EPILOGO secondo volume

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EPILOGO Secondo volume

Infilo le chiavi nella serratura, giro due volte e spingo la porta entrando nell'appartamento.
Stanca, alzo una mano a sinistra cliccando sull'interruttore. Le luci del soggiorno dov'è inclusa la piccola cucina e la sala da pranzo si accendono, illuminando lo spazio.
Tolgo le scarpe, le trascino con i piedi vicino il mobiletto accanto all'ingresso e chiudo la porta alle mie spalle.

Mi indirizzo verso il frigorifero, lasciando sopra il mazzo di chiavi, prendo dal frizzer una pizza surgelata che metto nel microonde e vado in bagno.
Tolgo i vestiti, mi metto sotto il getto d'acqua e dopo aver finito di lavarmi mi avvolgo in un asciugamano blu ed esco, tornando al forno da cui tiro fuori la pizza riscaldata che butto sul tavolo.

Raggiungo la credenza, rovistando tra tutte le bottiglie di vino vuote che mi dimentico sempre di buttare via e finalmente trovo quella con ancora qualche goccio dentro. Prendo un bicchiere dal scola piatti accanto al lavabo della cucina e ne verso giusto un calice.

Prendo posto al tavolo quadrato, osservo la pizza e il vino, do un'occhiata fuori dalla finestra proprio accanto e prendo un bel respiro.

«Tanti auguri, Ronnie...» dico a me stessa alzando il calice in aria e ne bevo un sorso.

Afferro un pezzo, me lo ficco in bocca e mastico silenziosamente.
I capelli umidi, gli occhi stanchi che non vedono l'ora di chiudersi definitamente.
Almeno se vado a dormire voglio farlo da ubriaca, mi addormento più rapidamente e la testa non prende a viaggiare in posti che non voglio rivivere affatto.

Ho vent'anni.
Non so nemmeno quand'è passato il tempo. Pare solo ieri il giorno in cui sono arrivata a San Francisco per studiare.
Una Ronnie entusiasta, elettrizzata all'idea di uscire finalmente dalla sua piccola cittadella sperduta in mezzo al Texas, dal ranch di famiglia, che non vedeva l'ora di sperimentare la vita urbana, il chiasso, il caos, il via vai delle persone.

In silenzio raccolgo il cellulare dal tavolo vicino alla pizza, apro Spotify e metto play su '74 - '75 di The Connells.
I versi iniziano a disperdersi rapidamente nella stanza, quindi addento la pizza e per distrarmi apro Instagram.

Scorro svogliatamente il feed delle notizie. Non c'è niente di interessante.
Mando giù il boccone e prendo il calice. Ne bevo un altro po' mentre il mio istinto mi guida la mano, le dita iniziano a digitare sulla barra di ricerca e finisco sul suo account.
Resto a fissarlo senza fare altro.

So bene che non dovrei, che è parte del passato ormai, ma a volte la malinconia sale a tal punto che non riesco a controllarmi. E mi fa male, mi faccio male da sola, con le mie stesse mani.

Guardo la foto profilo.
Con un berretto in testa, guarda di lato verso il cielo azzurro col sole che sta tramontando mentre il vento dell'oceano gli scompiglia i capelli, coprendogli gli occhi.
Un tipico scatto nel suo stile. Non ha mai provato a mettersi in mostra su Instagram.
Col dito scorro in basso e riguardo... non so nemmeno il numero esatto... i post pubblicati.
Tutte foto che ormai so a memoria, potrei descriverle una ad una ad occhi chiusi tanto le ho impresse nella retina.

Solo una.
Una sola cattura la mia attenzione.
Uno vecchio scatto: una ragazza, lunghi capelli marroni e scompigliati che dorme nel suo grembo. Il viso schiacciato sul cuscino che ha sulle cosce e il naso nascosto nella sua felpa.
Non l'ha mai rimossa dal suo profilo. Avrebbe potuto, ma l'ha lasciata lì senza eliminarla e questo fa solo ancora più male perché racconta di una storia in cui c'eravamo solo noi due sin dall'inizio.
Una storia che raccontava solo di noi due, ma troppo tardi ci siamo resi conto di esserne i protagonisti principali.

Spengo il cellulare.
Mando giù tutto d'un fiato il vino e mi alzo in piedi lasciando perdere la pizza, tanto non ho per niente fame ma bere a stomaco completamente vuoto mi farebbe di nuovo passare tutta la nottata piegata sul cesso a vomitare anche l'anima.
Raggiungo l'armadio con tutti i vestiti ammucchiati malamente dentro, ne tiro qualcuno fuori, qualche altro cade per terra.
Mi infilo lentamente un paio di jeans larghi, un crop top, la felpa a zip e le scarpe. Prendo il cellulare, le chiavi di casa ed esco nel pianerottolo.

Devo andare a comprare una bottiglia di qualcosa di forte, forse rum o forse whisky, devo ancora decidere in base al prezzo sugli scaffali.
Non appena fuori, nell'atmosfera serale di San Francisco, do un'occhiata alle vetrate accanto, l'insegna Pink Ocean rosa e blu illuminata, il locale ormai chiuso.

Tiro su il cappuccio, copro i capelli ancora un po' umidi e con le mani nelle tasche della felpa che mi è rimasta da lui, dopo quella vecchia e ormai remota serata in spiaggia, cerco di inebriarmi del suo profumo che ormai non si sente più dopo tutte le lavatrici che ha dovuto fare. Ma non fa niente. Mi basta solo sapere che questa felpa era sua.

***

Mi sveglio di soprassalto. La luce è talmente forte che infilo la faccia tra i cuscini pur di pararmi. Mugugno qualcosa di indecifrabile, mi muovo, tiro su la coperta che profuma di lavanda e mi copro fin sopra la testa cercando di tornare a dormire ma è pressoché impossibile. La testa mi sta scoppiando.

Cazzo. Devo prendere un'aspirina. Subito.
Nessun muscolo del corpo però si muove. Ancora cinque minuti e magari il mal di testa scompare da solo se provo a riaddormentarmi. Aspetto ancora cinque minuti...

Lavanda.
Una sola parola che mi lascia confusa di punto in bianco, ancor peggio di quanto io non lo sia già per via della post sbornia.
Lavanda.

Perché sento odore di lavanda?
Schiudo gli occhi facendomi forza e li strizzo più e più volte nel tentativo di tenerli aperti almeno per un po'. Le pupille finiscono sulla coperta che ho in testa e il suo profumo che mi asfissia quanto è prepotente, sembra appena uscito dalla lavatrice.
Quello a lasciarmi ancora più confusa è il colore: bianco.
Ma che...
Io non ho una coperta bianca, ne ho solo due che cambio quando l'odore di tabacco misto a sudore le rende impossibile da usare.

Con un movimento lento me la tolgo via e la luce proveniente dalla finestra mi acceca tanto con violenza che una fitta di dolore mi attraversa il cervello da parte a parte. Cazzo.

Gli occhi finiscono sulla parete: bianca.
Pianto le mani contro il materasso e do un'occhiata al letto. La fronte mi si aggrotta d'istinto.
Il mio è un letto singolo quindi perché questo è matrimoniale?
Mi guardo in giro confusa.
Una scrivania in vetro, sedia girevole in pelle nera, una piccola biblioteca attaccata alla parete. A sinistra un armadio senza ante con alcuni vestiti ripiegati su se stessi perfettamente e messi tutti in base ai loro colori. Giro il viso a destra, verso la finestra coperta dalle tende bianche. Una poltrona, accanto un tavolino, sopra di esso una tazza, un libro e una pianta grassa posta al centro.

Con un gesto secco, mi tolgo la coperta di dosso, mi sporgo verso il bordo del letto e metto i piedi sul parquet di legno bianco.
I miei piedi sono nudi. Dove sono finiti i miei calzini e le scarpe da ginnastica?
È la prima domanda che mi faccio, la seconda è "Che diavolo sto indossando?" non appena mi tiro in piedi e finisco di lato allo specchio incollato alla parete accanto a cui c'è l'armadio.

Mi guardo.
Capelli corti e spettinati, occhi rossi e stanchi, occhiaie e labbra gonfie.
Afferro con una mano la maglietta bianca che indosso e la tiro leggermente in avanti. Che taglia è? Triplo XXL?
Su di me, sembra un vestito a momenti.

Un rumore dalla stanza oltre quella da letto mi fa alzare di scatto il viso. Avanzo silenziosamente e finisco in quello che pare un grande soggiorno, in fondo una cucina con tanto di isola. Un arredo molto minimal, bianco, luminoso, con divano in pelle, altre poltrone, piante verdi e un profumo di caffè che arriva da lontano.

Ma dove cazzo sono?

Qualcuno appare nella visuale. Arriva da una stanza che dovrebbe essere adiacente a quella del dormitorio, avanza verso la cucina, e in tutta tranquillità ferma la macchinetta del caffè a chicchi, stacca la borraccia, afferra una tazza accanto e ne versa un po', mettendoci due zollette di zucchero.

Capelli corti e marroni, spalle larghe e fasciate da una maglietta nera, pantaloni da pigiama blu scuro.
I muscoli delle spalle si dilatano quando solleva le mani e si porta la tazza alla bocca prendendone un sorso.
Poi si gira e i miei occhi finiscono nei suoi.

E ora chi cazzo è questo?

«Ah, ti sei svegliata...» dice con un mezzo sorriso. Indica la borraccia. «Caffè?»

Inebetita, col l'emicrania che mi sta facendo scoppiare a momenti la testa e confusa, lo fisso del tutto ammutolita.
I suoi occhi azzurri fanno altrettanto. Alla fine, senza aspettare una mia risposta, si volta verso la credenza alle sue spalle, tira fuori un'altra tazza e ripete tutto il procedimento. La poggia sul bancone dell'isola e me la indica col palmo della mano allontandosi e andando ad appoggiarsi contro il mobile posto sotto da dove ha preso la tazza.

«Tu chi cazzo sei?»
Finalmente parlo e la voce mi esce tremendamente flebile e impastata dal sonno e dalla spossatezza.
«E dove sono?» aggiungo lanciando occhiate dubbiose in giro. Poi afferro la maglietta che ho indosso. «E dove diavolo sono i miei vestiti?»

Lui si muove, fa per venire in mia direzione ma indietreggio di scatto e gli punto un dito contro. «Se ti avvicini ti stacco via la testa dal collo!» minaccio e con la coda dell'occhio scorgo una piccola statuetta in ceramica su un tavolino posto accanto alla porta della stanza da letto. La afferro di scatto e la alzo in aria.
«Non ti avvicinare» sibilo a denti stretti.

Lui mi guarda sbigottito per qualche istante, poi si limita solo ad appoggiare la tazza sul banco da cucina, alza le mani in aria in segno di resa e le lascia ricadere lungo i fianchi. Mi fissa per alcuni attimi.
«Me la vuoi lanciare contro?»

Aggrotto la fronte.
«Che?»
Indica con un dito la statuetta sulla quale fugge il mio sguardo per un solo istante e la guardo meglio. Un cavallo alzato in due zampe con la coda al vento.
Solo dopo riesco finalmente a metabolizzare la sua domanda. I miei neuroni vanno troppo lentamente.
Punto gli occhi su di lui.
«Sì.»

In tutta risposta si mette di spalle all'isola, porta le braccia conserte e mi alza leggermente gli angoli della bocca.
«Avanti» fa e io resto di stucco.
«Cosa?»
«Avanti. Voglio vedere se hai una buona mira» mi invita senza la minima preoccupazione che invece possa lanciargliela direttamente in fronte.

«Ma che cazzo stai dicendo?» chiedo quindi stranita dal suo comportamento fuori dal normale.
«Se vuoi provare a colpirmi, fallo. Ma io ti consiglierei di evitarlo. Quella» mi indica con un dito la statuetta. «È del proprietario dell'appartamento e non ho idea di quanto valga e considerando in fatto che sono qui in subaffitto vorrei evitare di andarmene lasciando in giro cattive voci su di me del tipo che distruggo la proprietà degli altri. Mi ci è voluto parecchio per trovare questo posto e ho promesso che non avrei arrecato nessun danno. Ma se vuoi colpirmi, almeno usa qualcos'altro.»

Ma che problemi ha questo tizio? È fuori di testa... cazzo, sono finita a casa di un tizio fuori di testa. Chissà che cazzo mi avrà fatto, perché non mi ricordo niente di ieri sera. Merda. Merda. Merda.

«Ecco!» mi dice e indica la racchetta di tennis accanto al comodino da cui ho preso la statuetta. «Puoi usare quella, è mia quindi se la distruggi non è un problema, ne posso comprare un'altra.»
Con la statuetta ancora alzata a mezz'aria I miei occhi saettano dalla racchetta a lui e viceversa.
«Ma se la lanci da quella distanza è più probabile che tu possa sbagliare la traiettoria perché credo che si girerebbe su se stessa tipo un boomerang» aggiunge ancora.

«Dove diavolo sono e cosa mi hai fatto? Giuro che chiamo la polizia e ti faccio arrestare, lurido pervertito. Mi hai portata in mezzo a una foresta? Vuoi violentarmi o l'hai già fatto?» chiedo a raffica, una domanda dietro l'altra.
Lui aggrotta le sopracciglia e inclina di poco la testa, lasciandomi una lunga occhiata poi si gira verso la finestra.
«Quello ti pare una foresta? Io non vedo alberi.»

Seguo il suo sguardo e do un'occhiata all'esterno, almeno tra lo spazio non coperto dalle tende grigio chiare.
Edifici. San Francisco.
Tiro un sospiro di sollievo immediatamente.

«Tu vedi alberi?»
Ripongo di scatto gli occhi su di lui.
«Tu chi diavolo sei?» chiedo di nuovo, scrutandolo. Ha un aspetto vagamente famigliare ma sono troppo stordita per mettere insieme i pezzi.
«In genere dicono che ho una faccia che rimane molto facilmente impressa nella memoria...» commenta e torna a bere il suo caffè.
«Sarà per i miei occhi... non so» fa con aria vaga, sovrappensiero.
«Che?»
Annuisce. Lascia perdere la tazza, si poggia di spalle al banco, mette le mani sulla superficie e i miei occhi finisco sulle sue braccia, sui suoi muscoli. Merda.

«Veronica Francesca Kyle» dice d'un tratto e io rabbrividisco di colpo. Il respiro mi viene a mancare.
«Bel nome» commenta da solo mentre io lo fisso ammutolita sperando che davanti a me non abbia un maniaco stalker o roba del genere. Al Pink Ocean arriva tanta gente, quindi magari potrebbe tranquillamente metterci piede anche uno psicopatico.

«Dovresti prendere una decisione, che dici?» domanda e indica la statuetta ancora nella mia mano, adesso lasciata lungo il fianco.
«O mi colpisci o ti avvicini e bevi un po' di caffè. Sono molto bravo a farlo, sai? Il segreto è miscelare i chicchi, non usarne solo un tipo. Trentacinque percento di varietà Robusta, sessantacinque percento di Arabica

Questo è matto.

«Mio padre è poliziotto quindi ora mi dici come fai a sapere il mio nome completo, come sono finita qui, chi sei e dove cazzo sono finiti i miei vestiti. Se mi hai sfiorato solo con un dito, giuro che ti faccio sbattere in prigione a vita» sibilo d'improvviso alzando la statuetta in sua direzione.
«Tuo padre è poliziotto?» solleva lui le sopracciglia, sembra stupito.
«Beh...» fa con aria pensierosa. «Per toglierti i vestiti ho dovuto purtroppo sfiorarti e non solo... tipo anche usare le mani» muove la dita di una mano.
Sbarro gli occhi e trattengo il respiro.
«L'alternativa sarebbe stata quella di lasciarti con la felpa e i jeans ricoperti di vomito.»

Corruccio improvvisamente la fronte.
Ma che dice questo tizio?
«Prima di farmi arrestare da tuo padre, vuoi mollare quella statuetta? Ti vedo ancora mezza...» fa un gesto con la mano pensandoci su «confusa» dice, «e potresti farla cadere per terra. Puoi farmi questo favore?»
Lo fisso in silenzio e alla fine, lentamente, ripongo la statuetta al suo posto.
Torno con gli occhi su di lui.

«Ti ringrazio, Veronica. Molto gentile» mi sorride a labbra chiuse e riapre bocca indicandosi col palmo della mano.
«Io sono Nicholas Bailey Reed, sono di Richmond, Virginia, ma ho vissuto a Baltimora fino ai diciotto anni, poi ho iniziato l'accademia militare e sono finito a Washington DC per qualche anno.»

Ma che cazzo...

«E dalla tua carta di identità ho letto che sei del Texas. Molto carino... ci sono stato una volta, ho un compagno di squadra che viene da Dallas» dice poggiandosi sullo sgabello all'isola della cucina. Un ginocchio piegato, le braccia conserte che evidenziano i suoi muscoli ancora di più.

«Oh, quasi dimenticavo... tanti auguri» alza un angolo della bocca.

***

Angolo autrice
Bene. Adesso le cose si fanno interessanti :3

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