«Cosa posso portarle?», mi chiede con tono gentile e quel sorriso sulle labbra per cortesia.

Guardo prima le bottiglie alle sue spalle e poi riposo gli occhi su di lei, sospirando. «Uhm...tequila», la indico con lo sguardo e lei ridacchia e si volta per prendere la bottiglia.

«Giornataccia?», chiede indicando i miei vestiti umidi. Finirò anche per bagnare lo sgabello.

Sbuffo e sospiro in contemporanea. «Diciamo che il tempo non è stato al mio favore», mi stringo nelle spalle mentre lei mi posiziona un piccolo bicchiere di vetro e versa il liquido trasparente dentro di esso. «lascia pure la bottiglia, mi servirà», le strizzo un occhio. Non dovrei ma sento l'urgenza di bere.

Annuisce con un gran sorriso. «Fuori piove, sembra che stia per venire una forte tempesta», ne prende un altro bicchiere. «so che non dovrei, ma in questi casi, un po' di compagnia fa sempre bene», ammicca e versa anche lei la tequila e batte il bicchiere contro il mio per una specie di brindisi. Entrambe ci guardiamo negli occhi mentre portiamo alle labbra il bicchiere e in un solo sorso, buttiamo giù il liquido.

«Wow», il liquido pizzica la gola e pulisco l'angolo della bocca con le dita.
«solitamente non bevo, ma oggi è una di quelle giornate in cui ho bisogno di staccare il cervello», ammetto. Non so nemmeno perché mi stia confidando, eppure dicono che parlare con gli sconosciuti sia molto meglio che farlo con le persone che conosci.

«Hai perfettamente ragione», poggia entrambi i gomiti sul bancone e mi guarda con lussuria. «io sono Blue», allunga la mano verso di me e solo ora vedo il suo tatuaggio sul polso. Una corona con scritto queen.

«Io sono Perrie», ricambio la stretta di mano e qualche secondo dopo riempio ancora il bicchiere. «è nuovo il locale?», chiedo guardandomi intorno.

Annuisce. «Sì, il mio capo l'ha rimesso a nuovo. La vecchia gestione di questa specie di ristorante rustico è fallita e sono quasi tre anni che c'è il bar Blackmoon». Non mi ricordo nemmeno di questo ristorante di cui mi sta parlando. Magari non ci sono mai venuta e non ho fatto mai caso. «e tu sei nuova in città?».

La guardo titubante. Non so che risponderle in verità. Mi sento sia un'estranea che una ragazza intrappolata nella sua vecchia città. «Diciamo di sì», bevo ancora. Sto bene. L'alcol ancora non sta facendo effetto. «mi porteresti una ciotola piena di arachidi?», è uno dei pochi cibi salati di cui vado matta.

«Certo, fa sempre bene mangiare mentre si beve», indica il bicchiere ancora vuoto e si abbassa per prendere qualcosa. «quindi Perrie tu da dove vieni in realtà?».

«Sono nata qui in realtà ma adesso vivo a Seattle», ne vado fiera perché è l'unica cosa positiva che ho fatto negli ultimi undici anni.

La sento fischiare e poi si alza con grande entusiasmo. «Seattle? Wow ci sono stata una volta da piccola con la mia famiglia, spettacolare», annuisco alla conferma delle sue parole. «hai fatto bene ad andartene. Qui non c'è più niente. Siamo sempre gli stessi, a parte il periodo estivo che riusciamo a vedere nuove persone». Tremo alle sue parole. Ormai tutti si sono fatti questa idea: sono andata via di casa alla ricerca di nuove opportunità, volendo fare una vita in città.

Annuisco. Le lascio credere questo perché nessuno sa la verità e mi va bene così. Mi va bene anche che mia madre abbia inventato una scusa per giustificare la mia assenza. «La differenza di vivere lì c'è e non ti nego che sia più complicato arrivare a fine mese con qualcosa messo da parte. Cerco sempre di stare attenta», Jenny la mia coinquilina dice che sono troppo tirchia e mi devo rilassare. «ma ovviamente, posso concedermi degli sfizi, come adesso», riempio ancora il bicchiere. In realtà anche il mio conto sta piangendo.

«Ehi vacci piano, americana», mi prende in giro. «qualcuno ha bisogno di distrarsi, eh?», inarca un sopracciglio e sbatte la lingua sul palato col fare malizioso.

«Non c'è niente di male a concedersi qualche sfizio», ammicco sfacciata ricambiando il suo sguardo. Non ho mai ammiccato con una ragazza in verità e la cosa non mi dispiace affatto. «o mi sbaglio?», mi mordicchio il labbro inferiore.

La sento ridacchiare. «Nessuno dice il contrario». Strizza un occhio maliziosamente. «come mai chiusa in un pub?».

Sbuffo e alzo le spalle. «La voglia di fare qualcosa è pari a zero», ed è vero. Dopo il funerale si ritroveranno di nuovo tutti a casa e io non voglio stare chiusa in salotto ad ascoltare gli aneddoti della mia famiglia. Scivolo fuori dallo sgabello e sento le mie gambe più pesanti del solito. «mi sento come se non dormissi da anni», sento il mio corpo così rigido.

«Perché non torni a casa e ti fai una lunga doccia?». Incredibile come una persona che conosci da due minuti sembra preoccuparsi per te.

Casa. Non ho più una casa in realtà. Se la stanza del motel è da considerare casa allora si, posso dire di tornare a casa.

«Non ho voglia», prendo la bottiglia e il bicchiere e mi dirigo verso i divanetti. «ci sarà mia madre che mi farà i suoi lunghi discorsi sulla vita e su come mi dovrei comportare, che noia», roteo gli occhi e scivolo sul divanetto e noto che alcune persone presenti nel pub, si girano a guardarmi. Li ignoro. «dovresti conoscere mia madre. Non approverebbe affatto quelli», rido divertita indicando i suoi capelli colorati.

La vedo toccarsi i capelli e scrolla le spalle. «Beh neanche mia madre li ha approvati», la vedo uscire dal bancone e mi raggiunge poco dopo. «ma ho quasi ventisei anni, posso decidere io di che colore posso avere di capelli?».

«Certo che sì» confermo il suo pensiero di indipendenza. «io alla tua età, ero già fuori casa. Prima di trasferirmi definitivamente a Seattle, sono andata in in giro. Per sei mesi sono stata a Kirkland e l'altra metà dell'anno a Newporte infine l'anno dopo ho trovato lavoro a Seattle». Credo di essere stata fortunata in quell'occasione ad essere riuscita a trovare impiego a Seattle, anche se devo dire che a Melbourne mi trovavo bene anche se il mio coinquilino era un po' strano.

«E perché adesso sei qui?», mette un ginocchio sopra all'altro. La guardo con incertezza. Non la conosco, non posso raccontare tutto della mia vita. Bevo un altro bicchiere di tequila mente cerco di trovare una scusa per giustificare il mio ritorno, anche se dire la verità non credo che sia la cosa più sconvolgente della mia vita.

«Sono...qui per il funerale di mio padre e non voglio stare a casa dei...di mia madre», mi correggo immediatamente e la vedo guardarmi con tristezza e la sua mano si posa sulla mia spalla, forse per conforto.

«Mi dispiace per la tua perdita», il suo tono di voce si è abbassato e riesco a percepire la malinconia e tristezza nel tono di voce.

«Sì grazie» dico di fretta quasi senza importanza. «è difficile gestire il tutto, beh anche perché mia madre ha uno strano modo per elaborare il lutto, ma capisco che siamo tutti diversi e ci sta», il che non giustifica il suo comportamento. Non capisco perché si ostina a continuare a comportarsi come se provasse vergogna nel mostrare i suoi sentimenti. Perché si ostina ad essere una donna perfetta, una madre perfetta e una moglie devota. Mia sorella poi è la sua creazione perfetta. L'ha plasmata al suo piacimento, a sua perfetta somiglianza. Detesto quel modo così perfetto e privo di autenticità. Non perché siamo una famiglia benestante significa che dobbiamo essere perfetti, sia dentro casa che fuori.

«Ognuno affronta il lutto nella maniera più opportuna che sente di fare» la guardo con attenzione catturata dalle sue parole. «quando è morto mio fratello avevo solo otto anni. Era più grande di me di tre anni ed eravamo inseparabili. A quest'ora avrebbe avuto ventinove anni e un futuro», abbassa lo sguardo, per non farmi vedere i suoi occhi ma il suo dolore lo sento dalla sua voce spezzata. Ansimo silenziosamente senza parlare. «ho trascorso un intero anno con la dottoressa di famiglia e ai sedici anni mi sono ritrovata ad andare dal psicologo per gli attacchi di panico. Non avevo superato la morte di Jace» vedo le sue mani stringere il tessuto dei suoi pantaloni neri e larghi. «Jace era la mia vita. Andavo in camera sua quando i miei litigavano o quando toccava essere rimproverata e ritrovarsi da un giorno all'altro senza quel riparo, il tuo punto di riferimento è davvero dura e difficile. Ad oggi ho accettato la sua morte, credo che adesso sia finalmente felice di non soffrire più ma ci sono giorni, come i tuoi, che ho bisogno di stare sola e piangere».

Le sue parole mi toccavano l'anima. Non so cosa significa perdere un fratello ma so cosa significa perdere una persona importante, ovvero: mio padre. Non so cosa dirle, mi sento in colpa per averle fatto tirare fuori delle cose personali, private e dolorose. Forse non avrei dovuto spingermi così tanto, ma l'alcol non mi ha fatto pensare, la mia bocca si è mossa prima del mio cervello.

«Mi dispiace tanto, Blue», poso timidamente la mia mano sopra la sua e lei sussulta ma non si scansa. «mio padre rappresentava tutto quello che Jace rappresentava per te e sono falsa se ti direi che non mi sento in colpa. Me ne sono andata e non sono più tornata a casa, non ho avuto tempo di salutarlo e di trascorrere dei momenti con lui» sento i miei occhi pizzicare e di nuovo la sensazione di vacillare prendere controllo del mio corpo e della mia mente. «non sapevo nemmeno che mio padre fosse malato, a saperlo, non aspettavo undici anni per tornare», o forse sì ma questo non lo potrò mai sapere perché non mi è stata concessa la possibilità di scelta.

«Sono sicura che tuo padre non ti ha odiato per essere andata via perché avrai avuto i tuoi motivi per farlo» copre la sua mano con la mia. La guardo con sorpresa, avevo bisogno di sentirmi dire queste parole da un'altra persona, ma sentirselo dire da una sconosciuta, è davvero triste. «siamo simili per certi versi, anche se sono più piccola di te».

Annuisco con un mezzo sorriso sulle labbra. «Ma se già matura per la tua età. Conosco ragazze della tua età che pensano ancora alla bella vita, ma è normale. Sono giovani», prendo velocemente un altro bicchiere di tequila. «mi dispiace se la finirò», rido di gusto prendendo la bottiglia quasi vuota di tequila e dopo averla bevuta, sento la mia testa iniziare a diventare pesante e mi sento come se la stanza stesse girando intorno a me. «ora basta con le lacrime, le cattive parole e i brutti pensieri», scatto in piedi traballante e mi dirigo verso la piccola pista con il pavimento a scacchiera viola e nero. «alza il volume. Sono anni che non mi concedo del puro divertimento», rido e quando Blue alza il volume della musica, il mio corpo oscilla da un lato verso l'altro e giro su me stessa, ridendo mentre sento l'alcol scorrere nelle vene a potenza mille e arrivare su per il cervello, facendomi sentire fuori dal mondo reale e mi sento improvvisamente leggera come se stessi nello spazio con gravità zero.

Bevo direttamente dalla bottiglia. Tu, non mi entrerai nella testa. Dico a me stessa pensando a Tristan. È colpa sua se sono qui. È colpa sua se sono scappata di casa. Ti odio. Quella frase mi provoca un brivido lungo la schiena fino a fermarsi ai lombi dei miei piedi. Mentre ballo noto dei ragazzi unirsi a me in pista, ma non me ne curo.

«Questo è decisamente forte ragazza», urlo euforica nella direzione di Blue che è tornata alla sua postazione e beve qualcosa da un bicchiere più grande del mio. La bottiglia è ormai vuota, la metto su un tavolo a casa e sciolgo i miei capelli ancora umidi e li alzo per poi farli scendere sulle mie spalle e faccio scorrere le mani lungo i fianchi.

Se è questa vita, lasciatemi vivere per sempre così.

Spazio autrice.

E bene sì!! Avevo ispirazione per questa storia e ho buttato giù il capitolo in automatico. Spero di essere riuscita a trasmettere le emozioni di Perrie e il suo disagio. Cercherò di continuare a farlo nei capitoli successivi.

Mi scuso per eventuali errori, correggerò tutto, promesso. ❤️❤️❤️

Cosa ne pensate di Perrie? Un breve ma spiacevole incontro l'ha distrutta ancora una volta. Sono così triste per lei.

A breve un altro capitolo.
Baci.
Xxsusy

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro