25 | Tre mesi

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CAPITOLO 25
Tre mesi


La lezione finisce. È orario di pranzo, ho fame e sono incazzata. No, non c'entra Logan o qualunque altra cosa che lo riguardi, nemmeno la sua perfetta e dolce Sirenetta, no, io ho le mestruazioni e i miei ormoni sono talmente sballati che sono in grado di spaccare qualcosa se qualcuno osa rivolgermi anche solo una sillaba.

A passo felpato e con l'emicrania raggiungo il parcheggio dell'università, vado alla mia moto e salgo in sella pronta per andare a mangiare tanti churros alla Nutella in quel posto molto carino a qualche chilometro non tanto lontano da qui.

«Che ne dici se ti offro il pranzo?»

Rimango col casco fra le mani, a mezz'aria.
Alzo il viso stranita e punto lo sguardo a destra, sulla terza fila di macchine parcheggiate. A una decina di metri, appoggiato a una berlina nera, vernice opaca e due strisce rosse che attraversano di mezzo il cofano c'è l'ultima persona che avrei mai immaginato di vedere qui e soprattutto di nuovo. Inutile dire che resto a fissarlo imbambolata per diversi istanti finché non si stacca e mi si avvicina a passo lento, sicuro, felino.

Capelli biondi, occhi azzurri tendenti al verde e interamente vestito nel suo completino nero come la scorsa volta. Jay.
Alza gli angoli della bocca mentre sul suo viso si crea un'espressione vagamente soddisfatta, forse per il mio silenzio tombale.

La verità è che... sono tutto tranne che sull'attenti. Oggi non è per niente giornata e le uniche cose che voglio fare sono mangiare e poi poltrire sul divano finché non inizia il mio turno serale al Pink Ocean. La presenza di Jay mi ha fermato ogni singolo neurone perché lui non dovrebbe affatto essere qui. I brividi mi attraversano la carne dolorante per via delle mestruazioni ma riesco a contenere il livello di inquietudine che tutto ciò mi sta infondendo.

«Hai ripreso a studiare per crearti un posto nel mondo?» sdrammatizzo spostando gli occhi alle sue spalle, controllando al volo la situazione del parcheggio. Ci sono solo due persone, per il resto la zona è deserta. Meglio. Così potrò staccare le palle a questo maniaco senza avere troppi testimoni in giro.

Jay accena una mezza risata.
«Te lo fai offrire questo pranzo oppure stai pensando a quando scendere dalla moto e spezzarmi le gambe?» chiede ficcando le sue iridi chiare nelle mie con un che di sfida che per i miei estrogeni impazziti per un solo e breve istante trovo eccitante.
Merda, che schifo. Mi do una sberla mentale.

«Lo farai prima o dopo che quelle due persone se ne andranno via?»

Ma come...
La sua deduzione mi lascia con uno stupore in viso che deve essere più che evidente perché Jay pare divertito. Strafottente, mi affianca e si gira proprio in direzione dei due studenti, ognuno che sale nella propria auto. Si appoggia alla mia moto, a meno di due centimetri dalla mia spalla e porta le braccia conserte.

«Perché giri con un teaser in borsa?» sussurra chinando la testa verso di me.
Lo guardo di striscio reprimendo una smorfia per via dell'acqua di Colonia che si è spruzzato addosso e che mi ostruisce le vie respiratorie.

«Vuoi provarlo?» chiedo alzando un angolo della bocca.
Lui si passa la lingua sul labbro inferiore.
«È una pratica sessuale che generalmente gradisci col tuo fidanzato?» abbassa gli occhi sulla mia mano, sull'anello che porto all'anulare sinistro.
Va bene, ora gli stacco via la testa dal collo.

«Potresti allontanarti per cortesia? Non ti ho dato il permesso di stare qui» dico e attendo che si levi via dalla mia fottutissima moto.
Jay non se lo fa ripetere due volte, il che è strano, ma si stacca e questo mi basta. Non ho bisogno di altro.

«Come hai fatto a trovarmi?» gli porgo la domanda più sensata da fare.
Lui fa una faccia pensierosa.
«Ti rispondo se scendi e vieni con me a pranzo.»

Inevitabilmente lo guardo come un pesce lesso. Questo qui ha una rotella fuori posto.
«Che ne dici, invece, se mi rispondi adesso, subito e proprio qui?» indico l'asfalto che ci separa.

«Dico di no.»

Lo fisso per istanti indefiniti finché non tiro un profondo respiro, scendo dalla moto e mi piazzo davanti a lui.
Alzo il mento, ficcando le pupille nelle sue e lui non batte minimamente ciglio come se non gli facesse alcun timore di essere preso a calci da qualcuno, perché sta per capitare fra non poco.

«A pranzo» ripeto con aria assorta. Lui annuisce.
«A pranzo.»
Abbasso gli occhi per un momento e faccio un altro passo verso di lui, rialzando di getto gli occhi nei suoi. Mi spiego in un piccolo sorriso a labbra chiuse.
«Sparisci. Ora» ordino in un sibilo per niente in vena di queste stupidaggini, e indietreggio pronta per risalire sulla moto.

«Tua madre o tuo padre?»
Aggrotto la fronte.
«Come?» mi giro lentamente.
Lui si avvicina di un passo.
«Chi hai perso? Tua madre o tuo padre?»

Resto a fissarlo in silenzio mentre il sangue mi si gela nelle vene.

«Entrambi...» mormora stupito e quella che ora vuole sparire sono io, in fretta e furia da qualunque cosa stia succedendo perché i brividi mi attraversano ogni centimetro di carne. Non so come lo fa, ma è bravo, è bravo in un modo terrificante a leggermi.

«Deve essere stato molto doloroso» commenta scrutandomi. Il battito del cuore mi aumenta di getto. «Lo è stato» si corregge dopo nemmeno qualche secondo.
Serro i denti scacciando l'immagine di mia madre che ho marchiata a fuoco nella memoria: lei, il letto d'ospedale, io che cerco di rianimarla.
E poi mio padre. Mio padre che si è rifatto una vita, in una città nuova, con una donna nuova e con un figlio nuovo.

«E lo è tutt'ora» aggiunge con un debole sorriso che mi annienta ogni grammo di sicurezza.
«Vediamo se riesco a indovinare... di solito sono molto bravo» fa teatralmente e ficca di più quelle sue iridi chiare fin dentro la mia anima.

«Hai un accento diverso da quello californiano, quindi non sei di qui.... Kansas?» chiede riducendo gli occhi in due fessure. «New Mexico? No... sei più del nord, ma non tanto nord, non Oklahoma... Texas?» i suoi occhi si illuminano di colpo. Forse è per colpa mia, il cuore che mi è sussultato con violenza nel petto quando ha pronunciato casa mia.

«Texas. Questo spiega il tuo atteggiamento strafottente, quella sensazione di onnipotenza perché voi vi fate giustizia da soli quando serve, quando qualcuno parla troppo, osa guardarvi male, quando oltrepassa il limite della vostra proprietà... ma tu non sei una ragazza di città. Guardi i ragazzi con sufficienza e critichi le ragazze che si mettono in tiro... tu» si avvicina ancora e mi punta un dito sullo sterno. «Sei figlia unica, — sbianco pericolosamente — la tua infanzia è stata talmente difficile che hai dovuto maturare più rapidamente dei tuoi coetanei e ti sei persa tanti momenti, per questo sei così cinica e scontrosa, perché detesti chi è felice come se tutto gli fosse dovuto. Per questo non rimani impressionata. Per questo tu credi di poter fare tutto. Nessuno ti controlla, ti dà ordini, non ti servono gli amici. Se ci sono va bene, altrimenti è indifferente. Loro non potrebbero ugualmente capire quello che tu hai vissuto. Sei orgogliosa, elusiva, e soffri perché tu vuoi essere amata proprio così come sei ma ogni volta che ti lasci andare gli altri ti feriscono e in un modo o nell'altro qualcosa qui» picchietta il mio petto, «si rompe anche se pensavi che non ci fosse più niente in grado di rompersi.»

In piedi, davanti a lui, sono talmente stordita che le corde vocali mi si sono sigillate.

Jay sorride tutto d'un tratto.
«Ora vieni a pranzo con me?»

Sposto per un istante gli occhi altrove, in fondo alle macchine parcheggiate e scorgo Logan. Sta guardando in questa direzione. Di infila il casco e sfreccia via dal parcheggio in sella alla sua moto senza avvicinarsi come invece pensavo avrebbe fatto.

«No.»
Rispondo a monosillabo tornando da Jay.
Questo tizio ha qualcosa di estremamente sbagliato in lui, non so che diavolo si ma io voglio solo prendere tantissime distanze e non rivederlo mai più in vita mia.

L'ho incontrato a una festa strana frequentata da Kieran, non mi sorprende che lui si trovasse lì. E adesso il mio istinto di autoconservazione mi sta urlando a squarciagola di darmela a gambe levate perché Jay non è un figlio di papà che naviga nei soldi com'è Kieran. Lui è diverso e non voglio scoprire in che modo.

La macchina che ha è costosa, quello che veste è costoso e nei suoi occhi leggo un che di predatorio che sta cacciando qualcosa. Me. Sono il suo prossimo pasto.

«Ti stai chiedendo chi io sia.»
Osserva svegliandomi di getto. E la sua ennesima deduzione è spaventosa.

«E perché mi stai tra i piedi» dico e provo a raccogliere il mio coraggio che si è dissolto a terra, in un mucchio di polvere proprio accanto le mie scarpe da ginnastica.

Jay caccia un cenno di risata e alza le mani in segno di resa.
«Non ho cattive intenzioni, te lo posso assicurare.»
Le sue rassicurazioni sono tutto tranne che rassicuranti.

«Mi hai seguita? Se si, da quando?» cerco di reggere il confronto. Era lui quindi il tizio che mi fissava quella sera davanti al Pink Ocean, quello appoggiato al palo della luce. Deve essere lui oppure un suo strano amico. Lo guardo meglio.
Ha una corporatura che va abbastanza vicina ad occhio a quella di quel tizio.

«Non sei così speciale» sorride con una smorfia e torna a braccia conserte. Lo dice come se fosse vero. Se non mi ritiene a detta sua speciale, non avrebbe senso fissarmi come un maniaco da lontano, appoggio a un palo della luce. «Non ancora, per questo ero curioso di sapere

Corruccio inevitabilmente la fronte.
Sapere cosa?

«E mi hai dato gran parte delle risposte» aggiunge rifilandomi un'occhiata dalla testa ai piedi. Parla del modo in cui ha raccontato letteralmente la mia vita senza averne mai fatto parte?

«Mi piacerebbe tanto avere qualcuno come te.»

«Nel tuo harem di spogliarelliste? Passo» gli faccio un cenno di mento e torno dalla moto.
«Nonostante non mi dispiacerebbe vederti nuda, non sono qui per questo, Veronica.»

Mi fermo. Ogni cosa si ferma. Il mondo, il mio cuore, le mie sinapsi. Sbarro gli occhi mentre il freddo colonizza ogni singolo attimo e l'asfalto mi viene a mancare da sotto i piedi. Sento le gambe gelatina pura.

«Veronica Francesca Kyle. È così che ti chiami.»
Non è una domanda. Lui lo sa e basta.

Deglutisco con forza, rimando indietro l'adrenalina che mi annebbia la testa, i riflessi e mi volto lentamente. Incontro i suoi occhi, che mi analizzano in un modo che definire disumano è poco.
Sulle labbra ha un sorriso sghembo e quello che ha innescato in me lo vede, gli piace, ne è consapevole.
Sto provando paura e non mi capita spesso. Ma lui ci è riuscito e non mi ha sfiorata, toccata, attaccata verbalmente o minacciata. Mi ha solo parlato, in un modo così calmo, rilassato e ha azzeccato le cose che mi passavano per la testa.

L'ansia mi assale tutto d'un tratto divorandomi dall'interno.
Cos'altro sa di me questo tizio?

«No, non so nient'altro.»
Rabbrividisco ancora di più.
Jay sospira. «Avrei potuto raccogliere la tua intera vita in una cartellina ma volevo conoscerti di persona, per questo il mio invito a pranzo che forse dovresti accettare.»

«E se non accettassi?» azzardo senza staccare gli occhi dai suoi.
Lui ci pensa su guardandosi intorno.
«Immaginavo che mi avresti risposto così, ma speravo tanto non lo facessi» fa teatralmente.
La moto è alle mie spalle. Il cuore, invece, mi pulsa all'impazzata. Voglio andarmene via da qui, subito.

«Ti lascio il tempo per ripensarci. Passerò di nuovo venerdì, stesso posto e orario» dice, sorprendentemente indietreggiando di un passo. Ma che sta facendo? Il suo improvviso cambio di atteggiamento mi lascia perplessa e tutta l'agitazione accumulata si annulla.

«Mi piacerebbe pranzare con te. Fossi in te, accetterei.»

«Altrimenti?» chiedo riducendo gli occhi in due fessure.
Jay sorride lievemente. «Ti perderesti un menù stellato al miglior ristorante di San Francisco e non mi vedresti mai più. Io vorrei rivederti però... spero in un tuo sì il prossimo venerdì.»

Ma che...

Gira i tacchi e se ne torna alla sua macchina in cui vedo salire non prima di avermi lanciato un'altra occhiata. La berlina passa accanto alla mia moto e le mie gambe si avvicinano.

«Mi piacerebbe avere qualcuno come te. Che significa?» chiedo visto che ha il finestrino abbassato. Non è qui per flirtare con me, non sembra per niente interessato. Allora che sta cercando?

Lui rallenta un po' e poggia il gomito sul finestrino.
«Chiedimelo di nuovo venerdì a pranzo e ti risponderò» si mette gli occhiali da sole. «Non preoccuparti per l'abbigliamento, metti qualcosa di comodo perché poi ti porterò in un posto che sono certo ti piacerà» sorride e se ne va.

Rimango a fissargli spiazzata il retro della macchina, le luci rosse, la barra sportiva, i pneumatici che sembrano nuovi di zecca mentre mi domando seriamente chi diavolo sia questo tizio.

***

A casa di Ethan, seduta sullo sgabello dell'isola della cucina, guardo il calendario appeso all'anta del frigorifero.
È l'8 maggio, ma le mie crocette con il marker nero smettono il 18 aprile. Sono passati tanti, troppi giorni e di Nicholas nemmeno l'ombra che sbuca dall'entrata del Pink Ocean. Nelle prime due settimane i miei occhi non facevano che guizzare da un cliente, ai drink sul vassoio e poi alla porta d'ingresso rischiando di farmelo scivolare dalle dita nonostante ormai la mia esperienza a portarlo in giro con mosse a dir poco acrobatiche quando il locale e stra affolato. La clientela a volte mi viene addosso, considerando il target di adolescenti chiassosi e iperattivi, quindi devo sempre tenere i nervi ben saldi per non imprecare oppure mollare un ceffone a un minorenne e farmi arrestare.

Caccio un forte sospiro prima di abbandonare lo sgabello. Afferro la borsa, la butto su una spalla ed esco di casa di Ethan. Lui non c'è, è al Pink Ocean per firmare alcune consegne. In sella alla Kawasaki raggiungo l'università.
Prendo posto al solito tavolo del bar e ordino un caffè che sorseggio in solitudine. Aprile è finito, il terzo mese. Forse laggiù è successo qualcosa, magari è normale che ci possano essere una o due settimane di ritardo per il rientro a casa. Insomma, è un posto pericoloso, gli incidenti capitano e ci sono ritardi. . Ci sono ritardi. Questo è un ritardo. Un solo e per niente preoccupante ritardo. Un semplicissimo ritard-

«Ciao, tesoro!»

Alzo il viso. Kim prende posto davanti a me, Nathalie appare e come al solito non si siede ma si butta sulla sedia quasi rischiando di cadere insieme ad essa, Duncan lo scorgo in lontananza, alza una mano e si avvicina.

«Ancora niente?» sento domandare. Torno con gli occhi su Kim. Corruccio la fronte.

«Nick» si spiega.
Ah... Nicholas. Scuoto la testa forzando un sorriso a labbra serrate che mi muore immediatamente. Non so nemmeno per quale ragione io abbia sorriso. Sento solo un macigno scavare in profondità delle mie budella. È da settimane che mi sto rifilando la giustificazione del ritardo, tanto che a momenti posso sentire la mia vocina interiore ripeterla con un tale velocità che Eminem ne sarebbe invidioso. Sto mentendo a me stessa, è questa la verità che non voglio ammettere.
È successo qualcosa. E il mio istinto mi sta urlando a tutto volume che si tratta di qualcosa di estremamente brutto. Gli è successo qualcosa. Al mio Nicholas è successo qualcosa mentre io sto qui seduta a questo tavolo di merda a bere il mio caffe di merda e continuare la mia vita di merda.

Cazzo. Gli occhi mi appannano senza riuscire a controllare le lacrime che vorrebbero il via libera per sfociare sulla mia pelle, rigarmi il viso per spegnere quella bruta sensazione che a lui sia successo qualcosa e che è lontano ore di fuso orario, mentre io non posso fare niente. Non posso chiamarlo o chiamare chiunque si occupi di mettersi in contatto con dei soldati in quella zona del mondo.

Non sono nessuno. Maledizione. Non sono nessuno e sapevo che sarebbe successo. Che mi sarei trovata in questa situazione e sarei stata impotente e... io  l'ho lasciato andare ugualmente. Avevo finalmente trovato la persona giusta e io l'ho semplicemente lasciata andare come se niente fosse. Che stupida.

«I...io devo a... devo fare una cosa. Scusate» mi alzo di getto e la voce mi si incrina. Passo accanto a Duncan che mi fissa  stranito e scappo via prima che qualcuno possa vedere la mia faccia, perché adesso le lacrime ci scivolano eccome. Ho un fottuto acquazzone che mi esce dalle ghiandole lacrimali. Sbatto più volte contro degli studenti mentre attraverso il campus col passo di una furia, gli occhi bassi affinché nessuno mi veda e il cuore che mi si stringe e mi fa male fisicamente.

Lui è morto. Ecco cos'è successo.

Nicholas è morto.

Non c'è nessun cazzo di ritardo. Lui è morto, forse sotto un cumulo di macerie, forse in un'esplosione, forse è disperso, forse adesso sta soffrendo il freddo e la fame, forse è stato catturato, adesso lo stanno torturando da qualche parte e forse lui sta urlando mentre gli conficcano dentro lame, mentre gli strappano le unghie, mentre...

Poggio una mano sul petto e mi fermo dietro uno scaffale della biblioteca universitaria. Non ci sono troppi studenti e gli unici sono seduti a dei tavoli mentre rileggono degli appunti o fanno delle urgenti ricerche.
Non respiro. Le gambe mi tremano, la mano sul petto non funziona perché il mio cuore sta battendo troppo lentamente e credo che non mi arrivi sangue necessario al cervello. Il senso di nausea mi avvolge, mi si avvinghia in ogni particella di corpo, sto tremando come una foglia, il diaframma si alza e si abbassa, arranco aria con disperazione. Le spalle scivolano contro i libri dietro di me, le ginocchia cedono e io non respiro. Lo sguardo sulle mie scarpe dura poco, la vista mi si annebbia, si annerisce, i miei sospiri si mischiano agli ansimi che sto cercando di fermare ma non ci riesco. Ho un attacco di panico.

È forte, talmente che mi grava sul petto come un macigno e qualcosa sembra martellarmi dall'interno. Le orecchie fischiano, un ronzio mi penetra i timpani. Sento il mio respiro rumoroso come il battito del mio cuore. Ogni suono intorno a me è sparito, ci sono solo i rumori del mio corpo e sono tutti amplificati al massimo. Il mio cuore fa bum. Bum. Ancora bum.
La mano sinistra è stretta in un pugno sul pavimento accanto la mia coscia, le unghie conficcate nel palmo. Mi serve sentire dolore. Dolore vero, non quello del mio cuore che si stringe ancora e ancor, Quello non è reale. Mi serve sentire le unghie scavare nella mia carne per farmi tornare in me.

Ma non ci riesco. Nel buio che avvolge la mia vista si presenta un volto. Occhi azzurri, lieve eterocromia all'occhio sinistro. Il sorriso sul suo viso illuminato dai primi raggi del sole che arrivano sul pontile. Il suo viso che mi guarda. Le sue mani che mi afferrano, mi circondano schiacciando le mie spalle contro il suo petto. La giacca da poliziotto addosso, blu scura. Le mie mani che si poggiano sulle sue braccia intorno a me e mi ci stringo di più a lui. Il silenzio del mare tranquillo, le onde che brillano e i rumori della gente del porto indaffarata già alle prime luci dell'alba.

«Hai freddo?» gli chiedo alzando il mento per dargli un'occhiata. Nicholas mi stringe ancora di più a lui. Quasi mi scricchiolano le ossa, ma vorrei solo che lo facesse di più. Nelle sue braccia io ci sprofonderei a vita, in un sonno eterno che potrebbe durare millenni.

«Solo un po'» ammette. Invece so che sta morendo di freddo ma il suo orgoglio da soldato gli impedisce di dirlo. Mi giro quindi e lui sembra stranito finché non scivolo con le gambe intorno ai suoi fianchi e lo abbraccio a me, poggiando il viso sul sul petto.

«Ti tengo al caldo io» mormoro con un sorriso

Lo sento ridere lievemente.

«E sacrifichi una vista bella come questa?» dice riferendosi al sorgere del sole. Mugugno un sì.

«Mi dici la tua ossessione per questa roba?» chiedo sul serio curiosa. Mi ci trascina qui molto più spesso dei soliti sabati mattino. Da quando è stato deciso che andrà in Iraq e non ci vedremo per mesi, lui ha diluito i nostri mattini sul pontile rendendoli più frequenti del solito.
Nicholas indugia per alcuni istanti. Mi stringe di più al suo petto e sprofonda col viso tra i mie capelli.

«Quella volta a quindici anni... quando la nave mercantile è stata messa in salvo è successo di mattino. Sono stato nascosto nella sala macchine per tutto il tempo e quando mi hanno trovato la prima cosa che ho visto era il sole che sorgeva. È stato...» si ferma e il mio cuore rimbalza per aver parlato di nuovo di quel lontano episodio della sua vita.

Mi allontano quanto basta per guardarlo in viso. Nicholas mi restituisce lo sguardo, lo pone poi alle mie spalle, sul cielo e ritorna da me. «Come se mi fosse data una seconda occasione. Ogni mattino tutti noi abbiamo seconde occasioni per trarre il meglio dalla vita, apprezzarla e farne buon uso.»

«E tu ci sei riuscito?» chiedo ipnotizzata dai suoi occhi ora colorati da sfumature arancioni. Abbozza un sorriso, talmente tenero da farmi sciogliere.

«Ci sto ancora lavorando» confessa poggiando le labbra sulle mie. Chiudo gli occhi, sorridendo appena.

«Domani sarà uno di quei momenti, no?» chiedo in un sussurro sulla sua bocca mentre il mio naso strofina il suo. «Di fare buon uso di tutto quello che... sei» aggiungo spiegandomi meglio e gli rubo un piccolo bacio.

«Spero di non deludere nessuno» dice con una punta di placida agitazione.
Lui è così, riesce a rendere anche la più terrificante delle situazioni il nulla. Ha questo strano superpotere. Ma domani lui partirà per l'Iraq e prego con tutta me stessa che questo potere lo sfrutti a suo vantaggio, che non si lasci sopraffare dalle emozioni, dai ricordi, dalla morte della sua intera squadra. Prego per lui come pregavo Dio che mi desse indietro mia madre, che facesse un miracolo perché la mamma se lo meritava. Non è successo, ma solo perché era impossibile perfino per Dio stesso nel quale negli ultimi anni dopo che mi aveva strappato via la mamma ho perso gradualmente la mia fede.
Adesso però mi appello a Lui. Nicholas è buono e Lui lo deve sapere, lo deve proteggere, in alternativa lo farà la mia mamma. Il suo ciondolo è intorno al collo di Nick, sotto la giacca da poliziotto. La mia mamma lo terrò al sicuro perché io amo lei e amo questo ragazzo così bello da rendermi poltiglia anche solo quando mi guarda di sfuggita. Io amo questo ragazzo, lo stesso che mi sta guardando e io guardo lui in tutto il suo splendore.

«Che c'è?» sorride scuotendo la testa confuso.

«Sei molto bello» confesso e torno col viso sul suo petto. Lo sento ridere lievemente.
«Anche tu, tesoro. Anche tu...»

Le mani mi tremano. Infilo gli auricolare nelle orecchie, premo play sull'ultima canzone che Spotify. A poco a poco, ad occhi chiusi, il mio respiro torna regolare, il battito si stabilizza e io mi tiro in piedi. Asciugo le lacrime, tiro tantissimo ossigeno nei polmoni e lo ricaccio fuori. Non è successo niente. Io sono forte, qui e adesso, sono forte. Devo esserlo perché se io non lo sono nessuno lo sarà per me. E devo esserlo altrettanto forte con la speranza. Perché essa è tutto ciò che mi rimane adesso e se la perdo io perdo Nicholas completamente.

Sono pronta per andare a lezione.

***

A passo svelto attraverso il corridoio del padiglione, esco fuori sulla scalinata in pietra e prendo posto tirando fuori una sigaretta. La ficco tra le labbra e mi sfilo via la felpa. L'aria calda di maggio quest'anno è più afosa di quanto mi aspettassi.
Caccio uno sbuffo quando tastando le tasche dei pantaloncini non trovo alcuna traccia dell'accendino, quindi trafugo rapidamente nella borsa per poi ricordare che l'ho lasciato nell'altro paio di pantaloni che ho a casa di Ethan.
Che palle, ora mi toccherà stare a secco senza un modo per smorzare la tensione accumulata durante tutta la giornata, oppure potrei sempre chiedere un accendino a qualche studente del campus ma il mio orgoglio me lo impedisce. Per quanto la mia lingua sia tagliente, sono una introversa testa di cazzo.

Rimango con la sigaretta spenta in bocca aspettandomi che magari la forza dei raggi solari scottanti me la accendano da un momento all'altro come un trucco di magia.

In fondo al campus scorgo Duncan, alzo una mano sventolandola nel vano tentativo di catturare la sua attenzione. Magari ha con sé un accendino nonostante la sua sigaretta elettronica, chissà. Duncan però non mi nota, continua per la sua strada diretto spedito verso il bar del campus quindi sono tenuta a rimettermi in piedi e andargli incontro.

Nemmeno il tempo di fare qualche decina di metri che in lontananza scorgo una scena abbastanza insolita.
Un ragazzino in bermuda cachi e t-shirt senza maniche gialla che con lo zaino in spalla sta correndo a perdifiato proprio verso il padiglione alle mie spalle.

La sua corsa è talmente frenetica che più volte rischia di inciampare nell'erba del prato. Con una smorfia confusa lo osservo e i suoi boccoli marroni mi sembrano famigliari. Corre ancora, avanza di passo e i suoi occhi marroni finiscono nei miei che riduco in due fessure alla vista del suo viso.

Carnagione olivastra, labbra sottili, naso tirato all'insù.
Ryan Zimmerman...?

Dalle sue spalle sbucano improvvisamente due ragazzi un po' più grandi che sembrano lo stiano rincorrendo.
Quando Ryan mi si avvicina di più quasi non perdo l'equilibrio. Afferra il mio braccio e slitta sull'erba rischiando di cadere con me addosso. Strabuzzo gli occhi spaesata, riprendo il controllo sulle ginocchia e pianto i talloni nell'erba. Lui, invece, si nasconde dietro le mie spalle.

Non mi dà tempo per chiedere chi o cosa, perché i due ragazzi che ora da più da vicino sembrano decisamente più grandi, col fiatone frenanono davanti a me.

«Zimmermann, esci subito da lì! Ti fai proteggere da una ragazza, vigliacco?!» ordina uno dei due ragazzi. Biondo e occhi scuri, lentiggini in faccia, carnagione talmente chiara che il rossone sulle guance per la corsetta che ha fatto sembrano due macchie di vernice.

«Spostati via dal cazzo!» mi ordina l'altro al suo fianco. Alto, bruno e vestito con dei jeans e una maglietta scura. Mi fa segno con la mano di volatilizzarmi mentre avanza, forse per aggirarmi e raggiungere Ryan verso cui mi volto lentamente e lo trovo a guardarmi con le guance rosse, gli occhi sgranati dalla paura e un sorrisetto nervoso sulle labbra, molto strano e innaturale.

«Ryan» lo saluto con voce calma, confusa da qualunque cosa stia succedendo e anche del perché lui si trovi qui. Non era uno studente di liceo che lavorava presso quella redazione giornalistica, la Untold Sparks?

Ryan alza una mano a disagio.
«Ciao...»

Lo guardo a lungo con le sopracciglia corrucciate mentre i due ragazzi continuano a dirmi di spostarmi e stanno urlando a Ryan di uscire allo scoperto e smettere di fare la femminuccia.

«Sono tuoi amici?» chiedo al ragazzino. Ryan tira le labbra in una linea diritta e non risponde. Immagino si tratti di un no.
Torno con gli occhi sui due e mollo loro un'occhiata dalla testa ai piedi.

«Hai sentito quello che ho detto? Levati dal cazzo!» mi ringhia contro quello biondo. «Zimmermann esci fuori, cacasotto! E ripeti quello che hai detto! Avanti! Fallo se hai il coraggio!»
Ryan invece se ne sta accovacciato alle mie spalle, attaccato a me come se fossi una sorta di scudo umano.

«Ryan?» lo chiamo tirando un profondo respiro. «Che hai combinato?» chiedo seriamente curiosa e a stento riesco a non ridere. Non lo vedevo da mesi interi, l'ultima volta è stata alla Untold Sparks quando ho spaccato il vetro dell'ufficio del Signor Minnik con una sedia. È stato molto bello, lo ammetto.

Ryan alle mie spalle caccia una risatina stridula e dà un'occhiata ai ragazzi davanti,  non avranno più di diciassette anni, e poi si tira di scatto indietro dov'era quando il biondo cerca di schivarmi e afferrarlo.
La mia mano parte come d'istinto, afferra il suo polso, lo tiro con uno strattone e gli rigiro il braccio tanto che il biondo caccia un urletto e si china di ginocchia per terra pur di allentare la presa.

«Ma che cazzo...» mormora il suo amico fissandomi ad occhi spalancati e diventa rigido tutto d'un tratto. Oh, adesso non fa più il prepotente. Ficco le pupille nelle sue e nei suoi occhi leggo qualcosa vagamente simile alla paura.

«Lasciami! Lasciam-» cerca di divincolarsi il biondo lamentandosi per il dolore, quindi gli rigiro di più il braccio e lui caccia un gridolino ancora più stridulo contorcendosi nelle ginocchia.

«Ryan?» chiamo di nuovo il ragazzino rimasto alle mie spalle verso cui mi volto mollandogli un'occhiata. «Cosa hai fatto a questi due per farti rincorrere in quel modo? Che volevate fargli?» chiedo questa volta tornando da loro. Quello bruno spalanca gli occhi e indietreggia di un passo.

«Niente... solo... solo parlare» risponde rapidamente guardandosi in giro e poi fissando il suo amico che sta per scoppiare in un pianto veramente imbarazzante.
Sbuffo con un sorriso sulle labbra.
«Ma davvero?» ironizzo non credendoci per niente.

«Parlate ora» gli faccio cenno con la testa e lui sembra in difficoltà. «Ma prima raccogli la mia sigaretta» indico con un indice a una ventina di centimetri dalle mie scarpe. Lui esita, mi guarda, deglutisce e poi come un razzo si china, la prende e si tira si in piedi. Magari teme che gli possa mollare un calcio a sorpresa, chissà.

Gli porgo il palmo. Lui la posa al centro e indietreggia frettolosamente. Solo allora mollo la presa sul polso del suo amico biondo che esala un sospiro di sollievo e si accascia sull'erba dolorante.

«Qualcuno ha da accendere?» chiedo ficcando la sigaretta tra le labbra. Quello che me l'ha raccolta sembra non capire di cosa io stia parlando.
«Credi che non sappia che ti fumi gli spinelli di nascosto?» ridacchio. Lui rimane sorpreso.
«Io, no, m-ma... lui sì. Ha l'accendino» indica il suo amico che solleva come di conseguenza il viso verso di me.

«Quindi?» comando scocciata scuotendo la testa. Deve darsi una svegliata perché altrimenti vado da Duncan e chiedo a lui un cazzo di accendino.

Il biondo senza dire una parola si controlla le tasche e me lo porge. Mi chino nelle ginocchia e al mio gesto si trascina lontano nemmeno fossi una sorta di predatore che se lo sta per divorare a velocità luce.

Sbuffo, gli faccio cenno di accedere e avvicino il viso alla fiamma. Ispiro finalmente la nicotina che rilassa i muscoli e caccio fuori il fumo.

«Dunque... Che volevate dire a Ryan?» mi tiro in piedi affiancando il ragazzino. I due ragazzi invece si mollano un'occhiata tra di loro e quello bruno risponde.
«Niente di che... Niente, davvero niente.»

Aggrotto la fronte.
«Non sembrava niente» gli faccio notare fumando la sigaretta che uso per indicare il bar del campus.

«Sediamoci. Così gli parlate in tutta tranquillità davanti a un caffè o... un bicchiere di latte, una cioccolata calda... e poi deciderò se chiamare o meno la polizia e farvi arrestare entrambi. Dubito che i vostri genitori vogliano vedervi in giro per il distretto perché stavate rincorrendo qualcuno per picchiarlo» sorrido.

«No! No, no! Noi... noi ce ne andiamo. Non ce n'è bisogno... noi adesso ce ne andiamo e sì... beh, non fa niente per quella cosa Ryan, davvero» risponde sempre lo stesso ragazzo togliendo gli occhi da me e ponendoli al ragazzino che solo pochi istanti fa volevano staccare via la testa dal collo. Quello biondo invece pare che qualcuno gli abbia strappato via la lingua dalla bocca. Non sono stata io, non ancora perlomeno.
E mentre quello con i capelli marroni e corti fa per indietreggiare ancora e svignarsela io lo fermo.

«Ho detto di sederci, non ho detto di scegliere se restare o andare» dico e posso vedere l'esatto momento in cui il suo viso diventa della stessa tonalità di un lenzuolo bianco.

«Quelli come voi che fate i prepotenti schiacciavo le mani negli armadietti della scuola. Lo sapete? E mi divertiva farlo... Quindi ora iniziate a camminare e...» sorrido e guardo il biondo ancora a terra, «sii gentile e dai una mano al tuo amico, uh?» dico e tiro un altro fumo di sigaretta.

Quello non se lo fa ripetere due volte. Tira in piedi il biondo, gli dice qualcosa a bassa voce guardandomi di sfuggita e poi si gratta la nuca nervoso.

«Ryan?» chiamo di nuovo il ragazzino che adesso è al mio fianco. Lui si volta mentre iniziamo a incamminarci al bar.
«Tua madre sa che ti sei cacciato di nuovo nei guai?» chiedo e gli occhi si poggiano sulla vetrata del locale oltre la quale vedo Logan. In piedi davanti al bancone sta aspettando probabilmente il suo caffè. È girato in mia direzione e guarda con fare stranito Ryan al mio fianco e gli altri due ragazzi.
Mi farei anche io due domande al suo posto.

A quanto pare sono finita in una sorta lite tra bulletti. Questo mi ricorda inevitabilmente il liceo che frequentavo a Wichita Falls, in Texas. Non ho dei bei ricordi in merito. Ho spezzato troppe dita e spaccato la faccia a molti studenti. Nella mia adolescenza c'è stata molta violenza, e sangue... tipo secchi di sangue in realtà ora che ci penso. Aiutavo molto spesso Bob della macelleria quando doveva uccidere uno dei maiali del suo allevamento e scorazzavo i secchi di sangue da una parte all'altra quando appendeva i maiali a testa in giù e ragliava loro le gole.

«Non ho fatto niente» risponde Ryan a bassa voce cercando di non farsi sentire dai due ragazzi a cui mollo un'occhiata con la coda dell'occhio e li scopro a fissarmi.
«Cosa ha fatto?» chiedo ai due quindi. Vorrei delle delucidazioni in merito. Non è la prima volta che becco Ryan Zimmerman a fare cose che non dovrebbe affatto, spero per lui che non si sia messo di nuovo a pedinare persone per quella stupita testata giornalistica.

«Ha scritto uno dei suoi articoli del cazzo su mia sorell-»
«Linguaggio» lo ammonisco e il biondo si morde subito la lingua. Spengo la sigaretta, la butto nel cesto dei rifiuti accanto all'entrata del bar e spingo la porta entrando dentro.

«Che tipo di articolo?» chiedo davvero curiosa. Ultimamente mi sto demoralizzando, magari pensare ad altro, quindi a banali liti tra adolescenti, mi sarebbe d'aiuto.

«Mia sorella è il capo delle cheerleaders» risponde il biondo. Gli scocco una smorfia abbastanza schifata.
Ah...

Indico un tavolo libero.
«Ora sedetevi e state buoni. Se vi vedo alzare le mani, ve le spezzo e poi vi trascino direttamente alla stazione di Polizia» dico senza troppi giri di parole. Loro prendono posto e i due ragazzi inceneriscono Ryan con lo sguardo, vorrebbero dargli un pugno in faccia ma si astengono con forza.

Raggiungo il bancone del bar e ordino un caffè, e tre decaffeinati. Non so che bevano i bulletti, ma sicuramente Ryan non berrà del vero caffè, non in mia presenza.
Logan è al mio fianco.

Non lo vedevo da diverse settimane, sarà stato troppo occupato da suo figlio probabilmente. Per quanto riguarda il posto di lavoro al Pink Ocean non so se abbia fatto o meno il colloquio. Non ho chiesto a Ethan e lui non mi ha detto niente, quindi magari non lavora lì come voleva farmi credere che avrebbe fatto.
L'ho visto solo una volta in realtà, alcuni giorni fa e anche di sfuggita. Logan è andato per la sua strada e io per la mia. Immagino mi abbia voluto ignorare dopo la nostra ultima discussione. Ho detto un paio di cose, fatte un altro paio e mi sono comportata da perfetta stronza.

Mi poggio di spalle al bancone del bar attendendo le bevande, porto le braccia conserte e fisso i tre ragazzi. I due bulletti si bisbigliano qualcosa a vicenda come se stessero architettando la rapina del secolo e il loro sguardo poi sfugge su di me.
Alzo lievemente le dita muovendolo a mo' di saluto e torno a braccia conserte. Il mio gesto li fa smettere di colpo di parlare. Si sistemano meglio sulle loro sedie e cala il silenzio tombale.

Gli adolescenti sono così... stupidi.

«Sembri mia madre quando sgridava in pubblico me e Liz» sento una voce sussurrare al mio orecchio. Il colpo d'aria caldo sulla mia pelle mi fa a tratti trasalire. Giro lentamente la testa verso Logan che trovo di lato, appoggiato con un braccio sulla superficie in marmo.

«Conosci quei ragazzini?» chiede posando lo sguardo su di loro. Caccio un sospiro.
«Solo quello con la maglietta gialla che ha l'aspetto di un barboncino.»
«Quanti anni ha?» aggrotta la fronte con una smorfia confusa.
«Quindici se non sbaglio.»

Logan rimane per alcuni secondi in silenzio a scrutare Ryan a fondo.
«Non è un po' troppo piccolo per te?» ridacchia divertito chinando il viso vicino al mio.
Mi viene istintivo guardarlo male.

«Chiudi la bocca» ordino seccata e torno dal barman. Pago, prendo i bicchieri quando la mano di Logan si scontra con la mia. Una scarica elettrica mi attraversa il corpo da cima a fondo.
Alzo il viso pronta per dirgli che diavolo sta pensando di fare, quando mi anticipa.
«Ti aiuto» dice e prende il suo bicchiere, uno tra i tanti decaffeinati e raggiunge il tavolo dove sono seduti i ragazzi.

Sospiro pesantemente ma decido di lasciar perdere, quindi prendo gli altri tre bicchieri rimanenti e lo seguo a ruota.
Prendo posto accanto a Ryan e rimango abbastanza spiazzata quando Logan tira una sedia dal tavolo vicino e si siede anche lui, ad essere precisi tra me e il biondo al quale ho quasi spezzato il braccio.

I due ragazzi fissano me, poi Logan e i loro occhi non si spostano più via. Rimangono a squadrarlo intensamente e mi domando sul serio cosa ci sia di così speciale in lui. Insomma... è alto, oggi ha i capelli legati con un elastico, indossa il solito paio di cargo e la giacca di pelle e i tatuaggi sbucano sul collo scoperto e le mani.
Mani che si muovono, afferrano la giacca, la sfilano via rimanendo in una t-shirt bianca che crea un contrasto troppo vivido con la pelle abbronzata e le braccia tatuate.

Posa la giacca in grembo, tira su una gamba e la poggia sul ginocchio. Si slega i capelli, li scuote e ci passa una mano di mezzo per poi prendere il suo caffè.
Beve un sorso e i suoi occhi pece ci fissa.

«Che c'è?» parla con aria confuso.

C'è che il suo un metro e ottanta, i muscoli e tutti gli altri accessori ulteriori gli danno quella magnetica e violenta aria da cattivo ragazzo che nessuno dovrebbe mai osare disturbare. E se prima i due bulletti fissavano me in quel modo, adesso io sono passata in secondo piano. La verità è che Logan è tutta apparenza. Mentre io non devo sul serio essere disturbata perché mi incavolo facilmente, eppure lui mi ha rubato la scena. Incredibile...

«Sei bellissimo...» mormora Ryan al mio fianco sbloccandosi di getto. Gli rivolgo un'occhiata e lo becco a guardare Logan con gli occhi a forma di cuore. «E hai una voce bellissima» aggiunge ancora.

Che ha detto?

***

Angolo autrice

Ryan che torna nella storia mi fa morire ahaha
Vabbè adoro tutto.

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